Amsterdam - Festival

Scritto da , il 2020-09-14, genere etero

Alle 8,15 precise saliamo sul treno. Destinazione Haarlem, una cittadina qui vicino. Una ventina di chilometri, mi ha detto Debbie. C’è un festival techno, un po’ fuori stagione per la verità, che promette di fare al caso nostro. E il “caso nostro”, sia chiaro da subito, non è la musica, perché concordiamo sul fatto che a entrambe la techno fa abbastanza cagare.

Gli unici due posti liberi nel vagone sono quelli davanti a una donna di una certa età. E’ un bel po’ sovrappeso e puzza. Un misto di olio fritto e di sudore, forse. Mi viene in mente che, qualche anno fa, mi domandavo come facesse la gente che lavora nei McDonald. A tornare a casa, intendo dire, con quell’odore nauseabondo sui vestiti, sui capelli, sulla pelle. Sempre odiato i McDonald, anche se i panini mi piacciono. E mi piace pure la Coca cola.Ai tempi del liceo spesso i ragazzi con cui uscivo il pomeriggio mi ci invitavano. Eravamo tutti scannati, ok, non potevo pretendere che mi invitassero al ristorante o in pizzeria. Qualche volta accadeva, ma era raro. Il più delle volte, se la stagione lo consentiva, dicevo loro “ok, ma ce li portiamo fuori e andiamo a mangiare al parchetto?”. Se erano carini e simpatici, magari, ci pomiciavo. Se erano proprio tanto carini e simpatici gli facevo un pompino. Ammetto che di tipi proprio carini e simpatici ne ho conosciuti parecchi. Soprattutto all’ultimo anno del liceo. Anche senza che ci fosse bisogno del McDonald.

La donna che ci sta davanti però mi fa un po’ di simpatia. Anche un po’ di pena, volendo. Noi stiamo andando a divertirci e lei se torna a casa chissà dove, disfatta dopo una giornata di lavoro. Cioè, non so se è vero ma nella mente mi faccio questo film. La simpatia scompare dopo la prima occhiata che allunga su me e Debbie. Un misto di invidia e disgusto.

Abbiamo osato rinunciare alle calze, nonostante la serata non si annunci particolarmente calda, ma Debbie dice che qui si usa così. Sarà, ma io ho paura di sentire freddo. E’ vero, ho il giubbino di pelle che mi ha prestato lei. E sotto indosso un tube dress, che mi ha sempre prestato lei, e che ogni cinque secondi tiro su perché nevroticamente temo che mi lasci scoperte le tette. Ma il vero problema è rappresentato dalla terza cosa che mi ha prestato: un paio di shorts (“come li riempi bene, tesoro…”) che persino una troia come me non avrebbe il coraggio di portare nemmeno la sera al mare. Nella parte davanti, dico sul serio, ci saranno sì e no tre centimetri di denim tra la vita e l’orlo. Inutile dire che le chiappe sono quasi a metà di fuori. Di mio indosso solo le sneakers e un filo interdentale indecente, regalo di mia sorella Martina, una trasparenza nera così ridotta che a stento mi copre la fica. Debbie invece, si è infilata dentro un vestitino molto corto. Ma davvero corto, credetemi. Tre quarti di coscia sono scoperti. Basterebbe un alito di vento a scoprirla. Stando in piedi, intendo dire, figuratevi seduta. Ai piedi ha degli stivaletti davvero eleganti che mi hanno fatta sentire inadeguata nelle mie Stan Smith. Quando le ho chiesto se era il caso che me le cambiassi si è messa a ridere e mi ha detto “siamo mezze nude, pensi che ci guardino le scarpe?”.

