Romanzo Saffico - Capitolo I
di
Kiray_8100
genere
tradimenti
Valentina camminava scandendo ogni passo, muovendosi su una lastra di ghiaccio che solo lei poteva vedere. Scivolava via dagli occhi giudiziosi e dai problemi che gli altri cercarono di affossarle. Era già occupata ad affrontare i suoi di problemi, che si scaricavano gravi sulla schiena, un poco incurvata come quella di una persona goffa e timida. Il viso fioriva di una mestizia quasi affascinante, di chi conosceva troppo e di quel troppo ne faceva un fardello.
Giulia riusciva a captare in lei lo spirito maturo intrappolato in un corpo ancora troppo giovane per sopportare tutta quella saggezza. La vedeva ogni volta e ogni volta se ne innamorava.
“Domani abbiamo quella riunione con il fornitore di cui ti avevo parlato ieri. Alle nove avevamo fissato l’appuntamento, l’abbiamo posticipato di mezz’ora. Ricordiamoci anche del bouquet, è essenziale il bouquet.»
Il corpo piatto, snello, una piuma che si adagiava sulla cresta del lago. Un sorriso lesto e accennato quando parlava con il barista, pensava che fosse abbastanza per nascondere i suoi tragici occhi.
«La sposa ha voluto pure insistere sulla disposizione dei tavoli. È indisponente, se te lo chiedessi, e molto esigente. Vuole controllare ogni cosa. Forse dovremmo smettere di accettare questo tipo di clienti. Mi stai ascoltando?»
«Come?» Giulia scattò.
«Mi stai ascoltando? No, vero? Senti, mi spiace, è colpa mia. So che stai attraversando un periodo difficile e non dovrei scaricarti così tanto lavoro addosso. Forse dovresti prendere un periodo di pausa.»
Serena parlava vorace e rapida, era sempre di fretta. La sua mente era veloce e attiva, di chi non voleva perdere tempo a spiegarsi. Faceva parlare i fatti non le parole.
«No Serena, io…» Giulia di canto suo aveva la flemma di una poetessa, di chi guardava il mondo come una sinergia di forze lente e non arbitrarie. «Sì, hai ragione, è un periodo difficile, ma non deve ostacolare il nostro lavoro.»
Serena appoggiò la sua mano su quella di Giulia. Fredda, quasi spinta dalla pietà più che dall’empatia.
«Sono la tua socia in affari, ma prima di tutto sono la tua migliore amica.»
Giulia cercava di analizzare la sua faccia: non sorrideva, la confortava come se fosse in dovere di farlo.
«Non ti preoccupare» Giulia non voleva indugiare. «La faccenda con Teo appartiene al passato. Non c’è bisogno di preoccuparsi. A che ora mi devo presentare domani in agenzia?»
«Per le otto va bene. Se venissi un quarto d’ora prima sarebbe meglio» Serena riprese a parlare quanto bastava per riportare Giulia nel suo flusso di pensieri.
Valentina teneva in mano il bicchiere di caffè quando fu in procinto di andarsene. Il suono della campanella mentre aprì la porta accompagnò la sua uscita.
Chissà cosa ci faceva lì. Il circolo Caffè del Consorzio era riservato alle persone che erano titolari di piccole agenzie e startup. Bisognava avere una tessera per farne parte, motivo per cui tutti si conoscevano, anche solo discretamente. Valentina però non aveva l’aria di un’impiegata né tantomeno possedeva quello sguardo austero che contraddistingueva la gente che frequentava il locale. Forse per questo Giulia era così affascinata da lei. Gli anni passati a rincorrere obiettivi lavorativi, abituandosi alla conoscenza di persone che di loro non riuscivano che vantare l’uso del proprio raziocinio. Lei e Serena si erano ridotte come loro: avevano un’agenzia di wedding plan, avevano trasformato il matrimonio in bilanci finanziari e una maniacale cura di dettagli perlopiù superflui. “Rendi la tua passione un lavoro e non lavorerai un giorno della tua vita”, le dicevano i genitori, uno di quegli aforismi plagiati da chissà quale multimilionario. Solo da pochi anni scoprì che non era una frase incoraggiante, più un modo di rendere tutto ciò che possiedi solamente utile per il profitto. La sua anima spiccata per una romantica sensibilità non poteva più sopportarlo e si stava ribellando. Lo avrebbe fatto prendendo come ispirazione Valentina, forse.
