La leggenda del bacio di pietra

di
genere
saffico

Perduto nel tempo, sommerso tra le nebbie e i vapori autunnali, là dove la vite del canada rosseggia nel tramonto, sta un castello dimenticato, nelle piane dell'oltrepo pavese.
Antichi sfarzi, canti e musiche di un'epoca passata, ancora riecheggiano tra i ruderi delle mura.
Lo scudo dei Visconti, diroccato, pende dalla più alta tra le torri.
Vecchi bastioni di rosso mattone, un ponte levatoio su un fossato ormai invaso dai rovi, del bel giardino alla francese non resta che un ricordo.
Bifore tra sipari di edere e rampicanti, vecchi merletti.
Dimora abbandonata dai duchi di Milano già all'epoca di Ludovico il Moro venne gradualmente riconquistata da una natura rigogliosa e selvaggia.
Nei suoi viali, poco oltre un pozzo adorno di ringhiere in ferro battuto si trova una statua singolare.
Pare che rappresenti una delle figlie di Gian Galeazzo Visconti in una posizione equivoca e misteriosa.
Tante sono le storie costruite intorno a questa scultura in marmo rosa di Candoglia, lo stesso del duomo di Milano, ma una sola è la leggenda che è sopravvissuta nella memoria degli anziani della Lomellina, anche se nessuna pergamena e alcuna veritiera documentazione storica ne attesta la veridicità.
Una vicenda di streghe e incantesimi tramandata nelle storie che le nonne raccontavano alle nipotine e che, adornate di particolari piccanti, diventavano poi appannaggio dei ragazzotti delle borgate limitrofe.
Questa figlia di Gian Galeazzo Visconti, non la prima né la più famosa, ma certamente la più bella, si dilettava in vicende d'amore con persone d'ogni stampo e casato, senza mai concedersi in sposa a nessuno, finchè, ancora molto giovane, per uno sgarbo a un signorotto locale che per molto tempo pianificò di prenderla in moglie, non subì una stregoneria da parte di qualche fattucchiera assoldata dal cornuto.
La ragazza fu trasformata in statua e non sarebbe mai più tornata in vita se non prima di aver ricevuto un bacio dalle fattezze inusuali e particolari che a nessuno vennero mai descritte o esemplificate.
Motivo per cui la statua ancora giace in curiosa posa e in perenne attesa, inginocchiata e nuda, il volto proteso, le labbra a spiccare un bacio mai decollato e le braccia ad avvolgere il nulla in un abbraccio vuoto e senza senso.
Un indovinello mai risolto accompagna le forme della bellissima ragazza in versi a endecasillabo.
Su tali rime e in molteplici baci più d'uno si è arrovellato e affastellato, con virtuosismi e fantasie, ma la ragazza di marmo rosa tale è rimasta, né ha più cambiato forma o posizione.

“Principessa, del bacio sta in attesa
Qui t'aspetta, fremente sul ginocchio.
Se l'ignori, per sempre sarà offesa,
E da lungi ti getterà il malocchio.

Ella aspetta da tempo un bacio nuovo;
Delle labbra un morbido contatto.
Vieni appresso, attraverso questo rovo:
se la perdi, per sempre sarai matto.

Questo bacio non sia d'uno qualunque.
Lei ricerca un abbraccio molto stretto.
Sia bagnato il tuo labbro, vieni dunque!
E il suo seno lei stringerà al tuo petto.

Da Venezia verrà forse qualcuno
dall'aspetto piacevole e ancor bello:
dolce viso con il capello bruno,
passa il tempo, lei aspetta solo quello.

Affrettate quel passo, siate lesti!
S'appropinqua quel tempo, manca poco;
già vicino si approccia chi la desti
e il suo nome sarà quindi...”

La ragazza sarà trasformata in donna morbida e calda e in liscia pelle, ripetendo il colore pallido del marmo rosa. Dedita sposa e fedele compagna diverrà di colui che saprà riportarla in vita con quel bacio unico e inedito, e risolvere il mistero dell'ultimo verso tronco e mancante di tre sillabe per completare le undici dovute.