Passiamo il viaggio a farci selfie a labbra arricciate, come due troiette da quattro soldi – sempre per la felicità della signora davanti – e a truccarci. Io per la verità userei solo un po’ di Rimmel, come al solito. Ma lei insiste perché accentui il mio make up con l’eyeliner. “Devi sembrare eccessiva, come una ragazzina che esagera, non lo facevi?”. No, per la verità no. Ma ricordo le mie amiche. E ricordo anche la sbroccata alcolica che riservai a due stronzette a una festa, che di sicuro non contribuì a migliorare la mia fama: “Il trucco è importante, certo, ma se poi non sapete fare i pompini è inutile”. Cazzo, sono passati due anni e sembra un secolo.

Soprattutto, usiamo gli ultimi minuti del viaggio per ripassare la parte. Perché ci siamo date una parte. E’ un role-play, il nostro. Che quasi mi eccita di più della stessa prospettiva del sesso che ci andiamo a cercare. Anche se, le ho detto, qualcosa del genere l’ho già fatta. Alcune idee le abbiamo scartate, in particolare quella di darci nomi differenti. Lei voleva chiamarsi Anneliese, cosa che a me pareva anche abbastanza buffa. La controindicazione era, però, che in certi momenti, immaginate da soli quali, io avrei potuto tradirmi e chiamarla Debbie. La seconda idea cui abbiamo rinunciato, e mi dispiace anche di più, è quella di essere parenti strette, cugine, figlie di due sorelle. Le ho obiettato che non sarebbe verosimile che, avendo una madre olandese, non conosca nemmeno una parola della lingua.

Punto primo, da non dimenticare mai perché è la base di tutto: noi siamo due deficienti. Ma proprio cretine, eh? Due oche cretine ancor prima che arrapate. Chi ci prenderà non dovrà essere convinto di avere rimorchiato due troie in calore (onestamente, è ciò che siamo) bensì due perfette sceme. Che lui poi penserà a piegare. Noi anzi, almeno a livello verbale, dovremo anche cercare di opporre qualche resistenza. Ma ci sono anche altre cose che dovremo accentuare. Lei, per esempio, dirà ad ogni pie’ sospinto “eecht?” che, mi spiega, significa “davvero?” e che serve a far capire a chi ci rimorchierà che pende dalle sue labbra e che è disposta a dare per buona qualsiasi stronzata egli dica. Annuisco, del resto non andiamo a caccia di un premio Nobel, ma di uno che ci faccia la festa, che faccia la festa a due idiote. E che probabilmente non sarà una cima nemmeno lui. A mia volta, mi istruisce Debbie, io dovrò in continuazione arricciarmi una ciocca con un dito e lisciarla con due dita dell’altra mano. Mi fa vedere come. Le dico che ogni tanto me la arriccio pure io una ciocca, ma solo quando sono molto nervosa. “Quando sei nervosa è un conto, se lo fai in continuazione sei cretina”, risponde. Per completare il quadro, mi ricorda “evitiamo di parlare troppo bene l’inglese”. Giusto, in fondo siamo due zucche vuote.

Punto secondo, chi siamo: Debbie è una che vuole fare l’influencer nel campo della moda. Ah, una specie di Chiara Ferragni, le dico, ma lei non sa chi sia. Qui la difficoltà è una sola: saper rendere bene la sproporzione che esiste tra l’ambizione di diventare una Instagram star, ma sta studiando anche Tik Tok, e le sue reali capacità, che sono a ground zero. Le consiglio di starci attenta e di parlarne il meno possibile perché c’è sempre il rischio che venga alla luce ciò che lei, in effetti, è davvero. Ossia una brillante donna d’affari. In questo caso la sua risposta è: “Non ti preoccupare che l’idiota la so fare benissimo, ahahahah”.

Terzo punto: l’età. Lei non ha ventisei-ventisette anni ma ventidue. E’ una studentessa universitaria molto indietro con il programma, che vive ad Amsterdam grazie alle sovvenzioni dei ricchi genitori, professionisti in provincia. Ed è anche fidanzata. Io invece ho sedici-diciassette anni, non venti. Per giustificare la mia presenza in Olanda useremo la spiegazione che ho dato a Just Fuck: vacanza-studio. Ci siamo conosciute qui.