23:01. Finalmente a casa. Giulia chiuse la porta dell’appartamento, la folata fredda di aria che proveniva dal corridoio la rinsavì, facendole ricordare che ora era libera dai chiacchiericci aziendali. Si guardò attorno: era libera, vero, ma la sua libertà l’aveva pagata a caro prezzo. Le mura del salotto puzzavano di vecchio e di solitudine: non una solitudine tanto ricercata e agognata, ma una solitudine deprimente e disprezzante. Con Teo aveva coperto il grigio strato delle pareti con una pittura color salmone; doveva servire a dare vita a quel posto, ora serviva solo per ricordarle che non aveva più nessuno accanto. L’amara nostalgia di una relazione che si erano promessi di far funzionare, ma non c’erano riusciti.
Non era stanca, solo spossata ed esausta. Si tolse i tacchi, i piedi doloranti toccavano il freddo pavimento. Si tuffò sul divano, accese la tv, la spense l’attimo dopo. Guardò verso il tavolo, il laptop ancora aperto e spento. Stava scrivendo un libro, ma più che a un romanzo assomigliava ad un confessionario. La storia era un fantasy, la protagonista una ragazza. Aveva scritto fino ad allora ottanta pagine, poi si accorse che nulla di tutto quello era frutto dalla sua fantasia più fervida: la ragazza del libro era lei, in tutto e per tutto; il modo che usava per approcciarsi con le dinamiche fantastiche di quel mondo erano solo una brutta copia della sua riservata personalità. Questa cosa la rattristò e interruppe il lavoro bruscamente. Quella sera però, decise di dare un’occhiata all’opera che aveva ripudiato. Lesse il primo capitolo e rifletté che era una storia poco umana, con uno stile troppo minimalista e poco introspettivo sulla versione dei fatti dei vari personaggi. Abbozzò una storia d’amore tra la protagonista e un ragazzo, che poi divenne una ragazza. Batteva le sue affusolate dita sulla tastiera, concitata, eccitata: la sua opera stava prendendo la forma che tanto voleva. Un flusso di dettagli e di situazioni verosimili che intessevano le lodi di quell’amore fittizio, stava restituendo al libro ciò che chiedeva sin dall’inizio. Poi la rivelazione: non stava fantasticando, stava trascrivendo di nuovo le sue confessioni. La storia d’amore era tra lei e Valentina. Forse non aveva il coraggio creativo di scrivere un romanzo, né tantomeno il talento di una penna narrante. Chiuse il laptop, scocciata e delusa.
Per far passare tutto serviva un lungo e caldo bagno. Avrebbe funzionato in altre occasioni, ma quella sera no, per un motivo o per un altro. La finestra del bagno dava su un cielo stellato che da tempo non si poteva vedere in città per colpa dell’illuminazione urbana. Sarebbe stato così bello descrivere la bellezza di quel panorama a qualcuno. A Serena? No, non avrebbe capito, avrebbe pensato che fosse ubriaca. Alla mamma? Da quanto tempo non ci parlava? A…Valentina?
Guardò in basso. Il vapore stava nascondendo il suo seno. Lo sfiorò con una mano, quasi come se non fosse suo e dovesse chiedere il permesso. Era gonfio, sodo, si muoveva indeciso ad ogni minimo spostamento dell’acqua. Le piaceva toccarsi, forse più di quanto non si ricordava. Da quanto tempo aveva smesso di curare la propria intimità, l’unico momento in cui tutto ciò che faceva lo doveva rendere solo a sé stessa? Non aveva tempo ovviamente, gli altri dovevano venire sempre al primo posto tra le sue preoccupazioni. Con Teo aveva sacrificato tutta la sua sfera intima. Non ci pensava proprio che un momento come quello poteva nuovamente accadere.
Appoggiò i piedi sul bordo della vasca, sfregavano tra di loro e si piegavano per cercare una posizione comoda. La mano seguiva la linea longitudinale del suo ventre; si tastò l'inguine, glabro e tumido, le dita bagnate scivolarono da sole per toccare la vulva. Giulia cacciò uno stridulo appena alluso, la mano sinistra che scorreva sui suoi capelli cercava di tenere la testa ferma, tremava dopo essere stata disabituata a quel brivido che partiva da lì sotto per ascendere tutto il corpo. Più che toccarsi sembrava strizzare la pelle attorno, doveva prendere la cosa con calma. Trovare magari un pensiero che poteva aiutarla. Un’idea, una persona: Valentina. La mente di Giulia prese a configurare la faccia della ragazza, improvvisava come un rullino di ricordi ognuno separato da quell’altro; pronunciò il suo nome a voce alta, si era liberata. Le sue dita si impregnarono di un liquido che non fu di certo acqua. Le portò di fronte al naso, staccava l’indice e il medio fra di loro per creare filamenti densi e trasparenti. Il vapore fece il resto per regalarle di nuovo quel senso di pienezza che si era scordata che esistesse.
