L'oscuro passeggero

di
genere
voyeur

Il sentiero si inoltrava nel bosco con dolcezza, tra curve lievi e radici che affioravano dal terreno. Bea correva leggera, il respiro profondo e regolare, il battito del cuore in perfetta armonia con il ritmo dei suoi passi. Le scarpe da corsa affondavano appena nel tappeto di foglie, muschio ed erba, sollevando a tratti piccoli spruzzi di polvere verde. I suoni della natura erano tutto ciò che la circondava: il frinire continuo dei grilli, il canto degli uccelli, un leggero fruscio portato dal vento che muoveva le fronde. Il sole estivo, alto ma non ancora cocente, filtrava tra i rami disegnando lame dorate che si aprivano sul suo corpo in movimento come fari teatrali in una foresta incantata.

Indossava un leggings tecnico nero, aderente come una seconda pelle, che le fasciava le gambe toniche e il fondoschiena scolpito da anni di allenamento. Il top sportivo bianco, marchiato Nike, aderiva al suo busto snello mettendo in risalto la naturale eleganza del suo portamento. I capelli castano scuro, raccolti in una coda alta e tirata, rimbalzavano ritmicamente ad ogni falcata. Gli occhiali sportivi le coprivano lo sguardo, ma sotto quelle lenti scure c’era concentrazione, libertà, e una pace assoluta.

Dopo un quarto d’ora di corsa ininterrotta, un suono inaspettato la colpì. Non più il cinguettio, ma voci umane. Un borbottio prima, poi più netto, quasi lamenti. Provenivano dalla sinistra, in una radura leggermente rialzata, poco distante dal sentiero. Rallentò, d’istinto. I passi si fecero cauti, silenziosi, mentre la curiosità prendeva il sopravvento. Si tolse gli occhiali con un gesto rapido, li infilò tra il top e la pelle sudata, e si avvicinò, con il cuore che improvvisamente accelerava, ma non più per lo sforzo.

Il bosco si apriva in una piccola radura erbosa, nascosta tra i rami. E lì, proprio al centro, si trovavano tre persone. Un uomo era disteso sull’erba, con la schiena nuda e le mani che stringevano i fianchi di una donna inginocchiata sopra di lui, inarcata in avanti. L’altro uomo era dietro di lei, in piedi, con il bacino che spingeva lentamente contro il suo corpo. I movimenti erano lenti ma decisi, carichi di una complicità animalesca. I loro gemiti si mescolavano, profondi, bassi, sensuali.

Bea sentì una scossa attraversarle la schiena. Si nascose istintivamente dietro un albero, trattenendo il fiato. Il suo petto si sollevava, il cuore tamburellava forte nel petto. I capezzoli si irrigidirono sotto il tessuto sottile del top, come punti sensibili accesi all’improvviso. La sensazione di umidità tra le gambe non era più solo sudore. Con movimenti quasi impercettibili, la sua mano destra scivolò lungo il fianco, poi si posò appena sotto l’elastico del leggings. Sfiorò la stoffa tesa tra le cosce, proprio lì dove il calore era più intenso. Un tocco leggero, liquido, carico di un desiderio improvviso quanto irrefrenabile.

Rimase lì, nascosta, ad osservare quella scena proibita, con la schiena contro la corteccia ruvida dell’albero e la fronte umida. Il bosco non era mai stato così vivo.

Non bastava più sfiorarsi sopra i pantaloni. La sua mano agì da sola, affondando nel tessuto aderente dei leggings, cercando quel calore bagnato che la confondeva: era il sudore della corsa, o il desiderio liquido di un corpo in pieno risveglio? Le dita si muovevano lente, tremanti, ma precise, come guidate da una volontà più profonda. L’altra mano, intanto, saliva con decisione al petto. Il seno, sodo e scosso dalla corsa, pulsava sotto il tessuto sottile. Quando strinse il capezzolo, duro come un piccolo chiodo, un fremito le attraversò la schiena.