– Tu sedici-diciassette anni li dimostri davvero – mi dice.

– Sono fidanzata anche io?

– Boh, se vuoi… ma nel tuo caso è meno importante. Tanto, con il fidanzatino in Italia…

– Guarda che funziona – le dico mentre scendiamo dal treno – il gioco di essere fidanzata l’ho fatto questa estate in Croazia con la mia amica…

– E come è andata?

– Bene! Me ne sono fatti tre!

– Tre???? – domanda stupita.

Le racconto della mia notte degli eccessi, spiegandole che in realtà il primo era solo una ripicca contro la sua ragazza, una stronza che aveva fatto delle battute su me e Serena che ci baciavamo. Poi però c’erano stati anche Magic e il suo amico. Soprattutto Magic, il più bel ragazzo che abbia mai visto… Mi guarda un po’ sorpresa poi sorride davanti al mio silenzio trasognato. “Ehi, ti eri innamorata?”. Alzo le spalle, più che altro per scacciare il pensiero. Per seppellirlo definitivamente la butto sul lato troieggiante della cosa: “Comunque è stata l’ultima volta che ho scopato…”. Mi guarda per un po’ senza parlare, poi mi sussurra “ti adoro” e mi bacia. Un bacio lungo in mezzo a un sacco di gente che chissà se scandalizziamo o meno. Non me ne può fregare di meno, in realtà. “Mi sa che per stasera è l’ultimo che ci diamo”, le dico con un po’ di rammarico. “Chi lo sa?”, risponde lei con la faccia furbetta. Mentre ci avviamo entrano nel nostro campo visivo due ragazzi, due ragazzini, avranno una quindicina d’anni, forse meno. Reggono ognuno una bicicletta e ci guardano con gli occhi spalancati e le bocche aperte. E’ probabile che abbiano visto tutta la scena, bacio compreso, i loro sguardi non possono fare a meno di correre lungo le nostre gambe nude. “Secondo te a chi penseranno quando se lo meneranno stasera? A te o a me? Non ti ecciterebbe saperlo?”.

Camminiamo lungo le vie centrali della cittadina. Lei si alliscia continuamente la mini, io tiro continuamente su il top. In questo sembriamo sceme davvero. Se ci aggiungete i sorrisi che ci siamo imposte di stamparci sui volti il quadro è perfetto. Mi dice scherzando che spera proprio di trovare un connazionale che non le faccia fare brutta figura e io le rispondo che un olandese l’ho già conosciuto. Conosciuto in quel senso, aggiungo, e che gliel’ho anche raccontato. Lei non se ne ricorda e mi fa anche venire il dubbio di averglielo raccontato davvero. Le dico di Sven, allora, uno che lavorava all’ambasciata olandese a Roma e che insieme a un suo amico tunisino, anche lui diplomatico, mi avevano aiutata a vincere la gara con Serena. Niente, Debbie non ricorda proprio. Mi metto a mani giunte e poi le distanzio, gesto esplicito. “Debbie, ce l’aveva così… e non esagero”. “Eecht?”. “No no, non scherzo mica…”. “Santo Dio, e che fine ha fatto il padrone di questa bestia?”. “Non lo so, l’ultima volta che l’ho sentito mi ha detto che era in partenza, ma poi non ne ho saputo più nulla”. “Cazzo, speriamo che si sia trasferito qui…. ahahahah”. “Sei proprio una troia”, le rispondo ridendo.

La passeggiata fino al parchetto del festival è, tutto sommato, abbastanza rapida anche se non ostentiamo alcuna fretta. Godiamo della gente che si volta a guardarci e ci sforziamo di tirare fuori risatine sceme. Ci becchiamo anche il commento di due tizi sulla quarantina, abbastanza orridi bisogna dire, che seduti a un tavolino innalzano verso di noi i boccali di birra (sul tavolino ce ne sono almeno altri quattro vuoti). Chiedo a Debbie cosa abbiano detto, ma non è niente di volgare. “Parlano tedesco, credo che abbiano detto che Haarlem è proprio un bel posto, ci credo…”.

