L'oscuro passeggero seconda parte

di
genere
trio

La donna si mosse ancora. Un passo lento, poi un altro, fino a trovarsi vicinissima. Troppo per lasciar spazio a qualsiasi resistenza. Il corpo quasi aderente al suo, ma senza toccarla davvero, se non con il respiro e con l’intenzione. Bea sentì prima il calore, poi la pressione lieve di due labbra sul collo, proprio sotto l’orecchio. Un bacio lento, umido, a malapena un tocco — ma bastò a farle trattenere il fiato, come se quel bacio potesse scioglierla da dentro.

E poi, la voce.

Bassa. Intima. Come se fossero sole, in una stanza chiusa. Come se il bar, le luci, la gente, non esistessero più.

— «Ti è piaciuto guardarci?»

Un sussurro diretto all’orecchio, preciso come una lama, ma caldo come velluto.

— «Sei venuta mentre mi prendevano, vero?»

Bea deglutì. Le parole le si erano conficcate dentro come dita sotto la pelle. La mano che ancora stringeva il bicchiere tremò appena, impercettibile. Le labbra socchiuse, ma non uscì alcun suono.

La donna si avvicinò ancora, sfiorandole la guancia con il naso, poi continuò, accarezzandole la mente con la stessa lentezza con cui si sfiora una pelle già scottata.

— «Io ho adorato che tu fossi lì. Lo sentivo, sai? Anche se non ti vedevo. Due uomini per me… e una donna che bramava di essere al mio posto.»

Un sospiro. Un altro bacio leggero, stavolta più vicino alla clavicola. E infine:

— «Vero?»

Bea chiuse gli occhi per un istante. Le parole l’avevano attraversata come un colpo secco, avevano richiamato immagini che non si erano mai veramente dissolte. Sentì le cosce stringersi istintivamente, le labbra leggermente inumidite, la gola secca. Il suo corpo, ancora una volta, stava rispondendo prima di lei.

Sì. Era vero.
Tutto.
Ogni parola.

La donna era lì, a un respiro dal viso di Bea. Il sorriso sulle labbra si fece più aperto, quasi crudele nella sua calma. Non cercò un bacio. Non cercò dolcezza.

Tirò fuori la lingua, lentamente, come una promessa sfacciata. E senza distogliere lo sguardo da quello di Bea, gliela passò sulle labbra. Un gesto pieno, lascivo, umido, che disegnò il contorno della bocca con intenzione precisa. Non era un bacio. Era una dichiarazione di possesso. Di dominio. Di gioco spudorato.

Bea trattenne il respiro, le labbra ancora socchiuse, invase da quella sensazione calda e intima. La pelle del volto le vibrava, il cuore sembrava spinto contro le costole.

Contemporaneamente, i due uomini si mossero.

Le presero i polsi con naturalezza, senza violenza, ma con una determinazione che non lasciava alternative. Le mani di Bea furono guidate verso le loro cinture, verso la tensione evidente sotto i pantaloni. Le dita sfiorarono la stoffa, sentirono la forma netta, la consistenza viva. E si chiusero istintivamente, come se il corpo sapesse già cosa fare.

La donna, intanto, non aveva mai smesso di sorridere. Con una mano le stringeva ancora il capezzolo, pizzicandolo attraverso la canottiera con lentezza sadica, l’altra ora le scivolava lungo il fianco. Il suo fiato le accarezzava la guancia.

— «Hai voglia. Da oggi. Lo sappiamo tutti. Anche tu.»

Bea era in trappola.

Era come se il tempo si fosse liquefatto.

Bea non distingueva più ciò che stava realmente accadendo da ciò che il suo corpo le raccontava attraverso i brividi. Era in piedi, nel mezzo di una piazza viva, eppure avvolta in un silenzio irreale. I rumori del mondo sembravano venire da un’altra stanza. In quella in cui si trovava lei — chiusa, sospesa — c’erano solo corpi. Caldi. Tesi. Pretendenti e padroni insieme.

Le mani erano ancora lì, guidate dai due uomini che l’avevano affiancata. Le dita si erano poggiate sulla stoffa dei loro pantaloni, e poi… avevano iniziato a muoversi. Non per volontà cosciente. No. Era come se le mani non fossero più le sue. Massaggiavano lentamente, con movimenti ritmici e misurati, tracciando la lunghezza sotto il tessuto con una familiarità che Bea non riconosceva. O forse sì. Ma non osava ammettere.

