Sploshing Party (Capitolo III) - Torta Di Addio

di
genere
gay

Io e Nicola sancivamo sempre un limite su ciò che potevamo fare e ciò che non potevamo fare. Sapevamo che non era corretto fare la pipì sulla pianta di basilico del vicino che odiavamo a morte, e bandimmo il gesto. Sapevamo che non era giusto sputare per terra quando camminavamo sul marciapiede, e bandimmo il gesto. Sapevamo che era sbagliato lanciare accidenti verso gli anziani anche se erano maleducati, o rubare al supermercato quando lasciavamo il portafoglio a casa; suonare la batteria alle tre del mattino, non sorridere ogni volta che compivamo un gesto di gentilezza, non stringere la mano ad un altro dopo essere usciti dal bagno e non essersi lavati le mani, non mangiare cibi provenienti dallo sfruttamento animale, tossire senza mettersi il gomito davanti, grattarsi sotto la vita in presenza di altre persone, non mangiare a bocca chiusa, non tifare la stessa squadra di calcio per non rovinare il nostro rapporto, non alternarsi le settimane di pulizia della casa, sfiorarsi senza dirci nulla. Sapevamo che a letto uno di noi due doveva sempre dominare quell’altro, senza mai invertire i ruoli, sapevamo che quando usciva di casa doveva essere lui a salutarmi per primo, a baciarmi sotto la doccia, a spogliarmi poco prima di farlo, lui doveva avere l’iniziativa quando facevamo qualcosa di importante. Avevamo creato un senso di ordine e di prevedibilità nella nostra coppia, affinché potessimo far fronte a qualsiasi evenienza inaspettata. Ma una cosa non avevamo previsto: lui che se ne sarebbe andato lontano, lasciandomi solo.
La notizia mi venne riferita un venerdì sera. Lui tornò a casa da lavoro, si tolse le scarpe sullo zerbino, mi salutò, mi bacio, mi sorrise, ma qualcosa non andava. Aspettò che finimmo di mangiare prima di dirmi che si sarebbe dovuto trasferire altrove, per lavoro. Per lui era inutile continuare la relazione, diceva che i rapporti a distanza non funzionano mai, specialmente dopo i trent’anni, quando entrambi desideravamo avere solidità e sicurezza nella vita. Non sarei mai andato con lui e lo sapeva. La routine che avevamo creato mi aveva impigrito e non potevo accettare di vivere in un posto diverso dalla casa che avevamo costruito. Quasi sembrava che tenessi a cuore molto di più le regole che mi aveva impartito che la sua persona. Anche per amore non avrei mai abbandonato la mia quotidianità.
Versai una lacrima, una sola, prima di rinchiudermi nella camera da letto. Lui venne da me, litigammo. Infantili, egoisti, ci davamo la colpa l’uno all’altro; lui non pianse, io avevo le labbra screpolate.
Quella notte risolvemmo la diatriba sotto le coperte, ma capimmo che non era un modo efficace per risolvere le cose a lungo termine, troppo adolescenziale.
La mattina dopo mi svegliai con i muscoli indolenziti. Nicola era andato via, senza dirmi nulla. Sarebbe ritornato. Era sabato mattina, era la sua settimana di fare la spesa.
La cucina era precipitata in un macabro silenzio, interrotto dal suono intermittente del compressore del frigorifero. Non avevo fame, mangiare qualsiasi pasto mi avrebbe fatto sprofondare ancora di più nella depressione e mi sarei ingozzato con tutto il cibo che avrei trovato nella dispensa. “Non ho fame”, ripetei, per far smettere il gorgoglio nello stomaco.
Accesi il cellulare, scrollai qualche post di Instagram e, per una ragione o l’altra, mi ritrovai a guardare tutti post riguardanti il cibo. Numerose ricette di dolci. Cupcake, muffin, biscotti e crostate, tante crostate. Una fu la ricetta della crostata con ricotta e cioccolato. Quanto avrei dato pur di mangiarla in quel momento.
“Non ho fame” ripetei, mentre la mia mano tendeva verso il grembiule della cucina.