Non sono mai stata a un festival di questo tipo e devo ammettere che, musica a parte, è davvero un meraviglioso casino. A parte una strepitosa bimba sui sette-otto anni dai capelli talmente chiari da sembrare albina, con i genitori che sembrano due punk fuori contesto, l’età media non è bassa. Direi venticinque-trenta, o forse trenta-trentacinque. Ragazzi nella mia età ce ne sono pochi. Anzi, a prima vista zero. Io e Debbie ci facciamo una birra camminando, ignorando le attenzioni di due tipi dalla faccia simpatica, ma che di buono hanno solo quella. Ci lasciamo un po’ andare nella zona-ballo ma dopo cinque minuti inizio a lamentarmi che ho caldo. Stiamo tutti accalcati e il giubbino che Debbie mi ha prestato è forse un po’ pesante. “Dammi, tesoro”, mi sussurra quasi amorevolmente mettendoselo su un braccio e prendendomi la borsa. Si toglie anche il suo, di giubbino e mi dice “diamo un po’ un’occhiata in giro, ma separate, ci vediamo lì tra un po’”. “Tra un po’ quanto?”, le faccio recuperando il telefono dalla borsa. “Diciamo mezz’ora… no, tre quarti d’ora. Ricorda, siamo due cretine”. E sparisce.

Ha fatto bene a dirmelo, perché me ne ero completamente dimenticata. Rimango lì da sola a ballare e divento di colpo, sostanzialmente, miele. E tutte le mosche accorrono. Situazione gestibilissima, ci sono abituata. Ragazzi e anche uomini si avvicinano, mi parlano, fanno domande. Quando si accorgono che non capisco un cazzo virano sull’inglese, quasi tutti chiedono, per prima cosa, di dove sono. Io rispondo a tutti con delle risatine sceme, continuando a tirarmi su il top ogni dieci secondi. Poi mi impongo di lasciarlo perdere per vedere cosa succede. Beh, per scendere scende in modo un po’ imbarazzante, ma almeno non si vedono i capezzoli. Arriva anche un tipo che – cazzo ne so, l’avrà mandato il parroco – mi avverte proprio che il top mi scivola in zona pericolo, indicandomelo. Per tutta risposta porto le braccia in alto e mi dimeno facendo “yeeeeee” prima di voltarmi per andare a fare la zoccoletta da qualche altra parte.

Comunque no, niente, non c’è un cazzo da fare. Non è che sia tanto diverso da Roma. Mi ritrovo circondata qui allo stesso modo in cui mi ritrovo circondata lì. Tra sguardi, sorrisi, ammiccamenti. Anche di una ragazza, tra gli altri. Anche carina, eh? Con un look abbastanza aggressive e una gonna sfrangiata che io, per esempio, ad una festa metterei di sicuro. Mi guarda, cercando un’intesa, ma io ho messo su un’aria da perfetta svampita e faccio finta di vedere tutti e nessuno con un sorrisino sulle labbra, che spero sufficientemente ebete. Eh no, bella mora che mi sorridi, peccato. Ma una ragazza ce l’ho già e stasera cerco altro. E anche lei. Mi volto e, per un attacco di vanità pura, le sculetto davanti per farle capire cosa si perde.