4:26. Giulia si stropicciava gli occhi. Guardò la sveglia, poteva dormire ancora un altro paio di ore e non ci riusciva. La quiete della camera da letto l’aveva spaventata e svegliata. Non era naturale sentirsi così soli. Andò alla finestra, aprì le tende: un cane randagio passava per il marciapiede e regnava su quella distesa di cemento. Si rimise con la testa sul cuscino. Abbassò la mano sul suo lato sinistro, in uno strano tentativo di cercare un’altra presenza in quel letto che era troppo grande per una sola persona. Ma nel posto dove un tempo c’era Teo ora c’era un cuscino a forma di cuore. Lo abbracciò, cercava di condividere i propri sentimenti con lui; non parlava però, rimaneva fermo a guardarla con quello stupido sorriso cucitogli sopra. Versò una lacrima e il rosso fuoco del tessuto divenne scarlatto.
Alle sei e mezza le sembrò di dormire su un masso di pietra. Il torcicollo la stava seviziando, le gambe le dolevano. Dovette alzarsi dal letto, guardò l’ora e si rifiutò di aprire nuovamente le tende per vedere la città. Si diresse in bagno, fece un tu per tu con il suo riflesso o, sarebbe meglio dire, il riflesso di una sconosciuta. Gli occhi gonfi, incrostati dal pianto; le labbra secche e crepate, i capelli avevano perso il loro colorito. Prese a girare la faccia da lato a lato, sperando ogni volta di notare un nuovo particolare; il trucco non sarebbe servito questa volta per coprire le imperfezioni. Si spogliò dalla camicetta da notte, a petto nudo di fronte a quella donna che non riusciva ad identificare. Notò una mora sotto i seni, delle smagliature bianche che le correvano lungo la pancia; aveva accumulato un po’ di grasso attorno ai fianchi, ma il suo fisico a clessidra reggeva ancora. Si sciacquò la faccia, acqua rigorosamente fredda, in uno strano tentativo di lavare le impurità. Ad occhi chiusi, con le gocce che le scendevano dalla fronte, l’unica faccia che riusciva a vedere era quella di Valentina. Un fremito le passò attraverso le gambe; era seminuda, se avesse voluto avrebbe potuto replicare la serata di ieri.
Qualcuno suonò al campanello. Giulia ebbe uno scossone, di chi sembrava essere stata colta in flagrante nel commettere un atto osceno. Si asciugò celere la faccia e si rivestì, camminando a piedi nudi verso la porta. Poco prima di aprire, il campanello suonò nuovamente e questa cosa la infastidì assai. Era Alessandro, il vicino di casa; smagliante, alto, grandioso, seppur accartocciato in una posa che non vantava nulla se non la modestia: Giulia si chiedeva ogni volta come faceva ad essere così brillante sin dalle sei di mattina.
«Scusami se ti ho svegliato, Giuli.» La sua voce era tiepida, cauta.
«Non ti preoccupare» E quella di Giulia rotta, seppur fievole. «Ero già sveglia.»
«Ero venuto per la perdita di acqua.»
Perdita di acqua? Giulia rinvangò con la mente nei ricordi confusi dei giorni precedenti, era difficile farlo a quell’ora della giornata. Aveva chiamato Alessandro due giorni prima, chiedendogli di presentarsi a casa sua per sistemare quel maledetto tubo. Gli aveva detto di arrivare presto, prima che lei andasse al lavoro: sapeva che Alessandro sarebbe stato disponibile sin dalle prime ore del mattino.
«Sì prego, accomodati.» Giulia lo fece entrare, dandogli piena libertà di muoversi dentro casa. Spesso lo invitava nel suo appartamento, erano amici di lunga data.
«A che ora cominci a lavorare oggi?» La sua voce scompariva nel corridoio oltre il salotto.
«Alle otto» Si corresse poi. «Per le sette e tre quarti, a dire la verità. Ti preparo un caffè?»
«Certo, grazie.»
Giulia prese la moka, l’acqua e il caffè in polvere, che aveva un odore che la inebriava ogni volta.
«Lo vuoi macchiato? Un po’ di zucchero?»
Alessandro non la sentiva più; decise quindi di aspettarlo sul tavolo per chiederglielo.
Nemmeno una mezz’ora e di già il lavoro dell’idraulico era finito. Il suo caffè si era raffreddato, però.
«Bastava mettere solo un dado attorno al tubo» Disse, presentandosi all’entrata del cucinotto. «Grazie per il caffè.»