Molti giovani e ragazzi si sono messi alla prova in tentativi ripetuti, come pure si narra che qualcuno abbia veramente dato di matto. Non descritta formalmente, ma con fede riportata dalle novelle, sta una ricompensa in ducati d'oro, tanto ricercata quanto mai trovata anche con ostinati scavi dattorno alla statua e in varie ricerche nel giardino e nel castello.
Si dice che suddetto tesoro possa ricomparire solo allo scioglimento dell'incantesimo.

In epoche diverse, a seconda delle fortune o dell'oblio in cui verteva il castello e poi l'insieme di ruderi, e ancora in tempi recenti non manca chi, ricordando la leggenda, ritrova tra le erbe incolte la statua, invero di ottima fattura e incurante delle sferzate del tempo, e si prodiga in baci e virtuosismi per rianimare la fanciulla e prendersi la ricompensa.
Ancora oggi si ritrova di tanto in tanto qualche turista o un bellimbusto di paese che, reso edotto dell'arcano, ormai sempre con più fatica, reperisce l'antica statua e, per curiosità, il primo, o per bulleggiare, il secondo, si inginocchia davanti alla ragazza in marmo rosa, baciandone le labbra.
Con curiosità e fra risate ce ne si allontana e nessuno più coltiva la speranza di ridar vita all'antica erede del duca di Milano.
Eppure nell'autunno dell'anno 2022 accadde l'inverosimile e sia la statua che la leggenda ritornarono in auge e a far parlare di loro.
Più che altro la statua scomparve e non fu più ritrovata, reperendo in sua vece solo uno scavo di forma quadrangolare là dove la statua posava, e parti di cardini e bulloni che, a un'ispezione da parte di documentati esperti, furono descritti come sicuramente facenti parte di un vecchio forziere risalente almeno al XIV° secolo; il ché è pressapoco l'epoca dei primi Visconti e delle vicende relate alla duchessina ridotta in pietra.

Sulla mountain bike mi aggiro lungo i sentieri ricoperti di foglie dai colori caldi, in quel tratto del parco del Ticino poco prima che il fiume confluisca nel Po.
Lasciato il traffico di Pavia, dopo aver percorso la ciclabile sul naviglio partendo dal capoluogo lombardo, finalmente sono sola.
La pioggia recente sprigiona i profumi autunnali dai tronchi scuri e stanchi, la terra nera si carica di sentori, le foglie cadute si abbandonano al riposo che precede la neve e nebbioline di vapori e umidità latenti rendono i contorni indistinti come in un paesaggio fiabesco.
Non conosco per nulla questa zona e posso prendermi la libertà di muovermi senza una meta e senza percorso definito.
Così, libera e senza vincoli.
Quando vorrò rientrare punterò verso settentrione o occidente in cerca di punti di riferimento e da lì soltanto mi orienterò.
Malinconica e pensosa pedalo con buon ritmo alla scoperta di boschi e scorci da riprendere in fotografia, quando mi imbatto in vestigia di antiche mura.
In questo luogo i sentieri sono più battuti e indovino un percorso quasi abbandonato che in qualche modo pare adibito a una visita di questi ruderi di cui non ero a conoscenza.
Dietro alle prime mura ne scorgo altre, più imponenti, in mattone e spessori importanti come forse dovevano essere quelle di un castello di epoca passata.
Non è raro, nel sud della Lombardia, trovare resti di castelli e dimore viscontee, ma questo, così abbandonato e in preda al rigoglioso ritorno della natura, sembra proprio dimenticato.
Eppure lo spessore di un resto di muro di cinta promette dimensioni prestigiose.
Incuriosita avanzo scendendo dalla bici, lottando con tronchi caduti di robinie, rovi e cespugli.
