La fame nei miei occhi
di
Tudavantiagliocchi12
genere
dominazione
La stanza è avvolta da un silenzio che sembra pesare come una coperta troppo stretta. Non c'è musica, non c'è distrazione, solo il suono dei miei passi leggeri sul pavimento di legno. Mi avvicino alla poltrona dove lui è seduto, in attesa. La luce è morbida, ma entra da una finestra troppo piccola per poter sfuggire alla sensazione di claustrofobia che mi assale ogni volta che mi trovo qui. È il suo posto, il suo angolo, e io sono solo un elemento del suo rituale.
Indosso quello che mi ha chiesto di mettere. La gonnellina nera a strisce bianche, il top corto rosa, calzini bianchi e rosa che arrivano fin sopra le ginocchia. Come sempre, non c'è trucco sul mio viso. Solo le mie lentiggini, come piccole macchie di sole su una pelle altrimenti piatta, priva di emozioni.
Non mi piace come mi fa sentire. Non mi piace quello che mi fa fare. Eppure, ogni settimana sono qui, a indossare gli stessi vestiti, a sedermi nello stesso posto, a fare esattamente quello che lui si aspetta. Non è una costrizione fisica, lo so, ma è una costrizione psicologica. Non è per forza di legge che devo essere qui. Non sono legata, non sono prigioniera. Ma in qualche modo lo sono, lo sono ogni volta che mi guardo allo specchio e vedo questo corpo che non è mio. Non è più mio, o almeno, non lo è quando lui mi guarda.
Lui è seduto sulla poltrona, l'aspetto che ha non è quello di un uomo particolarmente affascinante. Anzi, ha un'aria quasi banale. Un uomo di mezza età, con qualche ciocca bianca che gli incornicia il viso e una pelle olivastra che tradisce radici lontane. Non è muscoloso, non ha l'aspetto di chi si cura di sé, eppure, c'è qualcosa nei suoi occhi che mi inquieta, qualcosa che mi dice che ha il controllo. Sempre. Su tutto.
I suoi occhi sono su di me, come lo sono sempre stati, ma oggi c'è qualcosa di diverso. C'è una lentezza, un'attesa che mi mette ancora più a disagio. Mi scruta senza fretta, come se ogni piccolo movimento che faccio fosse parte di un gioco che solo lui conosce. Mi ha scelto. È sempre stato così, ma oggi, in qualche modo, mi sembra che lo stia facendo con una consapevolezza più marcata. Mi ha scelto di nuovo, con i miei vestiti, con la mia immagine, quella che lui trova piacevole, quella che lo fa sentire... completo, forse? Non so. Non voglio saperlo.
"Posso sedermi?" la mia voce è più piccola di quanto avrei voluto, ma non c'è niente che possa fare. Se lui non mi dice di fare qualcosa, lo farò comunque. È la mia parte del patto che non posso più sfuggire.
Lui scuote lentamente la testa, ma non dice nulla. Io non voglio dire nulla. Non siamo qui per parlare. Mai. Ma oggi mi sembra diverso. Mi sembra che non voglia nemmeno guardarmi davvero, ma che stia cercando qualcosa in me. Forse qualcosa che non c'è. O qualcosa che io stessa non so più riconoscere.
Mi abbasso un po', il corpo rigido, ma non posso fare a meno di sentire il suo sguardo che mi osserva da lontano, come una specie di giudizio silenzioso. Quello che mi fa sentire piccola, che mi fa sentire come se avessi 12 anni, anche se ne ho molti di più. Come se quei vestiti mi riducessero a qualcosa di più semplice, più giovane, più vulnerabile. Mi odio per questo, ma non posso evitarlo.
Il respiro si fa più pesante. La sua mano, lenta e precisa, si alza verso di me. Non è un gesto brusco, ma qualcosa che mi fa fremere, come se tutto ciò che fa fosse calibrato in modo da farmi sentire più esposta, più in balia di lui. Mi invita a fare quello che mi aspetta. Non con le parole, ma con un semplice cenno. Io lo capisco, come sempre. E non posso tirarmi indietro.