«È freddo, se vuoi te lo rifaccio.»
«Oh, non importa.»
«Grazie» Pronunciò tardiva Giulia, riferendosi al lavandino rotto.
Alessandro sorrise timido.
«Quanto ti devo?»
«Oh nulla, è compreso nelle spese condominiali.»
Un leggero imbarazzo salì nella stanza, come tra chi non aveva nulla da dirsi.
«Bene, ora è meglio che vada.»
«Aspetta…!» Perché lo aveva detto? «Io…»
Alessandro la guardò incuriosita, un po’ stupito di quella reazione. Da una parte però, aspettava proprio che glielo dicesse.
«Ho del vino. So che non è il massimo di prima mattina, ma è un sauvignon di prima qualità e non so con chi condividerlo. Sarebbe un dispiacere berlo tutto da sola.»
Dopo pochi minuti si trovavano sul divano; due calici mezzi colmi di vino, non abbastanza per rompere il ghiaccio. Chissà perché Giulia pensò che fosse una bell’idea.
«Non dovresti prepararti per il lavoro?» Alessandro era rigido, le mani sulle ginocchia, guardava lo schermo nero della tv aspettando che si accendesse da solo.
«C’è ancora tempo…» Giulia sedeva con la mano che sorreggeva la testa, la gamba rifilata sotto di lei e l’altra sospesa sul pavimento. Lo guardava, sperando che dicesse qualcosa, chiarendo le cose tra di loro. Non lo fece, non aveva il coraggio per farlo.
«Senti, Ale» Era un discorso che Giulia sapeva di dover fare prima o poi. «Quelle…cose successe tra di noi…»
Alessandro cominciò a guardarla negli occhi per la prima volta, messo alle strette come se una giuria stesse per pronunciare un verdetto su di lui.
«Ecco…forse dovremmo smettere di…»
«Tu mi piaci, Giuli» Una confessione adorabile, ma per Giulia era una fitta al cuore. «Non posso far finta che non sia così.»
Giulia non seppe cosa dire per le prime. Lo guardava con le labbra sigillate, i denti stretti in bocca; due occhi che sembravano delle lune, spalancati com’erano. Lo aveva detto veramente, quello che Giulia non avrebbe mai voluto sentirsi dire da parte sua alla fine lo aveva detto.
«Sei sposato, Ale. Non possiamo continuare a…»
«Lo so, lo so. Ogni volta che vengo a casa tua non porto mai la fede, sperando che possa servire per dimenticare la promessa che ho fatto a Federica.»
«Ale, eravamo ubriachi, tra di noi non c’è mai stato nulla di tutto quello. Eravamo solo sbronzi.»
«E allora perché ci penso ancora?»
«Anche io ci penso ancora, ciò non vuol dire che…»
«Ti prego, ascoltami» Alessandro unì le sue mani a quelle di Giulia. «Siamo amici da tanto tempo, possiamo confessare i nostri sentimenti liberamente, o sbaglio?»
Una domanda retorica, che Giulia era tentata di rispondere.
«Fino a due settimane fa tra noi sembrava non esserci nulla, se non l’amicizia che ci ha sempre tenuto uniti. Ho sempre pensato che fossi molto bella, davvero, ma non lo realizzai mai. Mi innamorai di Federica, era una cosa seria. E non so però, sembravo molto inesperto. Ti chiesi tanti consigli, ti assillavo anche per telefono, e tu sapevi sempre come aiutarmi. Ad una certa presi a parlare con Federica fingendo che fossi tu. Poi, quella sera, tu hai allungato il tuo braccio attorno al mio collo e ho sentito qualcosa, qualcosa di vero.»
«No, no…» Giulia negava, pensava che fosse abbastanza per non sentirsi in colpa. «Noi avevamo solo bevuto troppo.»
«E allora perché non ne abbiamo parlato prima? Se era così semplice perché non abbiamo trovato una soluzione prima?»
Giulia era sempre stata pudica a parlare dei suoi veri sentimenti. Forse riconosceva il fatto che tra lei e Alessandro un’intesa c’era, ma era solo una risposta chimica alla rottura con Teo.
«Solo che…» Le frasi di Giulia sembravano non avere mai una fine. «Mi sentivo così…»
“Sola. Da quando Teo è andato via, dopo che avevamo fatto all’amore per un’ultima volta. Mi sono sempre sentita sola in verità, per tutta la mia vita. Le cose non cambieranno mai Ale, tu non puoi aiutarmi in questo. Non prenderti responsabilità che non puoi gestire e, tantomeno, non provarci con me, perché ti farò solo del male. Vai da Federica, lei ti ama.”