Chiuse gli occhi.

E fu come precipitare. Tutto scomparve: il bosco, gli uccelli, i sospiri nella radura. Rimase solo il suo respiro, rotto, affannato. Il battito del cuore che martellava nel petto e tra le cosce. Le dita che affondavano, che cercavano, che toccavano quel punto dove si fondevano il piacere e l’eccitazione più pura. La bocca si dischiuse in un gemito muto, mentre una scossa, calda e profonda, si accendeva al centro di sé e si propagava come un’onda, improvvisa e dolcissima. Le gambe le tremarono. Le ginocchia si piegarono appena.

Un orgasmo breve, fulmineo, ma potentissimo la colpì in pieno. Non c’erano grida, solo un’esplosione silenziosa, trattenuta tra i denti serrati e le ciglia chiuse con forza. Un’apnea. Un collasso momentaneo della realtà. Per un istante fu tutto: l’erba sotto i piedi, la luce tra i rami, il calore che le bruciava la pelle, il liquido che si mescolava tra le dita. Ogni confine si dissolveva. Ogni pensiero evaporava.

Poi, lentamente, riaprì gli occhi.

E il mondo tornò. Il bosco, la radura… e l’uomo. Era lì, immobile, in piedi, lo sguardo puntato su di lei. Sorrideva. Non c’era dubbio: l’aveva vista. Ogni gesto, ogni fremito. E ora avanzava.

Il suo corpo era nudo, potente, duro. Un’immagine che la colpì come un secondo brivido. Bea restò pietrificata. Una parte di lei voleva rimanere, farsi raggiungere, toccare davvero. Ma un’altra, più forte, si ribellò.

Scattò in avanti. Via. Il cuore ancora in gola, la pelle accesa, il piacere che ancora le pizzicava le dita. Corse tra i raggi di sole, tra i rami che sembravano volerla trattenere. Corse fino a perdere il fiato, fino a dimenticare.

Poi si voltò.

Nessuno.

Solo silenzio. Solo foglie mosse dal vento e il suo respiro spezzato. Forse era stato solo un sogno. Ma il calore tra le gambe, quello no… quello era reale.

La porta si chiuse alle sue spalle con un tonfo sordo. Bea vi si appoggiò con tutto il corpo, il respiro ancora affannato, la fronte sudata, il cuore che batteva come se avesse corso per un’ora intera. E in effetti era quasi così. Ma non era solo fatica. Quello che la stava bruciando dentro aveva ben poco a che fare con l’allenamento.

Chiuse gli occhi un istante, la testa inclinata all’indietro, il petto che si sollevava sotto il top ormai umido e appiccicato alla pelle. Rivide tutto, come un’immagine impressa nella retina: la radura, i corpi intrecciati, quel sorriso che l’aveva colpita come un fulmine… e il modo in cui il suo stesso corpo aveva risposto. La scossa. Il calore. Il tremore alle gambe.

«Se Marco fosse stato a casa adesso…» pensò. «Lo avrei divorato.»

Ma lui era al lavoro. Anche oggi. Meglio così, forse. Non c’era spazio per freni o parole, solo per lasciarsi andare a quell’onda ancora in corsa.

Sciolse i capelli, sfilando l’elastico con un gesto rapido. La coda cadde morbidamente lungo la schiena, i colpi di sole biondi catturarono un raggio di luce che filtrava dalla finestra. Poi si tolse gli occhiali da sole e, con un movimento lento e sensuale, si sfilò il top, lasciando nudi i seni ancora scossi dalla corsa, con i capezzoli tesi, visibilmente gonfi.

Scivolò giù anche il tanga tecnico, sottile, nero, bagnato. L’elastico aderente lasciava un lieve segno sui fianchi asciutti. Lo fece cadere a terra senza fretta, lasciandolo accanto alle scarpe da corsa, al centro dell’ingresso, come un’offerta silenziosa al piacere ancora vivo nel suo corpo.