Con una leggera inclinazione della testa, inizio. La mia bocca si fa più vicina, le labbra si schiudono per accoglierlo. Non c'è passione, non c'è desiderio. Il mio corpo è solo un mezzo, una macchina che esegue un'azione, eppure sento gli occhi di lui incollati su di me, uno sguardo che non si allontana mai. Sento il sapore del suo cazzo, che non mi piace. Leccandolo, non mi eccito. Non provo nulla, eppure mi impegno. Inginocchiata in mezzo alle sue gambe a dargli piacere, senza che io provi nulla. Sono lì al suo servizio, come un soldato. Mi impegno a metterlo tutto in bocca, fino alla gola. Mi impegno nel cercare di respirare, rischiando di soffocare. Lo tengo dentro e gli succhio via anche l'anima. Creo filamenti bavosi per tutta l'asta e produco un mix di saliva e sperma in abbondanza. Gli sento i nervi tesi e il sangue che gli rende il cazzo durissimo.
Mi sta guardando, e in quel momento so che è quello il suo piacere. Non c'è bisogno di altro. La mia bocca, la mia umiltà. È tutto ciò che gli serve. Lo guardo a mia volta e lui mi afferra ai lati della testa, aggrappandosi ai due codini. Mi spinge contro di lui, irruento.
Il pensiero di quello che sto facendo mi si accende nella mente come una fiamma, ma non lo posso fermare. Non posso cambiare il mio ruolo in questo gioco. L'incubo di essere solo un oggetto da usare mi assale, ma continuo, i miei movimenti diventano più meccanici. Lo faccio con una rapidità che mi fa sentire vuota, quasi come se non fossi nemmeno lì. Lui viene qualche secondo dopo, nella mia gola e i miei conati di vomito rimbombano sul suo cazzo.
Lui non cambia mai. Non si muove, non fa altro che guardarmi. E in quel guardarmi, c'è tutto quello che lui cerca. Non mi tocca, non mi parla, ma ogni suo respiro sembra segnare il ritmo di questa situazione, come se anche lui, in fondo, si stesse adattando a un mondo che non ha bisogno di parole. Un mondo dove non è necessario altro che il silenzio condiviso.
E io, chiusa in questo spazio che non è né il mio né il suo, so che niente cambierà. La sua passività, il suo desiderio di vedermi lì, così come sono, lo soddisfa. È questa la sua forma di possesso, e io, involontariamente, continuo a essere parte di questo quadro.
Mi tolgo da quella posizione e vi mi metto in piedi. Accenno un sorriso falso e mi sputo sulle mani la sborra calda che ho nella gola. Mi passo le mani sulla gonnellina, macchiandola e poi mi tocco sopra le mutandine. Lui se ne sta lì impalato, fermo, inerme.
Penso al ragazzo di giovedì sera.
Indosso quello che mi ha chiesto di mettere. La gonnellina nera a strisce bianche, il top corto rosa, calzini bianchi e rosa che arrivano fin sopra le ginocchia. Come sempre, non c'è trucco sul mio viso. Solo le mie lentiggini, come piccole macchie di sole su una pelle altrimenti piatta, priva di emozioni.
Non mi piace come mi fa sentire. Non mi piace quello che mi fa fare. Eppure, ogni settimana sono qui, a indossare gli stessi vestiti, a sedermi nello stesso posto, a fare esattamente quello che lui si aspetta. Non è una costrizione fisica, lo so, ma è una costrizione psicologica. Non è per forza di legge che devo essere qui. Non sono legata, non sono prigioniera. Ma in qualche modo lo sono, lo sono ogni volta che mi guardo allo specchio e vedo questo corpo che non è mio. Non è più mio, o almeno, non lo è quando lui mi guarda.
Lui è seduto sulla poltrona, l'aspetto che ha non è quello di un uomo particolarmente affascinante. Anzi, ha un'aria quasi banale. Un uomo di mezza età, con qualche ciocca bianca che gli incornicia il viso e una pelle olivastra che tradisce radici lontane. Non è muscoloso, non ha l'aspetto di chi si cura di sé, eppure, c'è qualcosa nei suoi occhi che mi inquieta, qualcosa che mi dice che ha il controllo. Sempre. Su tutto.
I suoi occhi sono su di me, come lo sono sempre stati, ma oggi c'è qualcosa di diverso. C'è una lentezza, un'attesa che mi mette ancora più a disagio. Mi scruta senza fretta, come se ogni piccolo movimento che faccio fosse parte di un gioco che solo lui conosce. Mi ha scelto. È sempre stato così, ma oggi, in qualche modo, mi sembra che lo stia facendo con una consapevolezza più marcata. Mi ha scelto di nuovo, con i miei vestiti, con la mia immagine, quella che lui trova piacevole, quella che lo fa sentire... completo, forse? Non so. Non voglio saperlo.