Giulia voleva dire questo. Voleva sputargli in faccia la verità, ma Alessandro non c’entrava niente. Quel pensiero pareva solo molto altisonante. Gli occhi di lui erano teneri, vogliosi; l’aveva interrotta ancora, vedeva che muoveva le labbra ma non sentiva il suono, coperto da uno strano strido acuto che aveva cominciato a prorompersi nel suo orecchio. In quel momento erano molto vicini, quasi abbracciati l’uno all’altro. Giulia lo baciò.
Gli portò una mano dietro il collo e lo fece distendere su di lei. Trovò la radice del suo calore quando gli sbottonò di poco la camicia e passò la mano sul petto un poco ricoperto di peli. Lo guardava con gli occhi di chi sembrava dire ‘ti voglio, scusami se non te l’ho detto prima’. Lui la baciava, sul mento, sul collo, un attimo e si trovava già sul suo seno. Gli alzò la camicetta e gli affondò la faccia in mezzo, lambiva con la lingua i suoi turgidi capezzoli. Giulia sentiva una vampata di calore salirle dal cuore fino alla bocca, un blocco alla gola che si sciolse in un breve strepito. Sentiva il suo membro che strusciava tra i suoi pantaloni: duro, impaziente, lo voleva toccare. Gli aprì la zip e prese a massaggiargli la punta. Lo voleva dentro di lei, sentirlo un tutt’uno con il suo corpo. Agì con cautela, come era suo solito fare; lo fece strisciare prima per il tessuto delle mutandine e poi tra gli slip; sentiva come fremeva dalla voglia di trovare un posto in cui entrare e lei che prolungava il suo desiderio facendolo strisciare lungo le labbra. Lui stava per venire, sentiva un filo di liquido tingerle il bassoventre; lo accompagnò per farsi penetrare, delicata e materna. Alessandro sospirò nel suo orecchio, un lungo mugolio di chi anelava nella lussuria. Si stringeva attorno a lui, lo stava guidando come se lo stesse facendo per la prima volta, ma Alessandro si divincolava pensando di saper da solo come procurarle piacere. Ci riuscì, la fece bagnare. Giulia gemette: i loro lamenti li condividevano sempre all’orecchio, sussurri di chi si nascondeva, di chi voleva amare in segreto. Alessandro aspettava ancora, voleva spartirsi quelle note di godimento assieme a lei, arrivare al culmine con Giulia. Penetrò più affondo, lei percepiva i suoi tentativi di insistenza. Si lasciò andare, lo voleva accontentare come meglio poteva e presto il suo seme si unì ai suoi umori. Caldo, invadente, e così esaustivo. Alessandro non voleva staccarsi, era unito a lei per sempre. Ma sul volto di Giulia comparì di nuovo quella strana assortita di nostalgia e avvilimento: non stava facendo la cosa giusta, né per sé stessa né per lui, che di sicuro non si accorgeva del male che si stava procurando. Alessandro sprofondò con il volto erubescente tra i suoi capelli, mentre lei continuava a massaggiargli la nuca; si stava ancora muovendo dentro di lei, ma Giulia strisciò fuori come in allerta. Non voleva farlo ancora, non poteva farlo.
Guardò alla sua sinistra: i calici erano ancora riempiti di vino. Questa volta non poteva dare la colpa all’alcool.
«Ti prego, vattene» Giulia sapeva di ferirlo. «Vattene via.»
Alessandro continuava a riposarsi tra le sue ciocche di capelli. Era come assopito, di sicuro appagato e illuso di aver trovato un nuovo amore.
«Ale, devi andare via. Ti prego.»
Alessandro alzò la testa. Le diede un conciso bacio sulla guancia: ardeva come l’acciaio stridente di una lama.
«No…no» Giulia era stata messa in una situazione drastica. «Smettila, ti supplico.»
Alessandro non voleva crederci. Si stagliò davanti a lei, sorretto sulle proprie ginocchia. Il pene che gli penzolava davanti, ancora umido di brama.
«Perché mi dici così?» Parlava come se fosse stato appena abbandonato, come un bambino viziato e capriccioso.
«Perché non è giusto» Parole troppo dolorose, sembrava che non fosse Giulia a parlare.
«È successo. Non eravamo ubriachi questa volta.»
«Lo so, lo so. Per questo te lo dico. Non accadrà come le scorse volte, che ci svegliamo con il mal di testa e facciamo finta che nulla sia successo solo perché stiamo troppo male per parlarne. Questa volta è finita, sul serio.»