Poi si incamminò verso il bagno. Ogni passo era lieve, ma deciso, come se il suo stesso corpo sapesse di essere osservato da occhi invisibili. Le gambe si muovevano con naturale eleganza, i fianchi dondolavano appena, e la schiena si raddrizzava con una grazia istintiva. Una camminata leggera, elegante, quasi regale.

Entrò in bagno, accese l’acqua della doccia e attese che si scaldasse, osservando il vapore salire lento. Appena il getto divenne bollente, vi si infilò sotto con un sospiro profondo, quasi un lamento. L’acqua le scivolava lungo la nuca, sulle spalle, tra le scapole, fino alle natiche e poi giù, tra le cosce. La temperatura alta rilassava i muscoli, ma rendeva ancora più sensibile ogni centimetro della sua pelle.

Si passò le mani tra i capelli, poi sul collo, lungo le braccia. Ogni movimento era più lento del solito, come se volesse prolungare il contatto, come se non fosse un gesto per lavarsi, ma un’esplorazione. Quando sfiorò i seni con i palmi bagnati, un sussulto le attraversò la schiena. I capezzoli rispondevano come corde tirate al massimo. «Ancora?» pensò, incredula. Eppure sì: erano sempre lì, vivi, pulsanti.

Chiuse gli occhi.

E allora tornarono. I volti indistinti degli uomini, il corpo della donna piegata in mezzo a loro, i gemiti soffocati tra le foglie, il suono dei colpi e delle carezze, il profumo del sesso. Sì, lo sentiva di nuovo: l’odore dolce e ferino che aveva respirato nella radura le sembrava riaffiorare dal vapore caldo. Non c’era scampo. Quel ricordo le si infilava tra i pensieri e tra le gambe, accendendo di nuovo quella zona già infiammata.

«Cosa mi è successo?» sussurrò a mezza voce, con la fronte contro le piastrelle umide.

Le dita scivolarono lungo il ventre, poi più giù, con naturalezza. Il pube era caldo, gonfio, sensibile. Ogni sfioramento sembrava una scintilla. «Non è ancora finita,» si disse. E in effetti non lo era. La doccia era calda, la casa vuota. Il desiderio, invece, ancora lì, vivo e ardente.

Le dita guidavano il flacone con crescente decisione, mentre il suo respiro si faceva più corto, più frastagliato. La plastica fredda contrastava con il calore che pulsava dentro di lei, un contrasto che accendeva ogni fibra, ogni nervo. Il suo corpo si apriva lentamente, tremante, come se stesse accogliendo qualcosa che non era solo fisico.

Il seno ancora tra le dita, stretto, massaggiato con forza, il capezzolo premuto tra pollice e indice. L’altra mano affondava, cercava il ritmo, la pressione, il punto esatto dove quella fame si poteva spezzare. E lo trovò. Un colpo di piacere le attraversò il ventre come una lama calda, facendola barcollare.

Appoggiò la fronte alla parete bagnata, il fiato che usciva a piccoli scatti, la bocca socchiusa, e lasciò che il piacere salisse. Non c’erano più pensieri, né immagini: solo sensazioni. I muscoli delle cosce si contrassero, le ginocchia cominciarono a cedere. Il flacone si muoveva tra le sue mani come fosse parte di lei.

Poi, all’improvviso, l’onda arrivò.

La scosse in pieno, un’onda lunga, profonda, che la piegò in due, costringendola ad accasciarsi sul piatto doccia. Cadde in ginocchio con un gemito basso, un suono strozzato che sembrava uscito direttamente dal centro del petto. Il piacere fu travolgente, soddisfacente come non lo provava da tempo… eppure lasciò dietro di sé un vuoto sottile, una frustrazione che graffiava l’anima. Come se avesse solo sfiorato ciò che veramente desiderava.