"Posso sedermi?" la mia voce è più piccola di quanto avrei voluto, ma non c'è niente che possa fare. Se lui non mi dice di fare qualcosa, lo farò comunque. È la mia parte del patto che non posso più sfuggire.
Lui scuote lentamente la testa, ma non dice nulla. Io non voglio dire nulla. Non siamo qui per parlare. Mai. Ma oggi mi sembra diverso. Mi sembra che non voglia nemmeno guardarmi davvero, ma che stia cercando qualcosa in me. Forse qualcosa che non c'è. O qualcosa che io stessa non so più riconoscere.
Mi abbasso un po', il corpo rigido, ma non posso fare a meno di sentire il suo sguardo che mi osserva da lontano, come una specie di giudizio silenzioso. Quello che mi fa sentire piccola, che mi fa sentire come se avessi 12 anni, anche se ne ho molti di più. Come se quei vestiti mi riducessero a qualcosa di più semplice, più giovane, più vulnerabile. Mi odio per questo, ma non posso evitarlo.
Il respiro si fa più pesante. La sua mano, lenta e precisa, si alza verso di me. Non è un gesto brusco, ma qualcosa che mi fa fremere, come se tutto ciò che fa fosse calibrato in modo da farmi sentire più esposta, più in balia di lui. Mi invita a fare quello che mi aspetta. Non con le parole, ma con un semplice cenno. Io lo capisco, come sempre. E non posso tirarmi indietro.
Con una leggera inclinazione della testa, inizio. La mia bocca si fa più vicina, le labbra si schiudono per accoglierlo. Non c'è passione, non c'è desiderio. Il mio corpo è solo un mezzo, una macchina che esegue un'azione, eppure sento gli occhi di lui incollati su di me, uno sguardo che non si allontana mai. Sento il sapore del suo cazzo, che non mi piace. Leccandolo, non mi eccito. Non provo nulla, eppure mi impegno. Inginocchiata in mezzo alle sue gambe a dargli piacere, senza che io provi nulla. Sono lì al suo servizio, come un soldato. Mi impegno a metterlo tutto in bocca, fino alla gola. Mi impegno nel cercare di respirare, rischiando di soffocare. Lo tengo dentro e gli succhio via anche l'anima. Creo filamenti bavosi per tutta l'asta e produco un mix di saliva e sperma in abbondanza. Gli sento i nervi tesi e il sangue che gli rende il cazzo durissimo.
Mi sta guardando, e in quel momento so che è quello il suo piacere. Non c'è bisogno di altro. La mia bocca, la mia umiltà. È tutto ciò che gli serve. Lo guardo a mia volta e lui mi afferra ai lati della testa, aggrappandosi ai due codini. Mi spinge contro di lui, irruento.
Il pensiero di quello che sto facendo mi si accende nella mente come una fiamma, ma non lo posso fermare. Non posso cambiare il mio ruolo in questo gioco. L'incubo di essere solo un oggetto da usare mi assale, ma continuo, i miei movimenti diventano più meccanici. Lo faccio con una rapidità che mi fa sentire vuota, quasi come se non fossi nemmeno lì. Lui viene qualche secondo dopo, nella mia gola e i miei conati di vomito rimbombano sul suo cazzo.
Lui non cambia mai. Non si muove, non fa altro che guardarmi. E in quel guardarmi, c'è tutto quello che lui cerca. Non mi tocca, non mi parla, ma ogni suo respiro sembra segnare il ritmo di questa situazione, come se anche lui, in fondo, si stesse adattando a un mondo che non ha bisogno di parole. Un mondo dove non è necessario altro che il silenzio condiviso.
E io, chiusa in questo spazio che non è né il mio né il suo, so che niente cambierà. La sua passività, il suo desiderio di vedermi lì, così come sono, lo soddisfa. È questa la sua forma di possesso, e io, involontariamente, continuo a essere parte di questo quadro.
Mi tolgo da quella posizione e vi mi metto in piedi. Accenno un sorriso falso e mi sputo sulle mani la sborra calda che ho nella gola. Mi passo le mani sulla gonnellina, macchiandola e poi mi tocco sopra le mutandine. Lui se ne sta lì impalato, fermo, inerme.
Penso al ragazzo di giovedì sera.
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