Alessandro non sapeva controbattere. Non sapeva, Giulia era troppo potente e troppo onesta. Ad una certa sembrava che gli occhi gli si gonfiassero per piangere, ma la sua mente si rifiutava di comportarsi come se avesse avuto il diritto di difendersi. Doveva smettere di storpiare la realtà a suo piacimento.
Si riallacciò i pantaloni, aiutò Giulia a sistemarsi e poi si abbracciarono. Non un abbraccio d’amore, ma l’abbraccio di due amici, due buoni amici.
8:17. Giulia stava tardando al lavoro di oltre mezz’ora. Si era raccolta seduta contro la porta, sentiva ancora i passi di Alessandro fuori dall’entrata. Era una pessima persona, pensò. Ora sperava solo che le cose tra lei e lui tornassero come prima.
Andò in bagno, prese il cellulare e telefonò Serena inventando una scusa. Si guardò allo specchio: il suo volto sembrava un po’ più radioso di quando si era svegliata, sicuramente meno consunto e logoro dalla stanchezza. Si sarebbe aspettata di peggio. Si lavò alla svelta, le sue gambe tremavano ancora un poco. Si truccò usando soprattutto la cipria per rinvigorire in apparenza la pelle. La sua uniforme di donna in carriera la rendeva splendida, una ragazza nuovamente concentrata solo sul suo lavoro, quell’occupazione che odiava ma che ora sembrava l’unico metodo per dimenticare la mattinata.
Guardò fuori dalla finestra, là dove prima si rifiutò di vedere perché trovava solo desolazione. Le persone camminavano con il solito ritmo che contraddistingueva la città; le saracinesche dei negozi vennero alzate e le macchine sfrecciavano per evitare il traffico di prima mattina. Il cielo era terso, blu, il sole aveva ancora velature di rosso. Era una bella giornata.
Giulia riusciva a captare in lei lo spirito maturo intrappolato in un corpo ancora troppo giovane per sopportare tutta quella saggezza. La vedeva ogni volta e ogni volta se ne innamorava.
“Domani abbiamo quella riunione con il fornitore di cui ti avevo parlato ieri. Alle nove avevamo fissato l’appuntamento, l’abbiamo posticipato di mezz’ora. Ricordiamoci anche del bouquet, è essenziale il bouquet.»
Il corpo piatto, snello, una piuma che si adagiava sulla cresta del lago. Un sorriso lesto e accennato quando parlava con il barista, pensava che fosse abbastanza per nascondere i suoi tragici occhi.
«La sposa ha voluto pure insistere sulla disposizione dei tavoli. È indisponente, se te lo chiedessi, e molto esigente. Vuole controllare ogni cosa. Forse dovremmo smettere di accettare questo tipo di clienti. Mi stai ascoltando?»
«Come?» Giulia scattò.
«Mi stai ascoltando? No, vero? Senti, mi spiace, è colpa mia. So che stai attraversando un periodo difficile e non dovrei scaricarti così tanto lavoro addosso. Forse dovresti prendere un periodo di pausa.»
Serena parlava vorace e rapida, era sempre di fretta. La sua mente era veloce e attiva, di chi non voleva perdere tempo a spiegarsi. Faceva parlare i fatti non le parole.
«No Serena, io…» Giulia di canto suo aveva la flemma di una poetessa, di chi guardava il mondo come una sinergia di forze lente e non arbitrarie. «Sì, hai ragione, è un periodo difficile, ma non deve ostacolare il nostro lavoro.»
Serena appoggiò la sua mano su quella di Giulia. Fredda, quasi spinta dalla pietà più che dall’empatia.
«Sono la tua socia in affari, ma prima di tutto sono la tua migliore amica.»
Giulia cercava di analizzare la sua faccia: non sorrideva, la confortava come se fosse in dovere di farlo.
«Non ti preoccupare» Giulia non voleva indugiare. «La faccenda con Teo appartiene al passato. Non c’è bisogno di preoccuparsi. A che ora mi devo presentare domani in agenzia?»
«Per le otto va bene. Se venissi un quarto d’ora prima sarebbe meglio» Serena riprese a parlare quanto bastava per riportare Giulia nel suo flusso di pensieri.
Valentina teneva in mano il bicchiere di caffè quando fu in procinto di andarsene. Il suono della campanella mentre aprì la porta accompagnò la sua uscita.