Rimase lì, a lungo. L’acqua le scendeva ancora addosso, ora tiepida, scivolando tra le scapole e giù, tra i glutei rilassati e le cosce molli. Il flacone le era sfuggito di mano e giaceva sul piatto doccia, in silenzio.

Ansimava ancora, la fronte poggiata sul braccio, il cuore che lentamente tornava a un ritmo umano. Il desiderio… per ora era placato. Ma Bea lo sapeva: non era finita. Non davvero.

l fiato cominciava a calmarsi, il battito del cuore rallentava. Rimase inginocchiata per qualche istante ancora, poi, con movimenti lenti e consapevoli, Bea si rialzò, lasciando che l’acqua della doccia le scorresse addosso come una carezza gentile, portando via sudore, desiderio e i resti liquidi del piacere appena consumato. Si insaponò con calma, passandosi le mani lungo il ventre, tra i seni, dietro la schiena e tra le cosce ancora lievemente tese. Ogni tocco era più lieve, più dolce, come se stesse ringraziando il proprio corpo per la forza, per la fame, per la resa.

Poi chiuse l’acqua.

Avvolta nel vapore, uscì dalla doccia e si asciugò lentamente, una goccia alla volta, con l’asciugamano che seguiva i contorni delle curve, accarezzandole. I capelli grondavano ancora, ma li strinse in un turbante sommario. L’aria del bagno era calda, densa, quasi satura delle sue sensazioni. Aprì la porta lasciando che quel calore svaporasse nel corridoio.

Appena varcò la soglia della camera da letto, la stanchezza le piombò addosso tutta insieme, come se fosse esplosa da dentro. Le gambe cedevano, le spalle erano molli, le palpebre pesanti. Il corpo le chiedeva tregua. Nessun pensiero la disturbava più: solo il bisogno puro e animale di fermarsi, spegnersi, riposare.

Si lasciò cadere sul letto senza neppure vestirsi, cercando con la mano il plaid leggero ai piedi del materasso. Se lo tirò addosso, giusto per sentire qualcosa sulla pelle ancora tiepida d’acqua. Si rannicchiò su un fianco, le gambe piegate, il seno che affondava nel cuscino, la fronte ancora umida.

Chiuse gli occhi. Il silenzio della casa era ovattato, quasi irreale.

E il sonno la prese in un attimo.

Profondo, irregolare, agitato.

Nel sogno, il primo dettaglio a emergere fu un cespuglio.

Verde intenso, quasi innaturale, come se ogni foglia fosse stata dipinta con la luce del sole. I raggi filtravano tra le fronde degli alberi e colpivano la superficie delle foglie come lame d’oro liquido. L’aria profumava di resina e calore, e qualcosa si muoveva tra quelle foglie, con un ritmo costante, avanti e indietro. Bea sentì prima quel movimento nel corpo, come un’eco familiare, e solo dopo abbassò lo sguardo.

Era nuda, inginocchiata a gambe larghe su un uomo disteso sotto di lei. Le sue mani la stringevano forte ai fianchi, la guidavano, la spingevano. Ogni affondo era lento ma profondo, come se volesse radicarla nella terra. Lei si lasciava muovere, eppure anche comandava, con quel busto eretto, i capelli sciolti che le scendevano lungo la schiena come una mantella selvaggia. La luce colpiva il suo corpo sudato, facendolo brillare come ambra viva.

Ma non era sola.

Dal nulla, la prospettiva cambiò. Come se il sogno avesse occhi propri. D’improvviso si trovò fuori da sé, a osservare tutto da dietro un albero. Da lì, poteva vedersi: una visione sensuale e sacrilega, con un secondo uomo dietro di lei, inginocchiato, che la stringeva con ferocia, le mani sui glutei, il bacino che spingeva contro di lei in sincronia con l’altro.