Nel frattempo, la donna era sempre più vicina. La sua mano stringeva il capezzolo di Bea con una lentezza crudele, senza pietà, alternando pizzichi e pressioni. L’altra si era posata sul fianco nudo, là dove il top finiva e i jeans scoprivano la pelle liscia e tesa del suo ventre. Un tocco costante, morbido e presente come una morsa di velluto.

Le labbra di Bea si dischiusero appena, non per parlare. Solo per respirare. O forse per ricevere.

La lingua della donna era ancora lì, a un soffio dalla sua bocca. Bea si trovò a desiderarla. A desiderare quel gesto osceno e animalesco che solo pochi minuti prima avrebbe reputato impensabile. Il pensiero la trafisse come un lampo oscuro: voglio essere baciata da lei. Voglio che mi usi. Davanti a tutti.

Era un desiderio che la terrorizzava e l'eccitava insieme.
Era la fine di qualcosa.
E l'inizio di tutto il resto.

Il cuore le martellava nel petto. Il respiro era diventato un ansimare silenzioso. Il sangue scorreva ovunque tranne che nel cervello. E dentro… dentro di sé, qualcosa si scioglieva. Una diga che crollava, lasciando uscire ogni impulso mai represso, ogni fantasia mai detta.

«Fermati», avrebbe potuto pensare. Ma non lo fece.

E poi, la voce.

— «Tutto a posto, Bea?»

Come un colpo secco in una stanza buia, la voce del barista arrivò dall’altro lato del bancone, limpida, inopportuna, reale.

Bea non riuscì a voltarsi subito. Il mondo le crollò addosso in un istante. Il corpo rigido, il fiato bloccato a metà gola. Il gelo della realtà, improvviso, che si infilava sotto la pelle ancora calda.

Avrebbe voluto sparire.
Avrebbe voluto gridare.
Avrebbe voluto rispondere: no, non è tutto a posto, non lo sarà più.

Ma invece restò lì. Immobile.
Le mani ancora poggiate sui due uomini, i polpastrelli tremanti.
Le labbra ancora socchiuse, tese verso la donna.

Un battito ancora.

E tutto, dentro di lei, era un tumulto di vergogna e brama, paura e godimento.
Una sola certezza: era già andata troppo oltre per tornare indietro.

— «Sì… tutto bene, grazie.»

La voce di Bea uscì roca, più bassa del solito, incerta. Cercò di sorridere al barista, un’espressione che somigliava più a un riflesso che a un’emozione vera. Lui annuì distrattamente e si allontanò, tornando a servire un gruppo di clienti poco più in là.

Ma il momento si era spezzato.

La magia… svanita.

La donna, percependolo, si era appena scostata. Non di molto. Giusto quanto bastava per lasciarle un sottile vuoto addosso, come la pelle che freme ancora dopo un colpo improvviso. Con movimenti aggraziati e padroni, riprese in mano il bicchiere di Bea, lo osservò un istante con la testa leggermente inclinata, poi ne bevve un altro sorso, socchiudendo gli occhi per assaporarne la forza.

Il suo sguardo tornò su Bea. Era mutato. Non più seduttivo, ma valutante. La stava scrutando come si guarda un’opera d’arte incompleta. Un oggetto prezioso, ancora non del tutto addomesticato.

Poi fece un passo avanti.

Le prese il viso tra le dita, con una delicatezza quasi surreale, e la baciò. Un bacio leggero, preciso, sulle labbra ancora umide e appena aperte. Un tocco fugace, ma pieno di intenzione. Come un sigillo.

Si allontanò di un passo.

E parlò.

La voce era bassa, morbida, ma ogni parola cadde come una pietra lucida sul pavimento dell’anima di Bea.

— «Domani… tocca a te.»

Un secondo di silenzio, poi continuò.

— «Loro ti aspetteranno nella radura. Io sarò dietro un albero, come lo eri tu. E tu… sarai loro.»

Bea non riusciva a distogliere lo sguardo. Non ci provava neppure.

— «Useranno tutto il tuo corpo. Tutto. Per il loro piacere. Faranno di te ciò che vorranno. Senza chiedere. Senza spiegare. Senza pietà.»

Ogni parola sembrava vibrare nelle ossa. Bea tratteneva il fiato, ma sentiva il cuore battere ovunque.