Fra le fronde si intravvede un torrione. La mia esplorazione continua fino alla base di un bastione su cui sembra riconoscibile uno sbiadito biscione che divora un infante.
Il simbolo degli antichi signori del ducato di Milano.
Certo non mi sono documentata, ma qui mai mi sarei aspettata di trovare le vestigia di un castello abbandonato.
Avida di storia e di antiche vicende mi inoltro tra resti di giardini e di mura.
Lassù una bifora ancora in buono stato si affaccia in una massiccia parete.
Cerco di immaginarmi movimento di dame e persone di corte di secoli passati. Cavalieri in pesanti armature, via vai di cavalli e di araldi.
Nobili preceduti da paggi e servitori, discorsi in lingua antica, dialoghi, risate e musiche medievali e rinascimentali.
Un tempo probabilmente i prati e le aiuole circondavano e adornavano questo castello e qui si saranno vissute vite e vicende di cui tutto sembra perso, ma che ancora mi sembra di percepire sublimare dal suolo e dal terreno.
Chissà quale spessore di terra ricopre gli antichi vialetti dei giardini interni, penso muovendomi tra alberi e cespugli che contendono il primato ad ammassi di macerie e residui del passato, quando mi imbatto in una ringhiera in ferro battuto.
Mi avvicino incuriosita a questa preziosa reliquia.
Non è una ringhiera, ma una decorazione in forma di cilindro, come a contenere e proteggere un piccolo spazio. O forse per evitare una caduta in un posto pericoloso, o anche solo un ornamento di un finto pozzo creato solo per scopi estetici.
Qui si apprezza più che altrove il lavoro di antichi fabbri, capolavoro antico di mano d'uomo che, resistendo al tempo, tramanda civiltà e gusto estetico.
Con la mano e molta emozione seguo i contorni del metallo, rivivendo gesti forse consueti, sepolti e separati da me da secoli di storia. Una principessa, una dama di corte o forse anche un duca avranno di sicuro appoggiato il loro palmo nello stesso punto in cui ora, io, in un millennio successivo, ripeto un gesto dimenticato da secoli.
Come mi succede in questi contatti diretti col passato, rivivo in me sensazioni ed emozioni forse mai dilavate da queste storiche testimonianze.
Mi sembra di ricreare un ponte col passato, proiettandomi in un'epoca di impossibile accesso.
Ma oltre l'orizzonte del ferro ritorto e lavorato, poco distante e quasi celato dai cespugli di rovo, scorgo il volto di una ragazza che mi osserva.
Mi paralizzo prima di rassicurarmi e stupirmi riconoscendo una statua di pietra, ma subito l'emozione mi conquista e corro verso questo volto in eterna attesa di qualcosa mai trovato.
Con crescente affanno sposto foglie, cespugli e rami secchi liberando le forme di una ragazza che, inginocchiata e nuda, protende il viso e le labbra in un bacio che si perde nel nulla di una presenza inesistente.
Le braccia sono allargate ad abbracciare un vuoto davanti al volto di una bella sfumatura rosata, solo molto finemente variegata di millimetriche venature grigio cenere.
Resto rapita e affascinata di fronte alla bellezza delle forme, la capigliatura adorna di piccoli fiori riproduce una moda dimenticata da mezzo millennio, mentre il corpo nudo non testimonia delle usanze riguardo agli indumenti.
Solo posso verificare che i canoni estetici della bellezza femminile, almeno in quell'epoca, non erano poi tanto differenti dagli attuali, o forse anche solo dai miei gusti personali.
La ragazza è un po' in carne, ma il seno è alto, sodo e ben proporzionato, la schiena e il ventre sono snelli, mentre pube e fondoschiena sono pudicamente celati da figure non ben definite che riproducono veli e cespugli di rose.
Il volto è grazioso e i capelli finemente ondulati e raccolti verso la nuca da quelli che sembrano nastri e fiocchi.
Eppure non capisco il perchè di questa posizione innaturale, questo richiamo esplicito a qualcosa che manca, un destinatario di un bacio rimasto incompiuto e di un abbraccio irrealmente vuoto.