Due corpi la prendevano, la usavano. E mentre il piacere si moltiplicava, le voci si facevano più crude. Parole sussurrate, mormorate con toni bassi, graffianti. Epiteti volgari, inadatti a ciò che era, a chi era. Eppure le attraversavano la pelle come dita calde. Una parte di lei si ribellava in silenzio — «sono una principessa» — ma un’altra, più profonda, più segreta, si nutriva di quelle parole come di un veleno dolce.

Il suo corpo non era più suo. Era desiderio puro. Era bellezza e sottomissione intrecciate. Era potenza nella resa.

Il sogno ondeggiava. Le immagini si sfocavano ai bordi, come nei vecchi film, ma il centro era nitido, crudele e incantato. I suoni si facevano ovattati: gemiti, respiri, il fruscio ritmico delle foglie scosse dai colpi.

Poi le mani che la stringevano sparirono, e il bosco intero sembrò trattenere il fiato.

Un sussurro.

Solo uno.

«Sei nostra.»

E fu lì, in quell’istante preciso, che Bea si svegliò di colpo, col respiro spezzato e il cuore impazzito.

Di nuovo sveglia.
Di nuovo sudata.
Di nuovo accesa.

Bea aprì gli occhi con un sussulto, il respiro corto come dopo una corsa, le lenzuola attorcigliate intorno ai fianchi nudi. Il plaid era scivolato ai piedi del letto, la pelle brillava di una nuova umidità che non era solo calore estivo. Si mise seduta lentamente, con la fronte bassa e i capelli ancora raccolti nel turbante ormai umido solo in punta. Si passò una mano tra le cosce, istintivamente. Ancora calore. Ancora tracce.

«Cosa mi sta succedendo?» si chiese a voce bassa, in una stanza che sapeva troppo di sé.

Un’altra parte della giornata era svanita. Persa tra sogni, immagini, sensazioni che ancora le tremavano sotto la pelle. Provò a razionalizzare, a tenere ferma l’onda che voleva travolgerla di nuovo. Ma era inutile. Il fuoco dentro di lei non si stava spegnendo. Al contrario, sembrava alimentarsi proprio nel dubbio, nella solitudine, in quell’assenza di controllo.

«Devo combatterlo?» si chiese, camminando verso lo specchio dell’armadio. «O devo solo… lasciarlo divampare?»

Si fermò di fronte alla propria immagine.

Sciolse il turbante con un gesto lento, lasciando cadere i capelli lungo le spalle. Si erano asciugati durante il sonno, ma non erano domati: ciocche ribelli, gonfie, sensuali. Provò a sistemarli con le dita, cercando di dare una forma a quella chioma che sembrava voler esprimere esattamente ciò che sentiva dentro: disordine, istinto, libertà. Le ciocche bionde create dai colpi di sole catturavano la luce aranciata della sera, dandole un aspetto ancora più magnetico.

Era quasi il tramonto.

Il cielo dietro la finestra si stava colorando di un rosa polveroso, sfumato di viola e arancio. Il silenzio in casa le sembrava più profondo, come se anche le pareti stessero aspettando qualcosa. Bea si passò un dito sulle labbra, poi sul collo, come se cercasse tracce di quel sogno. Ma era tutto dentro.

«E se uscissi?» pensò.

Un’idea leggera, quasi sussurrata. Ma che subito prese consistenza. Sì, un giro in paese. Niente di impegnativo, solo una passeggiata, un gelato, un po’ d’aria.

O magari…
Magari uno sguardo.
Un incontro.
Uno di loro?

La sola possibilità la fece vibrare. Le gambe si mossero da sole verso l’armadio, già in cerca di qualcosa da indossare. Niente di troppo vistoso, ma nemmeno da passare inosservata. Un equilibrio sottile, come quello che stava cercando dentro di sé.

L’armadio era aperto da qualche minuto, ma Bea restava immobile, in piedi, nuda, con lo sguardo che vagava tra i vestiti appesi. Un abitino estivo le avrebbe risolto il dilemma. Facile, leggero, femminile. Ma no, non era quello il modo. Non quella sera.