Una mossa che, forse, non dovevo fare. Mi sento afferrare per i fianchi ma non so da chi. Da lei no di certo. Troppo grandi le mani, troppo forte la presa. Mi conduce qualche secondo nel ballo. Cioè, per meglio dire, mi fa dondolare qualche secondo. Reprimo quello che a Roma sarebbe stato probabilmente un sacrosanto “ahò, ma che cazzo voi?” e ridacchio voltando la testa all’indietro. E’ un ragazzo molto bello e anche della mia età, a occhio e croce. Non altissimo ma con i ricci scuri e gli occhi verdi. Continua a tenermi per i fianchi anche quando torno padrona dei movimenti, finché si gira e mi bacia a stampo sulle labbra. Al mio risolino idiota si convince che si può fare di più e mi infila la lingua in bocca tra le facce metà incuriosite e metà sgomente di quelli che ci stanno attorno, specialmente della moretta. Rimaniamo lì a limonare pesantemente e a ballare per un tempo indefinibile, non poco comunque, prima di dirci i nostri nomi. “Robin”, “Annalisa”. A quel punto è già da un po’ che una mano dai fianchi è quasi “casualmente” scivolata sul culo. Forse è un po’ troppo giovane per quello che abbiamo in mente io e Debbie, ma poi chi lo sa? In ogni caso va benissimo per farmi entrare nel ruolo, casomai ce ne fosse bisogno. Sei il mio training, caro il mio riccetto.

Mi ribacia, e mentre mi ribacia stavolta una chiappa mezza nuda me la strizza proprio, davanti a tutta la calca danzante. Solo quando smette, e come se non ci fosse stata nemmeno la clamorosa slinguazzata precedente, gli domando sorridendo “che fai?” senza fare nemmeno mezzo gesto per divincolarmi. Non risponde, mi domanda da dove vengo e gli rispondo che sono italiana. Faccio molti “hihihi”, soprattutto di fronte alla sua pronuncia di “Annalisa”. “Credo che siamo i più piccoli, qui… quanti anni hai?”. “Sedici – gli rispondo – quasi diciassette”. Gli do le spalle e ricomincio a ballare come se non me ne fregasse un cazzo di niente. Mi segue, mi lascia fare la matta finché, ancora una volta da dietro, mi abbraccia. Ma stavolta stringe forte, ho le sue braccia sotto il seno che mi tirano a lui. Il top si abbassa davvero pericolosamente stavolta. Faccio finta di volerlo tirare su senza riuscirci e mi struscio a lui. Gli struscio proprio il culo addosso in modo scandaloso, eh? E lo faccio ancora una volta davanti a tutti, ridendo come una scema. Alzo le braccia, le agito di qua e di là rimanendo incollata a lui. Una sua mano inizia a scendere e raggiunge l’ombelico nudo, ci gioca per un po’ e va oltre. Si intrufola negli shorts e io appiattisco il ventre, scende ancora lungo il mio pube nudo finché non incontra il mio super striminzito perizoma. Saremo a un centimetro dal grilletto. Lo so io e lo sa lui. Gli domando ancora una volta ridacchiando “che fai?”, ma sostanzialmente lo lascio fare. Ci sa fare, lo dico a me stessa prima di tutto. E dico sempre a me stessa che è una fortuna stare in mezzo a un mucchio di gente che deve essersi calata qualsiasi cosa, perché altrimenti qualcuno chiamerebbe la polizia. Incrocio la moretta di prima, solo un attimo, ma ha lo sguardo sulle mie tettine. Subito dopo di lei un altro tipo, identico sguardo sulle mie tettine. Guardo giù con nonchalance e mi rendo conto che con il tube top siamo proprio ai limiti, forse un po’ più in là. Il ragazzo che mi imprigiona con la sua mano negli shorts ora lo fa anche con l’altra mano che si spalma sul sedere.

– Lekker Kontje – mi fa. O qualcosa del genere. No, ok, confesso, l’ho cercato su Google Translator e si scrive proprio così.

Ridacchio, ma mi volto a guardarlo interrogativa.

– Beautiful little ass – traduce. Bel culetto.

Ridacchio in modo ancora più scemo di prima, chiedendomi quanto ci metterà a mettere la mano sotto il perizoma. Comincio a essere abbastanza bagnata e in un certo senso incredula che lui mi stia quasi sgrillettando davanti a tutti. Perché fare la cretina d’accordo, ma ogni cosa ha un limite, no?