Chissà cosa ci faceva lì. Il circolo Caffè del Consorzio era riservato alle persone che erano titolari di piccole agenzie e startup. Bisognava avere una tessera per farne parte, motivo per cui tutti si conoscevano, anche solo discretamente. Valentina però non aveva l’aria di un’impiegata né tantomeno possedeva quello sguardo austero che contraddistingueva la gente che frequentava il locale. Forse per questo Giulia era così affascinata da lei. Gli anni passati a rincorrere obiettivi lavorativi, abituandosi alla conoscenza di persone che di loro non riuscivano che vantare l’uso del proprio raziocinio. Lei e Serena si erano ridotte come loro: avevano un’agenzia di wedding plan, avevano trasformato il matrimonio in bilanci finanziari e una maniacale cura di dettagli perlopiù superflui. “Rendi la tua passione un lavoro e non lavorerai un giorno della tua vita”, le dicevano i genitori, uno di quegli aforismi plagiati da chissà quale multimilionario. Solo da pochi anni scoprì che non era una frase incoraggiante, più un modo di rendere tutto ciò che possiedi solamente utile per il profitto. La sua anima spiccata per una romantica sensibilità non poteva più sopportarlo e si stava ribellando. Lo avrebbe fatto prendendo come ispirazione Valentina, forse.
23:01. Finalmente a casa. Giulia chiuse la porta dell’appartamento, la folata fredda di aria che proveniva dal corridoio la rinsavì, facendole ricordare che ora era libera dai chiacchiericci aziendali. Si guardò attorno: era libera, vero, ma la sua libertà l’aveva pagata a caro prezzo. Le mura del salotto puzzavano di vecchio e di solitudine: non una solitudine tanto ricercata e agognata, ma una solitudine deprimente e disprezzante. Con Teo aveva coperto il grigio strato delle pareti con una pittura color salmone; doveva servire a dare vita a quel posto, ora serviva solo per ricordarle che non aveva più nessuno accanto. L’amara nostalgia di una relazione che si erano promessi di far funzionare, ma non c’erano riusciti.
Non era stanca, solo spossata ed esausta. Si tolse i tacchi, i piedi doloranti toccavano il freddo pavimento. Si tuffò sul divano, accese la tv, la spense l’attimo dopo. Guardò verso il tavolo, il laptop ancora aperto e spento. Stava scrivendo un libro, ma più che a un romanzo assomigliava ad un confessionario. La storia era un fantasy, la protagonista una ragazza. Aveva scritto fino ad allora ottanta pagine, poi si accorse che nulla di tutto quello era frutto dalla sua fantasia più fervida: la ragazza del libro era lei, in tutto e per tutto; il modo che usava per approcciarsi con le dinamiche fantastiche di quel mondo erano solo una brutta copia della sua riservata personalità. Questa cosa la rattristò e interruppe il lavoro bruscamente. Quella sera però, decise di dare un’occhiata all’opera che aveva ripudiato. Lesse il primo capitolo e rifletté che era una storia poco umana, con uno stile troppo minimalista e poco introspettivo sulla versione dei fatti dei vari personaggi. Abbozzò una storia d’amore tra la protagonista e un ragazzo, che poi divenne una ragazza. Batteva le sue affusolate dita sulla tastiera, concitata, eccitata: la sua opera stava prendendo la forma che tanto voleva. Un flusso di dettagli e di situazioni verosimili che intessevano le lodi di quell’amore fittizio, stava restituendo al libro ciò che chiedeva sin dall’inizio. Poi la rivelazione: non stava fantasticando, stava trascrivendo di nuovo le sue confessioni. La storia d’amore era tra lei e Valentina. Forse non aveva il coraggio creativo di scrivere un romanzo, né tantomeno il talento di una penna narrante. Chiuse il laptop, scocciata e delusa.
Per far passare tutto serviva un lungo e caldo bagno. Avrebbe funzionato in altre occasioni, ma quella sera no, per un motivo o per un altro. La finestra del bagno dava su un cielo stellato che da tempo non si poteva vedere in città per colpa dell’illuminazione urbana. Sarebbe stato così bello descrivere la bellezza di quel panorama a qualcuno. A Serena? No, non avrebbe capito, avrebbe pensato che fosse ubriaca. Alla mamma? Da quanto tempo non ci parlava? A…Valentina?
Guardò in basso. Il vapore stava nascondendo il suo seno. Lo sfiorò con una mano, quasi come se non fosse suo e dovesse chiedere il permesso. Era gonfio, sodo, si muoveva indeciso ad ogni minimo spostamento dell’acqua. Le piaceva toccarsi, forse più di quanto non si ricordava. Da quanto tempo aveva smesso di curare la propria intimità, l’unico momento in cui tutto ciò che faceva lo doveva rendere solo a sé stessa? Non aveva tempo ovviamente, gli altri dovevano venire sempre al primo posto tra le sue preoccupazioni. Con Teo aveva sacrificato tutta la sua sfera intima. Non ci pensava proprio che un momento come quello poteva nuovamente accadere.