Ripulisco il basamento della statua, in delicato marmo rosa infiltrato di muschi verde bottiglia e scopro un'iscrizione parzialmente coperta dalle foglie.
Libero la superficie dai residui vegetali e riconosco le lettere di uno scritto in italiano.
Una sequenza di cinque quartine di endecasillabi, anche se all'ultimo verso manca una parte.
D'istinto e per scherzo mi viene da decifrare l'indovinello che ne viene suggerito, ma il mistero di versi che alludono a qualcosa che mi sfugge, resta non svelato.
Questa ragazza aspetta da chissà quanti secoli un bacio, forse una liberazione, ma nel suo abbraccio non vi è null'altro che aria vuota.
Statua di giovane donna abbandonata, i bellissimi lineamenti mi inducono a fantasticare su chi, venuto da Venezia, potrà liberarla.
Forse ai tempi dei Visconti, si alludeva a Venezia come per intendere le terre poste a oriente e, in effetti, oltre le mie origini orientali, io ho proprio i capelli neri.
Decido allora di mettermi alla prova.
Chissà quanti uomini, giovani e ragazzi si saranno già inchinati a baciare questa statua, a unire le loro labbra a questo marmo rosa.
E forse già anche qualche ragazza si sarà cimentata?
Ma saranno stati bruni o di provenienze orientali coloro che avranno cercato di risolvere l'indovinello che così alla perfezione calza su di me e sul mio nome?
Eppure non mi riesce di trovare un nome italiano che si adatti alla rima e alla metrica; ma in fondo, a distanza di tanti secoli, che ne so io dei nomi di epoche passate?
Sfioro con le dita il volto e i rigidi capelli di questa statua, chiedendomi come si sarà chiamata questa giovane donna.
La mia carezza si sposta sulla sua gelida schiena e, scoprendomi a sussurrare al suo orecchio dolci parole di lusinga, mi sorprendo ad accarezzarle il generoso seno.
Forme perfette uscirono dallo scalpello dell'artista, ma sarà stata veramente così bella questa ragazza in grandezza naturale che ora mi ritrovo a corteggiare con crescente desiderio?
Dopo essermi assicurata di essere veramente sola in questo bosco, mi inginocchio di fianco al suo busto nudo e comincio a vezzeggiarla con delicati baci, dalla spalla al suo collo e lungo i suo fianchi.
Profumo di muschio sublima dalla sua porosa superficie. Con le dita seguo il contorno dei suoi occhi, lungo sopracciglia appena accennate o forse erose dal tempo.
Una carezza furtiva a quel delizioso seno, il polpastrello del mio indice si attarda sul suo capezzolo appuntito e in perenne turgore.
Mi insinuo nel suo abbraccio adattando le mie spalle ai contorni delle sue braccia che da secoli attendono qualcuno che le riempia, in ginocchio di fronte al suo bacio.
Le mie calde braccia, le mie mani morbide tentano di ridare vita e sofficità a un corpo freddo e rigido da troppi secoli.
Bacio le sue labbra, prima leggermente e con timore.
Mi guardo ancora intorno e riprendo con rinnovato coraggio il mio esplicito corteggiamento.
Sento il suo contorno pietrificato intorno al mio corpo e ripeto il gesto appoggiando le mie labbra sulle sue, verso di me protese.
Bacio e bacio ancora.
La poesia parla di bacio bagnato e allora la stuzzico con la lingua.
Le accarezzo le labbra con la mia saliva e ancora la bacio.
Mi indispettisco perchè nulla succede, trovandomi poi a ridere di me stessa, instupidita a leccare e baciare le labbra di un marmo inerte.
Eppure non mi dispiace di trovarmi qui, da sola, in segreta unione con una bellissima giovane dimenticata nonostante il suo dono perpetuato nei secoli.