Era ancora troppo viva sotto la pelle, e un abito svolazzante non avrebbe raccontato nulla di ciò che portava addosso.

Aprì il cassetto della lingerie. Le dita scorsero l’elastico di un tanga rosso, semplice ma audace. Lo tirò fuori e lo indossò lentamente, adagiandolo sui fianchi alti. Il tessuto si tendeva appena, lasciando il lato B scoperto con naturalezza, affondando tra i glutei scolpiti come se fosse nato per stare lì. Già quel solo gesto accese una nuova vibrazione nel ventre.

Scelse poi un paio di jeans. Non quelli comodi da pomeriggio pigro. No, i suoi preferiti. Quelli più estremi, più aderenti. Li fece scorrere lungo le gambe, una alla volta, poi si chinò per chiuderli con un movimento che fece tendere i muscoli dei glutei. Il denim strinse i fianchi e le cosce come una carezza insistente, affondando nella curva del fondoschiena con prepotenza. Niente cintura: li voleva così, sfacciatamente modellati sul corpo.

Scelse quindi una canottiera corta, in tessuto leggermente lucido, spalline sottili e aderenza perfetta. Senza reggiseno, ovviamente. I capezzoli, da tempo diventati una sua firma silenziosa, pungevano attraverso il tessuto con orgoglio. Il top si fermava appena sopra l’ombelico, lasciando scoperto il ventre teso, levigato, perfettamente scolpito. La fossetta dell’ombelico si stagliava al centro, un piccolo invito a posare lo sguardo proprio lì.

Ai piedi, un paio di scarpe nere chiuse, con tacco a spillo vertiginoso. Non comode. Ma ideali. Il passo si sarebbe fatto più lento, i glutei più esposti. Ogni movimento della camminata avrebbe disegnato sul suo corpo una coreografia precisa.

Raccolse i capelli in una coda alta, ben tirata, lasciando il volto in primo piano. Una pennellata leggera di trucco sugli occhi, appena un’ombra, poi il rossetto. Deciso. Non esagerato. Ma chiaro nel messaggio: “Guardami”.

Si osservò allo specchio. La figura riflessa era magnetica. Elegante, provocante, sicura.

Poi uscì.

Il cielo era ancora chiaro, ma già colorato dai primi riflessi del tramonto. Le vie del piccolo paese cominciavano a riempirsi del chiacchiericcio del sabato sera. Bea scese la strada principale con il ticchettio dei tacchi che si faceva sentire a ogni passo. La coda ondeggiava dietro di lei, come se accompagnasse il movimento dei fianchi.

Diretta ai due bar del centro, dove i tavolini erano già pieni, sorrisi rilassati e calici di vino.

Ma il pensiero era uno solo, martellante.

“E se li trovassi?”

Si avvicinò ai due bar della piazzetta. I tavolini all’aperto erano già animati da voci allegre e risate leggere. Profumo di spritz, mojito, di menta pestata e arance. Volti noti, altri mai visti. Qualche uomo del posto, due gruppi di ragazzi in bicicletta, donne a cui non sfuggiva nulla. Tutti, uno dopo l’altro, la guardarono passare.

Gli sguardi maschili la spogliavano. Quelli femminili la misuravano. Le più giovani con malcelata invidia, le altre con l’espressione fredda di chi non può fare a meno di notare e giudicare. Ma nessuno dei tre. Nessun volto tra quelli cercati. Nessuna certezza, solo quel dubbio che continuava a bruciarle dentro come brace sotto pelle.

Si avvicinò al bancone esterno del secondo bar, un locale elegante, un po’ fuori contesto per la zona, e sorrise al ragazzo dietro il bancone.

— «Un Negroni. Ma mettiamoci dentro anche un po’ di alibi, per favore.»

Il barman rise, annuendo. Lei appoggiò un gomito al bancone, la schiena leggermente inarcata, le gambe unite con grazia, le dita che tamburellavano leggere sul bordo del piano. Il fiato appena trattenuto, il rossetto ancora perfetto.