Per fortuna smette, ma forse non dovrei dire per fortuna. Uno dei vantaggi di giocare a fare la cretina senza esserlo è che capisci subito le mosse degli altri. E la sua mossa la capisco subito, è la mossa di chi scommette sul fatto che di lì a poco il suo cazzo riceverà le giuste attenzioni. Mi porta al bar con una domanda che è solo una formalità e ha ragione. Dopo quello che mi sono lasciata fare come può dubitare che accetti? Bevo una birra camminando con lui e arricciandomi una ciocca mentre lo ascolto, come Debbie mi ha detto di fare. Lui è qui con il fratello e la ragazza del fratello. Dico “interesting”, come dico “interesting” praticamente a ogni cosa che mi racconta. Ho deciso di limitare il mio vocabolario e spesso faccio finta di non capire quello che dice. Quando finisco la birra e ho anche l’altra mano libera la ciocca non solo me la arriccio ma me la liscio tra due dita. Penso di essere perfetta, come cretina. Non mi tiro su nemmeno più il top. E ciò facendo, naturalmente, tengo d’occhio la sua manovra, che è quella di portarmi in una zona isolata del parchetto e anche un po’ nascosta, dove via via c’è sempre meno gente e dove da un certo punto in poi ci sono solo due coppie che pomiciano. Le oltrepassiamo e mi accorgo che finiamo proprio in una zona deserta, tra una rete e due furgoni che, mi pare di capire dal rumore che fanno, sono lì per la generazione di corrente. Questo qui, è chiaro, non vuole solo pomiciare.

Cosa sulla quale, tra l’altro, io non avrei proprio nulla in contrario. Non ho idea di cosa abbia in mente, ma non è questo il punto. Il punto è che sono un po’ indecisa e che vorrei sapere, per esempio, se Debbie ha agganciato qualcuno. Il ragazzo con cui sto, Robin, è davvero carino e anche un bel po’ figlio di puttana, ma non mi pare proprio adattissimo al nostro piano.

I miei dubbi, in realtà, li scioglie lui, baciandomi. Un bacio al quale io rispondo così così fingendo sorpresa e, soprattutto, domandando “che fai?” e ridacchiando come una cretina mentre lui passa labbra e lingua sul mio collo e sulle mie spalle nude. E ridacchio anche quando mi abbassa il top e comincia a succhiarmi un capezzolo. Lo deve capire che mi sta piacendo, certi turgori non mentono. Lo capisce tanto che mi scopre anche l’altra tetta. Risultato: me ne sto lì con il top tutto giù e le mani nei suoi capelli mentre ridacchio e mi faccio succhiare un capezzolo e strizzare l’altro.

Forse è il mio nuovo e sempre ridacchiato “ehi, che fai?” che lo convince. Solleva la testa e mi rimette la lingua in bocca, mi stringe tutte e due le tette con le mani. E stavolta sì che sento la scossa, cazzo. Se continua così mi fa sbroccare. Dice “let me fuck you”, fatti scopare, e fingo di non capire. Dice “I want to fuck you”, voglio scoparti, e qui fingere non è proprio più possibile. Gli rispondo con tono da oca “nooo… ho un ragazzo in Italia”. Mormora “come on…” e fa quello che stava facendo prima, ovvero infila la mano negli shorts e io appiattisco il ventre per lasciarlo passare. Solo che non si ferma lì.