Nessuna scossa smuove il materiale pietroso, ma questo corpo nudo, queste labbra che continuamente sfido con le mie, le sue mani che percepisco concrete ad avvolgere il mio corpo e la particolare ambientazione selvaggia del bosco sperduto in qualche modo mi stanno eccitando.
Troppo tempo sei rimasta ad aspettare, dolce fanciulla dal seno vivo, dalle labbra invitanti e dallo sguardo spento, e non basta a me, ora, risolvere un semplice indovinello.
Ma il desiderio cresce e la solitudine del posto mi induce a osare oltre il lecito.
Non mi viene spontaneo, però, di accarezzarmi da sola, nel freddo e nella solitudine di un gesto che vorrei condividere, ed ecco che pazzia e spudoratezza prendono il sopravvento sulle mie labili capacità di raziocinio.
Mi sfilo le scarpe da bicicletta e, tolte le calze di cotone, resto a piedi nudi sulle foglie umide di autunno.
Guardinga controllo suoni e dintorni per rassicurarmi di essere ancora sola.
Mi sfilo la salopette da ciclismo e resto in mutandine di fronte alla statua.
La maglietta non la tolgo, però. Qui fa veramente troppo freddo e la statua, comunque non mi vedrebbe affatto.
Un ultimo barlume di saggezza viene diluito e perso nella passione e nell'eccitazione erotica di quanto mi accingo a compiere.
Lentamente mi sfilo le mutandine.
In punta di piedi mi infilo nell'abbraccio della ragazza, porgendo la vulva a quel suo bacio carico di desiderio mai soddisfatto.
Piego le ginocchia e sento le braccia della statua adattarsi perfettamente ai miei fianchi, le sue mani, come di incanto, sul mio sedere a sostenermi per i glutei.
Colma di desiderio ed ebbra di follia avvicino la vulva a quelle labbra.
Le lisce appendici sporgenti della bocca della statua scivolano tra le mie pieghe, mentre allargo la mia entrata per sentire la sua carezza dentro di me.
La sua bocca è lisca e resa scivolosa dai miei fluidi e, ripensando alla poesia, mi accorgo che non di bagnato bacio parlava, ma di bagnato labbro.
Sento una presenza farsi strada tra le piccole sentinelle della mia più profonda intimità e quando realizzo la nuova soluzione dell'arcano due mani mi stringono le chiappe.
Dita mobili affondano nel mio sedere e una lingua inizia a muoversi dentro e fuori di me.
Con l'ultimo guizzo di eresia scaccio un accenno a una reazione di terrore e finalmente la passione erotica e lesbica resta padrona della mia razionalità e dei miei sentimenti.
Le mani della statua si muovono ora sui mie fianchi, mi stringono i glutei e mi spingono da dietro verso una bocca vorace e calda.
Mi lascio sfuggire un gemito, ma stringendo gli incisivi sulle mie labbra infilo una mano fra i capelli morbidi e reali di quella figura che fu una statua, ma di marmo più non è; la stringo per la nuca e me la appiccico al morbido nido tra le mie cosce spalancate e avide di seduzione.
L'altra mano le accarezza una schiena calda e in sinuoso movimento.
Il piacere aumenta accompagnato dai miei gemiti e dalle sue carezze.
Lei si muove, reale e calda, mi stringe più forte per il sedere su quella bocca viva, quella lingua che sa perfettamente quali miei punti stimolare, e con scosse e grida mi concedo un selvaggio orgasmo in quella bocca di tenui sfumature rosa.
In preda al deliquio scivolo all'interno dei suo abbraccio, mentre lei si erge, finalmente, dopo secoli di posizione scomoda e innaturale, per offrire i suoi seni ai mie baci.
Mi parla in un linguaggio antico, mi cerca e mi supplica di baciarla, di stringerle i seni, di leccare le morbide pieghe che mi presenta allargando le sue cosce di fronte al mio volto.
“Tanti mesi ti aspettai, dolce Naoko!”
“Come sai il mio nome?”