Rovistai dappertutto per cercare gli ingredienti desiderati. Farina, uova, lievito, un pizzico di sale, zucchero; la ricotta ovviamente, e le gocce di cioccolato.
Abbondai le porzioni, ogni cosa doveva essere spropositata. Sbattevo le uova, spargevo la farina ovunque, le gocce di cioccolato piovevano come pioggia sull’impasto crudo e le scaglie di cocco il tocco per renderla perfetta. La ricotta si amalgamava perfettamente con la pasta gialla. Quaranta minuti nel forno e la mia creazione fu pronta. L’odore avvolgente, il mio olfatto ringraziò e i miei occhi brillavano di fronte a quei rombi che straripavano di ricotta.
Più che una crostata pareva una torta date le sue dimensioni. Un enorme cerchio fatto di puro e sensuale gusto.
Tagliai una fetta. Delicato, per non romperla ai lati dato che fu ancora calda. La addentai, cercando di ignorare il fatto che bruciasse.
Chissà perché ma quel boccone mi fece rinsavire dalla tristezza invece di abbattermi ancora di più. Sentivo qualcosa che fremeva in mezzo alle gambe, l’idea di appagarmi in altre maniere.
Morsi un altro pezzo, la ricotta creava un effetto grumoso nella mia bocca, ma assolutamente piacevole, e sensuale. Il mio membro prese a martellare contro il tessuto dei pantaloni.
E poi pensai, perché non farlo? Perché non venire sopra la crostata? Era sbagliato secondo le regole di Nicola? Non avevamo mai detto nulla a riguardo.
Mangiai ancora, cercando di dimenticare quell’idea. Ora non sembrava più un pasto di cui andavo fiero, sembrava molto più insipido, quasi gravoso nel mio stomaco. Ma nel mio bassoventre scalpitava ancora qualcosa.
Affondai la faccia nella crostata, senza motivazione, forse per soffocare l’idea di fare quello che avrei fatto, e lo avrei fatto.
Mi tolsi il grembiule. Le mie mani sporche di ricotta si abbassarono verso il mio sesso, rimanendo nudo dalla vita in giù. Maciullai un po’ di crostata per sporcarmi le palle. Il mio cazzo avrebbe dovuto avere un sapore prelibato sozzo com’era di cioccolato. Mi toccai, la punta quasi tendente al viola; e mentre mi masturbavo, continuavo a mangiare, e il sapore ritornò ad avere quella piacevolezza che ebbe attimi prima.
E poi mi infilai dentro l’impasto, lo penetrai con tutta la foga che avevo in corpo, facendoci l’amore. Le pareti della crostata frisavano lungo l’asta del mio pene, sentivo il primo rivolo delle mie sostanze uscire fuori. Annaspavo, avevo il fiato corto, gli occhi che non sapevano dove puntare. Ma poi venni, un diluvio frenetico di una moltitudine di schizzi bianchi. Le mie natiche si contraevano, mi adagiai sul davanzale mentre aspettavo che uscisse tutto, godendomi appieno il momento.
Ed ora eccola lì, la mia vera creazione. La crostata privata di un paio di spicchi, un buco in mezzo alle sue spesse pareti che grondava del mio liquido, il mio piacere ancora in tiro.
Racimolai con l’indice una goccia del mio dolce, quel dolce che tanto piaceva a Nicola e mi chiedevo il motivo. Ora lo sapevo.
Agguantai un pugno di crostata, il liquido che si riversava lungo il mio avambraccio, e ci affondai la faccia, estasiato da quel nuovo sapore, unico, prodotto da me.
«Sono a casa» Il mio cazzo si ammosciò. «Albi?»
Mi chiamava, il cuore che palpitava a mille nel mio petto. Non potevo ripulirmi, ero immobile, statico in una posizione di pietra.
Nicola superò il ciglio della porta: aveva una torta in mano, il giacchetto della North Face vecchio di dieci anni, le scarpe sporche di fango, con cui inzaccherava tutto il pavimento. Vedendolo così sembrava essere uscito in fretta e furia quella mattina, non si era dato troppo modo di vestirsi bene.
E ora mi guardava mentre fui sporco di cibo per tutto il corpo, con il membro che penzolava in mezzo alle mie gambe, la mia faccia inebetita.