Poi, una voce.

Femminile.

Calma. Chiara. Vicinissima, come se fosse stata lì da sempre.

— «Piaciuto lo spettacolo?»

Bea non si voltò subito. Per un istante si bloccò. Il respiro si spezzò nel petto, come se un laccio invisibile le avesse serrato il diaframma. I muscoli del ventre si contrassero, e il cuore fece un balzo talmente forte da rimbombarle nelle orecchie.

Le si inumidirono le labbra senza volerlo. Aveva riconosciuto quella voce?
Oppure era l’intonazione, il tono ambiguo, quasi intimo, che l’aveva colpita così a fondo?

Inspirò lentamente, cercando di non mostrare nulla. Ma il sangue aveva già cominciato a correre più veloce sotto la pelle.

Si voltò. Lentamente.

La donna era lì, a un passo. Alta, bella. Troppo bella per essere solo un caso. Occhi fermi, labbra appena piegate in un sorriso tagliente. Lo sguardo di chi sa. Di chi c’era. Di chi ha visto tutto — e forse più di lei.

La donna non distolse lo sguardo nemmeno per un istante.

Sorrideva. Un sorriso lento, affilato, consapevole. Si mosse di mezzo passo verso il bancone, il suo profumo – speziato e fresco – colpì Bea come una carezza dietro l’orecchio. Poi, con estrema naturalezza, allungò la mano e prese il Negroni appena servito. Il barman alzò un sopracciglio, ma non disse nulla.

Portò il bicchiere alle labbra, ne bevve un sorso lento, tenendo gli occhi fissi su quelli di Bea, poi lo abbassò e glielo porse con eleganza, come fosse un rito.

— «Buono. Ti piacciono le cose forti, eh?»

Bea lo prese. Le dita si sfiorarono nel passaggio. Un contatto rapido, elettrico. L’alcol nel bicchiere sembrava vibrare. Lo portò alle labbra per assaporarlo, il ghiaccio che sfiorava la pelle del naso, il profumo deciso del gin e del bitter. Ma non fece in tempo a bere davvero.

La mano della donna si mosse veloce e precisa, come un serpente sicuro del suo morso. Si posò sul seno sinistro, sopra la canottiera sottile, e le strinse il capezzolo con decisione, lo torse appena, ma abbastanza da farsi sentire. Un gesto tra la provocazione e il possesso, tra il gioco e la minaccia.

— «Hai voglia, da oggi. Vero?» sussurrò con voce bassa, calda, senza aspettarsi risposta.

Bea si strozzò quasi con il primo sorso. Tossì, deglutì a fatica, l’alcol che le bruciava in gola, ma più ancora quella torsione, improvvisa e netta, che le aveva incendiato i nervi. Il dolore era reale, breve, calibrato, ma si trasformò subito in un’ondata di piacere profondo. Dal seno al basso ventre, un brivido caldo e irresistibile.

Il corpo le si illanguidì in un attimo. Le ginocchia leggermente molli, il respiro trattenuto, le pupille dilatate. Abbassò il bicchiere, stringendolo con più forza di quanto avrebbe voluto. La pelle sotto la stoffa vibrava ancora, il capezzolo teso come un grido trattenuto.

— «Chi…» tentò di chiedere, ma la voce non uscì. Era come se le parole non volessero rovinare quel momento sospeso.

Attorno a loro, la piazza continuava a vivere: voci, risate, calici tintinnanti. Nessuno aveva visto. Nessuno sapeva. Eppure, per Bea, il mondo intero si era ristretto al respiro della donna davanti a lei.

Spero che vi stia piacendo, come per la scorsa serie prediligo l'approccio mentale e non quello fisico per la descrizione dei miei racconti. Se avete commenti li leggerò volentieri qui o via mail a mogliemonella2024@gmail.com
scritto il
2025-05-12
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