“Tu, sola, venuta da Venezia et forse d'oltre, potevi completar quei versi monchi.”
“Le tre sillabi mancanti?”
“Amami, o veneziana, o forse bizantini sono i tuoi natali?”
“Be', insomma, ora non ricordo precisamente quando Marco Polo è giunto dalle mie parti, ma al di là di questo piccolo dettaglio che forse non ti è stato riportato, credo che tu abbia aspettato ben più che qualche mese.”
“Coprimi, donna di Bisanzio, ho sentor d'essere stata esposta al freddo et al vento per mille notti.”
“Sì, secolo più o secolo meno...”
Mi rigiro e recupero lo zainetto. Tiro fuori una giacca e copro le bellezze di questa ragazza che ora, in piedi, si espone in tutta la sua nudità e la sua bellezza.
I capelli sono diventati castano chiari, il pelo del suo pube è corto e fine e le sue cosce calde e spesse.
La pelle resta di un colore rosa chiaro contro cui spicca, insolita, la mia sfumatura orientale.
Senza pormi il problema di come risolvere all'anagrafe la questione dell'identità di questa splendida ragazza, cerco ora di riscaldarla nel mio abbraccio, massaggiandole le spalle e la schiena.
Mi rivesto anch'io: a sedere nudo e cosce al vento, con una ragazza nuda tra le braccia che comincia a delirare in linguaggio aulico, non vorrei avere ulteriori problemi con la sezione buoncostume della polizia pavese. Le questioni di identità che si impongono nel mio immediato futuro per ora bastano e avanzano.
“Mi porterai dunque nella tua magione in Serenissima? E che, dunque, è stato di codesto tuo destriero?”
Continua lei avendo scorto la mia mountain bike.
Evito spiegazioni difficili da sostenere e cambio discorso.
“Senti, dolce fanciulla, ma io non so neanche come ti chiami.”
“Ma come è, invero, questo? Io fui Valentina, figlia di Gian Galeazzo Visconti et Isabella di Valois! E come hai tu inteso che solo una donna potea sollevarmi dall'incantesimo cui fui soggetta in altri tempi?”
“Eh, dai, ti spiegherò. Avremo occasione. Vieni sul mio destriero Valentina, che se ci beccano qui tutte e due mezze nude e tu che deliri, saranno cazzi.”
“Il tuo idioma non mi è claro per lo intero, ma attendi o donna! Un tesoro io porto in dote.”
La duchessina si piega là dove la sua statua ha dimorato per mezzo millennio e mi mostra un forziere pieno di antiche monete d'oro.
Non mi pongo troppe domande e verso il contenuto nel mio zainetto. Più che mai, ora, bisogna muoversi da questo posto.
Mi dirigo verso la bicicletta. In qualche modo devo tornare a Milano, poi penserò come sistemare questa situazione assurda, ma la ragazza la voglio tenere con me a tutti i costi.
Inforco in fretta il sellino, ma poi la vedo lì, incerta e tremante di freddo, un po' confusa mentre rimira i resti delle mura che furono la sua casa e non riesce a darsi spiegazioni, e mi prende una tenerezza infinita verso questa ragazza catapultata in un futuro oltre la sua umile immaginazione.
Lei si guarda intorno con un'espressione incerta e un po' angosciata e allora le vengo incontro e me la abbraccio stretta.
“Non aver timore, mia Valentina. Penserò io a tutto.”
Lei si abbandona al mio abbraccio e mi offre ancora le sue labbra, ora morbide e calde, ripetendo un gesto ormai realmente scolpito nella sua memoria. Tante cose avremo da raccontarci nei prossimi anni.
“Sì, amami, Naoko, donna dagli occhi lunghi e'l nero crine; e portami nello castello tuo che sta in Persia!”
Mi prendo la ragazza sulla canna della bicicletta e mi dirigo verso il Ticino. A Vigevano mi fermerò a prenderle un paio di jeans e una maglietta, poi vedremo come sistemare il resto.
di
scritto il
2022-11-04
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