Angelina – Epilogo: L’ultima volta
di
Angelo B
genere
tradimenti
Non c’erano più messaggi. Nessuna promessa. Nessuna scusa.
Solo un’ultima notte.
La casa era vuota, finalmente.
Angelina mi aprì con lo sguardo di chi sa che sta per lasciarsi distruggere un’ultima volta.
Vestita solo di pelle. Tacchi alti. Nulla sotto. Nessun filtro.
«Non dire niente», sussurrò. «Prendimi. Prendimi come se fosse l’ultima. Perché lo è.»
E fu solo questo. Carne. Pelle. Sudore. Gemiti trattenuti e poi esplosi.
La spinsi contro il muro dell’ingresso. Le strappai la giacca. Le mani sulle cosce, sotto la pelle nuda. Lei si aprì come sempre: pronta, bagnata, già impaziente.
La presi in piedi, con forza. La sollevai per le gambe, affondando dentro di lei senza dolcezza. Le mani sulle sue natiche, il fiato sulla sua bocca, i denti sul suo collo.
Lei gemeva, lo chiedeva, mi graffiava.
Mi portò sul tavolo della cucina. Ci piegammo sopra. Lei a quattro zampe, completamente mia.
Le morsi la schiena. Le afferrai i capelli.
Affondai dentro di lei con tutto. Senza parole. Solo colpi, sempre più profondi.
Sentivo i suoi umidi “sì” tra i denti.
La volevo consumare. Marchiare.
Finimmo sul letto. Il suo letto. Il nostro campo di battaglia.
Le mani legate ai cuscini. Il suo corpo spalancato. Il mio che dominava il suo.
Le urlai addosso. Lei mi implorava di continuare. Di sbriciolarla.
Le venni dentro. Due volte.
Lei si sciolse come lava. Tremava. Rideva. Piangeva.
Ma non parlava.
Restammo in silenzio.
Poi mi alzai.
Mi vestii.
Lei non si mosse.
Mi guardò solo quando stavo per uscire.
Occhi lucidi. Nessuna richiesta.
«Non mi chiamare più», sussurrò.
«Non posso.»
«Lo so.»
Chiuse gli occhi.
Chiusi la porta.
Fu la fine.
Ma anche la scopata più intensa della nostra vita.
Riflessione finale
Non l’ho più vista.
Né sentita.
Né cercata.
Eppure… il suo odore è rimasto nella mia pelle per giorni. Forse settimane.
Il suo sapore, sulla lingua, l’ho sentito ogni volta che chiudevo gli occhi.
E quei gemiti — Dio, quei gemiti — mi sono tornati in mente nei silenzi più impensati.
In macchina. Sotto la doccia. Guardando altre donne che non avevano nulla di lei.
Ma non è amore.
Non lo è mai stato.
Era fame.
Era dominio.
Era un istinto che non chiede permesso.
Era lei che si lasciava prendere perché voleva, anzi, aveva bisogno di essere presa.
Ed ero io che l’ho distrutta come lei sognava.
Senza risparmio.
Senza promesse.
Senza pietà.
Ora ognuno ha ripreso il suo cammino.
Io, con il suo ricordo inciso nei fianchi delle altre.
Lei, forse, ancora a letto accanto al suo uomo, con le gambe strette per non ricordare.
O forse no.
Forse lo sogna.
Forse, in fondo, lo rivuole.
Ma non succederà più.
Una cosa così…
…si vive una volta sola.
Poi ti brucia dentro.
E basta.
Solo un’ultima notte.
La casa era vuota, finalmente.
Angelina mi aprì con lo sguardo di chi sa che sta per lasciarsi distruggere un’ultima volta.
Vestita solo di pelle. Tacchi alti. Nulla sotto. Nessun filtro.
«Non dire niente», sussurrò. «Prendimi. Prendimi come se fosse l’ultima. Perché lo è.»
E fu solo questo. Carne. Pelle. Sudore. Gemiti trattenuti e poi esplosi.
La spinsi contro il muro dell’ingresso. Le strappai la giacca. Le mani sulle cosce, sotto la pelle nuda. Lei si aprì come sempre: pronta, bagnata, già impaziente.
La presi in piedi, con forza. La sollevai per le gambe, affondando dentro di lei senza dolcezza. Le mani sulle sue natiche, il fiato sulla sua bocca, i denti sul suo collo.
Lei gemeva, lo chiedeva, mi graffiava.
Mi portò sul tavolo della cucina. Ci piegammo sopra. Lei a quattro zampe, completamente mia.
Le morsi la schiena. Le afferrai i capelli.
Affondai dentro di lei con tutto. Senza parole. Solo colpi, sempre più profondi.
Sentivo i suoi umidi “sì” tra i denti.
La volevo consumare. Marchiare.
Finimmo sul letto. Il suo letto. Il nostro campo di battaglia.
Le mani legate ai cuscini. Il suo corpo spalancato. Il mio che dominava il suo.
Le urlai addosso. Lei mi implorava di continuare. Di sbriciolarla.
Le venni dentro. Due volte.
Lei si sciolse come lava. Tremava. Rideva. Piangeva.
Ma non parlava.
Restammo in silenzio.
Poi mi alzai.
Mi vestii.
Lei non si mosse.
Mi guardò solo quando stavo per uscire.
Occhi lucidi. Nessuna richiesta.
«Non mi chiamare più», sussurrò.
«Non posso.»
«Lo so.»
Chiuse gli occhi.
Chiusi la porta.
Fu la fine.
Ma anche la scopata più intensa della nostra vita.
Riflessione finale
Non l’ho più vista.
Né sentita.
Né cercata.
Eppure… il suo odore è rimasto nella mia pelle per giorni. Forse settimane.
Il suo sapore, sulla lingua, l’ho sentito ogni volta che chiudevo gli occhi.
E quei gemiti — Dio, quei gemiti — mi sono tornati in mente nei silenzi più impensati.
In macchina. Sotto la doccia. Guardando altre donne che non avevano nulla di lei.
Ma non è amore.
Non lo è mai stato.
Era fame.
Era dominio.
Era un istinto che non chiede permesso.
Era lei che si lasciava prendere perché voleva, anzi, aveva bisogno di essere presa.
Ed ero io che l’ho distrutta come lei sognava.
Senza risparmio.
Senza promesse.
Senza pietà.
Ora ognuno ha ripreso il suo cammino.
Io, con il suo ricordo inciso nei fianchi delle altre.
Lei, forse, ancora a letto accanto al suo uomo, con le gambe strette per non ricordare.
O forse no.
Forse lo sogna.
Forse, in fondo, lo rivuole.
Ma non succederà più.
Una cosa così…
…si vive una volta sola.
Poi ti brucia dentro.
E basta.
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