Dito nella fregna bagnata, di colpo. Non voglio minimamente dire che le dita di Debbie o Frederieke, o le mie stesse dita, non mi abbiano dato piacere, eh? Anzi, mi hanno fatto godere un sacco. Ma questo è diverso. Per il modo così predatorio in cui lo fa, soprattutto. E poi perché il dito e decisamente più grosso. Quando me ne infila un altro mi sembra quasi di avere un cazzo tra le cosce e il mio miagolio diventa un urletto. Non lo so mica se sto fingendo, direi di no… Mi scopa così per un po’, chinandosi anche ogni tanto a mordermi le tette. I miei “che fai? che fai?” diventano sempre più eccitati e meno credibili. Anche perché non mi sposto di un millimetro, anzi ogni tanto offro il seno alla sua bocca. Ma quanto abbia sottovalutato questo ragazzo lo capisco solo quando mi sussurra “I want to fuck your ass”, ti voglio inculare. E a sto punto non me ne frega francamente più un cazzo se recito o meno. Ok, sarò entrata nella parte e lo faccio con voce da oca, ma il mio “noooo….” l’avrei detto in ogni caso. Anche se subito dopo diventa un “ooooh…” di sorpresa, dolore e piacere mescolati insieme quando una di quelle dita me la infila dietro. Non ci posso fare proprio un cazzo, è una cosa che mi ha sempre fatta diventare scema, altro che il gioco di ruolo messo su con Debbie. Soprattutto se, come fa Robin, altre due dita prendono possesso della vagina. E per farlo non si è limitato a mettere la mano negli shorts, me li ha proprio abbassati.

Sto così, insomma, mezza nuda e sditalinata davanti e dietro da un ragazzo conosciuto nemmeno venti minuti fa. Tra le sue mani mi sento prigioniera ma, immagino che non farete fatica a credermi, sto una favola. Lui mi ripete “I want to fuck, I want to fuck your ass”. E a un certo punto penso va bene, cedo, sono sconfitta, non ce la faccio più. Gli allungo la mano sul pacco e sento il bozzo duro. Non l’ho fatto fino a quel momento perché una ragazzina deficiente forse non sarebbe così intraprendente, lascerebbe fare tutto a lui. Ma a sto punto chissenefrega anche di quello. Abbasso la zip e stavolta sono io a infilargli la mano nelle mutande. E’ duro e bollente. Sarebbe anche bello succhiarlo, ma obiettivamente non so nemmeno più io cosa voglio.


– Fammi… – gli miagolo scossa dalle sue spinte, stringendogli più forte la mazza.

– Nel culo? – domanda da vero e proprio bastardo spingendo il dito più dentro possibile.

Pronuncio tre parole che potrebbero cambiare una serata. E, ora che scrivo lo posso dire, anche un altro bel po’ di cose, in prospettiva. Ma sul momento, è chiaro, come faccio a saperlo? Sul momento non so quel che faccio né quel che dico, seguo solo la corrente della mia voglia.

Tre parole, e non sono sole, cuore e amore. Sono: what you want. E nemmeno nel senso di “fammi il cazzo che ti pare”. Il senso è proprio “se vuoi il culo prenditelo”.

– In the ass?

– What you want…

– That’s right…

Non mi sembra nemmeno tanto sorpreso. Mi spinge un po’ giù gli shorts, non troppo, non tanto da impedirmi di aprire le gambe. Mi volto e mi aggrappo con una mano alla rete metallica. Anzi, non è nemmeno metallica, è di quelle che hanno le maglie ricoperte di plastica. Per fortuna, perché la stringo così forte che se fosse stata di ferro mi sarei tagliata. Mi piego un po’ in avanti mentre lui con i piedi mi fa allargare ancora di più le gambe. Qualche volta mi è piaciuto e qualche volta no, ho comunque sempre provato molto dolore. E quelle (non tante) volte che l’ho fatto l’ho chiesto o l’ho subito. E’ la prima volta che dico di sì a uno che me lo chiede. Eppure, Dio mio, sto per essere sodomizzata e non ho nemmeno un po’ di paura, voglio solo sentirlo tutto dentro. Forse è stato il suo dito, forse l’immagine mentale del fattorino di Just Eat che incula Debbie su una ringhiera e di lei che gode. Forse niente di tutto questo. Forse è un embolo di follia e basta, la voglia che cresce incontrastata mentre lo tengo in mano e lo indirizzo verso il mio buco.

– Fuck me… – sospiro. E vi assicuro che ho il respiro talmente grosso che anche sospirare è un miracolo. Non so nemmeno se dirgli “fai piano”, oppure “ammazzami”.