— «Saranno entrambi dentro di te. Insieme. Proverai sensazioni che non hai mai nemmeno osato immaginare. E ti piacerà.»

Un sorriso, appena accennato, spuntò sulle labbra della donna, come un’ombra elegante.

Poi l’ultima frase.

— «Da domani sera… ti riferirai a te stessa con l’appellativo di troia.»

E basta.

La donna le restituì il bicchiere, poi si voltò con calma, i tacchi che ticchettavano sul selciato, i fianchi che ondeggiavano con grazia. I due uomini la seguirono, uno dopo l’altro, come felini sicuri di aver già marchiato il territorio.

Bea restò immobile.
Con il cocktail in mano, le gambe molli, le labbra ancora bagnate.

Nel petto… un fuoco lento.
Nel ventre… un vuoto affamato.
E nella mente… una parola sola, che ora le bruciava addosso come un marchio.

Troia.

Bea restò sola.

Lei e il suo drink.

La piazza era tornata a respirare nella sua normalità, ma per lei tutto era cambiato. Si guardò intorno con occhi nuovi, più lucidi, più stanchi. Il bicchiere tra le dita le tremava appena. Lo sollevò e lo osservò.

Il liquido rosso sembrava pulsare nella luce calda del tramonto ormai sbiadito. Un rosso profondo, denso, quasi vivo. Era il colore dell’eros. Della trasgressione. Del peccato. Lo fissò a lungo, come se potesse leggervi dentro il proprio riflesso, ma quello che vide non fu un volto. Fu un’immagine: il suo corpo nudo, mani ovunque, respiri spezzati.

Portò il bicchiere alle labbra e bevve tutto in un solo sorso.

L’alcol scese rapido in gola, bruciandole appena il petto, ma anche placandole i pensieri. Le spalle si rilassarono. Il battito rallentò. Le difese, però, si abbassarono insieme. E con esse, tornò l’eco.

Troia.

Non era solo una parola. Era una voce dentro di lei. Un sussurro che non smetteva di chiamarla, di interrogarla, di tentarla.

Posò il bicchiere vuoto sul bancone e rivolse un cenno al barista.
— «Buona serata…» mormorò, appena udibile.
Lui le restituì un sorriso educato.
Ma non poteva sapere.

Si voltò e si incamminò verso casa.

Il passo non era più sicuro. Il ticchettio dei tacchi non più orgoglioso. Si era ammorbidito, quasi incerto. Ogni passo sembrava interrogarsi: sto davvero andando via? O sto tornando da qualcosa che ho appena scoperto?

La coda alta ondeggiava ancora, ma ora non sembrava più una dichiarazione. Sembrava un residuo. Un’eco di una sicurezza che, forse, non c’era più. O che stava cambiando forma.

Nel buio della strada, tra i lampioni isolati, il silenzio diventava più denso.

Bea sentiva l’aria fresca sulle cosce, la stoffa del jeans ancora tesa sui glutei, il sapore del rossetto mischiato a quello dell’alcol.

E intanto, la parola…
Quella parola…

Troia.

Non riusciva a scacciarla.
Non voleva davvero.
Si chiedeva, mentre avanzava: quanto è lontana casa?
Ma la domanda non riguardava solo la strada.

Riguardava lei.

La porta si chiuse alle sue spalle con un colpo sordo. Di nuovo. Come nel pomeriggio. Ma stavolta il corpo che vi si appoggiò non era solo stanco: era sconvolto. Ubriaco di alcol, sì, ma anche e soprattutto di emozioni. Di sguardi. Di contatti. Di promesse sussurrate che avevano strappato via ogni maschera.

Il fiato le tremava in petto, le gambe erano molli, la testa leggera.

Scivolò giù dai tacchi con un gesto automatico, lasciandoli lì, abbandonati, come se non avessero più alcuna importanza. Poi avanzò a piedi nudi sul pavimento freddo, ogni passo un fremito, ogni contatto con il suolo una scossa di realtà. Slacciò i jeans con lentezza e li lasciò cadere tra l’ingresso e la cucina, camminando oltre come se stesse spogliandosi di qualcosa di più profondo.

Ora era in canottiera e tanga. Nulla di più. Nulla di meno.

Aperta la credenza, prese una bottiglia di prosecco, ancora chiusa. La tenne tra le mani come se fosse un oggetto prezioso, fragile. Ma non era la sete a guidarla. Era il bisogno. Il bisogno di riempire quel vuoto che sentiva crescere dentro di sé da ore, da giorni, forse da sempre.