Un bagliore si profilò sulla sua faccia: rabbia? Avevo trasgredito le sue regole? Confusione, sicuro, forse anche un po’ divertito. Ma il sentimento che sorse dietro il suo viso dall’espressione enigmatica fu sicuramente l’eccitazione. E la riconoscevo bene quella fase, perché ogni volta che lo facevamo si inumidiva sempre la lingua, inarcava le sopracciglia e potevo vedere le sue pupille dilatarsi, il suo respiro farsi più pesante, le gote quasi diventare rosse.
Non disse nulla, non aveva bisogno di dire nulla. Appoggiò la torta sulla credenza della cucina e si prostrò di fronte a me. Prese il barattolo della ricotta e lo uso per immergerci il mio cazzo; e poi lo ingoiò.
Sospirai, alzando gli occhi al cielo. La foga con cui mi stava facendo un pompino mi riempì di un senso di pienezza che mai prima di allora avevo provato con lui. Lo vedevo sotto di me, umidi schiocchi provenire dalla sua bocca, e poi guardavo la torta al mio fianco, con una crema di un bianco candido, simbolo della purezza: me la volevo scopare.
Richiamai Nicola al mio viso, le labbra sbafate dalla ricotta. Lo baciai, raccogliendo con la lingua il latticino e lo condussi dietro di me, facendogli capire che doveva fottermi.
Mi appoggiai con le mani sugli spigoli della credenza, dietro di me Nicola mi palpeggiava cercando già di sentire il mio buchino sotto i pantaloni. Guardai la torta, maestosa che si ergeva in altezza. Tolsi il suo coperchio di plastica e immersi due dita in mezzo al suo impasto, rompendo quel senso di perfezione che aveva. Due dita, quanto bastavano per creare un buco per penetrarla.
Nicola mi sfilò i pantaloni, mi lappò con la lingua il mio buchino, entrava e usciva per inumidirlo e facilitare la penetrazione. Prese un altro po’ di ricotta e me la spalmò su tutto il culo, leccando poi per ripulirlo.
Lo volevo dentro di me, e io volevo entrare dentro la torta.
La mia virilità divenne di nuovo dura, gonfia, piena di sentimento. Alcune perline caddero dalla torta sul mio cazzo quando Nicola cominciò a sbattermi. E appena lo sentì che toccò il limite, quasi involontariamente entrai dentro la torta. Il freddo del gelato di cui era fatto il cuore dell’impasto non mi fermava, sembrava quasi indurmi a volerne ancora; il mio calore lo faceva sciogliere come una cascata, facendolo poi grondare lungo le mie cosce. La pancia che gradualmente si stava sporcando di crema, Nicola che si aggrappava a me come un cucciolo che si aggrappa a qualcosa per cercare conforto, mai provammo una sensazione simile prima di allora e mai l’avremmo più provata.
Nicola cacciò uno stridulo, pieno di piacere ed emozione. La sua fronte umida di sudore, non aveva mai così tanto faticato di goduria per raggiungere l’orgasmo. E poi fu solo una blanda conseguenza di me che riempì la torta con il mio seme, caldo e invadente, colmandola con una parte che mancava nella ricetta originale.
Rimasi dentro la torta mentre Nicola si sfilava da me e mi vide mentre ingroppavo il suo ultimo regalo di addio. Mi vide mentre fottevo il suo unico modo per farsi perdonare.
Mi lasciò da solo, nell’intimità che si era instaurata tra me e la torta. Non ci parlammo più.
Sbucai fuori dal buco, che ora pareva una specie di grotta franata da quanto affondai con tutto me stesso lì dentro. E vedevo i rivoli di sperma uscire da lì, sciogliendo le pareti di gelato.
Presi un coltello, tagliai uno spicchio di quella bellezza orgiastica. Dovevo essere triste, ma non lo ero. Assaporai un boccone, il gelato che si frapponeva ai miei umori.
Quella torta era diventata un’euforia gastronomica, il mio capolavoro, il mio “vaffanculo” rivolto verso Nicola.
scritto il
2025-11-04
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