Poi, all’improvviso, il calore. Calore liquido. Sulla mia mano. E anche sulla natica. Calore, calore, calore. Bagnato, bagnato, bagnato. Non ci posso credere, cazzo, non ci posso proprio credere. Ma il suo sospiro mi conferma che è vero. E anche il modo in cui mi si rilassa addosso.

Se fossi la cretina che fingo di essere, forse dovrei ridacchiare. Ma sono troppo sorpresa e incazzata per recitare, ora. Lo sento borbottare qualcosa e sfilarmi il cazzo dalla mano. Resto lì aggrappata alla rete mentre si allontana. No, stronzo, incontinente… Ma che cazzo fai, mi lasci qui da sola? Mi sento sporca e, all’improvviso, mi vergogno di stare così, con il top e gli shorts abbassati. Fino a mezzo minuto fa non me ne fregava un cazzo e adesso mi vergogno. Dite poi voi cosa cazzo può combinare il cervello in certi momenti. Mi ripulisco una natica con un dito, o almeno ci provo. Lecco la mano imbrattata. Magari in un altro momento potrei pensare che valeva la pena di farglielo un pompino, visto il sapore. Ma sono troppo stordita e incazzata anche per pensare quello. Mi ricompongo, per così dire. Mi allontano in tutta fretta.

Al punto di incontro prestabilito Debbie non c’è. Mi metto ad aspettarla senza nemmeno preoccuparmi di mettere su un’aria da scema, ignorando gli sguardi e le battute, peraltro incomprensibili. Scusate,eh? ma devo proprio riprendermi un attimo. Quando dieci minuti sbuca la mia amica mi rendo conto che nemmeno lei ha l’aria dell’idiota che dovrebbe fingere di essere, è la solita Debbie. Anzi, ha anche l’aria un po’ sorniona, oltre che sveglia.

– Allora? – domando. Non so nemmeno se raccontarle della mia disavventura con il riccetto. Un po’ mi vergogno.

– Allora avevo incontrato un tipo praticamente perfetto – sospira Debbie – pensa che stava con un gruppo di amici, e di amiche, mi ha baciata dopo nemmeno cinque minuti che ballavamo… gli amici esterefatti ahahahahah… poi però è sparito. Temo di avere fatto troppo la stupida…

– E quindi? – chiedo ancora.

– E quindiiii…. quindi mi sono distratta… colpa di quello di oggi pomeriggio, del raider… Just Fuck…

– In che senso scusa?

– Nel senso che più faccio pompini più mi va di farne… ahahahah – ride Debbie.

Capisco al volo. Conoscendo questa troia so benissimo che non sta raccontando cazzate. E se non fossi già abbastanza inzaccherata tra le gambe credo che lo diventerei, visto il crampo che le sue parole mi provocano.

– Oddio, Debbie, baciami – le miagolo.

– Troppo tardi Sletje, ci ho già bevuto una birra sopra… ahahahah.

– Chi? – domando.

– Quello che sta alla cassa di quel chiosco – indica – una piccola ricompensa per tenerci borse e giacche la meritava, no? Ahahahah… aveva un momento di pausa… Tu che hai fatto?

Glielo racconto, le racconto tutto. Lei domanda “e ora che fine ha fatto questo genio?” e le dico che non lo so. A Debbie viene da ridere, si vede che fa fatica a frenarsi. Mi mette un dito sotto il mento e me lo tira su.

– Una giusta e piccola punizione per una piccola puttana – ridacchia ancora.

Le dico “lascia perdere” e subito dopo aggiungo che dovremmo darci da fare. E che comunque il gioco delle due cretine, a parte quel piccolo inconveniente con Robin, mi stava divertendo. Lei annuisce poi guarda sopra le mie spalle. Cambia completamente espressione e si mette quasi a saltellare battendo le mani.

– Ecco Wim, ecco Wim!

CONTINUA

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