Stappò la bottiglia con un lieve schiocco. Il suono del tappo la fece trasalire. Le sembrò un’eco di qualcosa che stava per aprirsi anche dentro di lei. Versò il vino in un calice, ne bevve un sorso abbondante, lasciando che le bollicine pizzicassero la lingua, la gola, lo stomaco.

Poi abbassò lo sguardo.

La forma della bottiglia, alta, affusolata, le rimase impressa nella mente con una nitidezza sconvolgente. Le dita che stringevano il bicchiere tremarono. Un fremito. Un lampo. Un desiderio troppo audace per essere ignorato.

Posò il calice sul tavolo con un movimento lento, quasi devoto.

Poi, con una lentezza piena di consapevolezza, appoggiò la bottiglia per terra.

Il silenzio nella cucina era assoluto. Ma dentro di lei, il cuore batteva come un tamburo primitivo.

Spostò il tanga. Senza esitazione.
Si abbassò.
Si lasciò andare.

E trovò ciò che cercava.

Non era solo piacere.
Era conferma.
Era un passo oltre.

Il piacere arrivò come un’onda improvvisa, tremenda e bellissima. Non lo aveva cercato davvero, non in quel modo, non così violento. Ma quando la scosse, la travolse completamente. Il corpo le tremò. Le cosce si irrigidirono. Le mani cercarono un appiglio che non c’era. La testa si gettò all’indietro, la bocca aperta in un respiro senza suono.

L’orgasmo la attraversò come una corrente elettrica, incontrollabile, profonda, calda. E nella sua intensità, la penetrazione si fece ancora più viva, ancora più piena. Il suo ventre sembrava farsi fuoco e carne insieme. La bottiglia, fredda e perfetta, diventava parte di lei. E lei non era più padrona di nulla. Solo una creatura percossa dal godimento.

Restò così. Immobile.
Le ginocchia piegate. Il palmo sul pavimento. Il respiro irregolare. Gli occhi chiusi.

Minuti.

Poi lentamente… si riprese.
Il fiato si fece più regolare.
Il battito meno rabbioso.

Con un gesto misurato, quasi cerimoniale, si alzò, raddrizzando la schiena un poco alla volta. Le mani si posarono sul collo della bottiglia, con una delicatezza che conteneva ancora una traccia di tremore. La sfilò lentamente, molto lentamente, come se ogni millimetro fosse un addio dolce e doloroso.

Quando la bottiglia uscì completamente, un brivido le percorse tutta la colonna vertebrale. Le gambe le tremarono, ma si sorresse. Rimase così, in piedi, nuda salvo la canottiera alzata e il tanga tirato da un lato. Guardò la bottiglia, lucida, calda. Le dita tremanti la portarono al naso. Un istante. Poi, allungò la lingua.

Assaporò il suo sapore.

Un gesto istintivo. Animale. Un rito segreto.

Fu lì che tornò il respiro. Che tutto, lentamente, cominciò a ridiscendere.

Il corpo riprese la sua forma.
Il cuore tornò in petto.
I pensieri cominciarono a bussare.

Si sedette sul pavimento, la schiena contro il mobile della cucina, le gambe piegate, le braccia abbandonate sui fianchi. Il pavimento era freddo, la pelle ancora troppo calda. Il fiato divenne più profondo. Si passò una mano tra i capelli sciolti, cercando ordine dove c’era solo caos.

E la domanda arrivò. Secca. Cruda. Ineluttabile.

"Cosa mi sta succedendo?"

Gli occhi fissavano il vuoto.
Le mani ancora profumate.
Il bicchiere del prosecco abbandonato sul tavolo.

Chi era diventata?
Quella parola... “troia”... era davvero la sua nuova pelle?
O era solo il riflesso di qualcosa che aspettava da sempre di essere liberato?

Dubbi, confusione, vergogna e desiderio si inseguivano come ombre sulle pareti della sua mente.

Eppure, una parte di lei… sorrideva.

Perché, in fondo, sapeva già la risposta.

Spero che vi stia piacendo, come per la scorsa serie prediligo l'approccio mentale e non quello fisico per la descrizione dei miei racconti. Se avete commenti li leggerò volentieri qui o via mail a mogliemonella2024@gmail.com
scritto il
2025-05-12
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