Appoggiò i piedi sul bordo della vasca, sfregavano tra di loro e si piegavano per cercare una posizione comoda. La mano seguiva la linea longitudinale del suo ventre; si tastò l'inguine, glabro e tumido, le dita bagnate scivolarono da sole per toccare la vulva. Giulia cacciò uno stridulo appena alluso, la mano sinistra che scorreva sui suoi capelli cercava di tenere la testa ferma, tremava dopo essere stata disabituata a quel brivido che partiva da lì sotto per ascendere tutto il corpo. Più che toccarsi sembrava strizzare la pelle attorno, doveva prendere la cosa con calma. Trovare magari un pensiero che poteva aiutarla. Un’idea, una persona: Valentina. La mente di Giulia prese a configurare la faccia della ragazza, improvvisava come un rullino di ricordi ognuno separato da quell’altro; pronunciò il suo nome a voce alta, si era liberata. Le sue dita si impregnarono di un liquido che non fu di certo acqua. Le portò di fronte al naso, staccava l’indice e il medio fra di loro per creare filamenti densi e trasparenti. Il vapore fece il resto per regalarle di nuovo quel senso di pienezza che si era scordata che esistesse.
4:26. Giulia si stropicciava gli occhi. Guardò la sveglia, poteva dormire ancora un altro paio di ore e non ci riusciva. La quiete della camera da letto l’aveva spaventata e svegliata. Non era naturale sentirsi così soli. Andò alla finestra, aprì le tende: un cane randagio passava per il marciapiede e regnava su quella distesa di cemento. Si rimise con la testa sul cuscino. Abbassò la mano sul suo lato sinistro, in uno strano tentativo di cercare un’altra presenza in quel letto che era troppo grande per una sola persona. Ma nel posto dove un tempo c’era Teo ora c’era un cuscino a forma di cuore. Lo abbracciò, cercava di condividere i propri sentimenti con lui; non parlava però, rimaneva fermo a guardarla con quello stupido sorriso cucitogli sopra. Versò una lacrima e il rosso fuoco del tessuto divenne scarlatto.
Alle sei e mezza le sembrò di dormire su un masso di pietra. Il torcicollo la stava seviziando, le gambe le dolevano. Dovette alzarsi dal letto, guardò l’ora e si rifiutò di aprire nuovamente le tende per vedere la città. Si diresse in bagno, fece un tu per tu con il suo riflesso o, sarebbe meglio dire, il riflesso di una sconosciuta. Gli occhi gonfi, incrostati dal pianto; le labbra secche e crepate, i capelli avevano perso il loro colorito. Prese a girare la faccia da lato a lato, sperando ogni volta di notare un nuovo particolare; il trucco non sarebbe servito questa volta per coprire le imperfezioni. Si spogliò dalla camicetta da notte, a petto nudo di fronte a quella donna che non riusciva ad identificare. Notò una mora sotto i seni, delle smagliature bianche che le correvano lungo la pancia; aveva accumulato un po’ di grasso attorno ai fianchi, ma il suo fisico a clessidra reggeva ancora. Si sciacquò la faccia, acqua rigorosamente fredda, in uno strano tentativo di lavare le impurità. Ad occhi chiusi, con le gocce che le scendevano dalla fronte, l’unica faccia che riusciva a vedere era quella di Valentina. Un fremito le passò attraverso le gambe; era seminuda, se avesse voluto avrebbe potuto replicare la serata di ieri.
Qualcuno suonò al campanello. Giulia ebbe uno scossone, di chi sembrava essere stata colta in flagrante nel commettere un atto osceno. Si asciugò celere la faccia e si rivestì, camminando a piedi nudi verso la porta. Poco prima di aprire, il campanello suonò nuovamente e questa cosa la infastidì assai. Era Alessandro, il vicino di casa; smagliante, alto, grandioso, seppur accartocciato in una posa che non vantava nulla se non la modestia: Giulia si chiedeva ogni volta come faceva ad essere così brillante sin dalle sei di mattina.
«Scusami se ti ho svegliato, Giuli.» La sua voce era tiepida, cauta.
«Non ti preoccupare» E quella di Giulia rotta, seppur fievole. «Ero già sveglia.»
«Ero venuto per la perdita di acqua.»
Perdita di acqua? Giulia rinvangò con la mente nei ricordi confusi dei giorni precedenti, era difficile farlo a quell’ora della giornata. Aveva chiamato Alessandro due giorni prima, chiedendogli di presentarsi a casa sua per sistemare quel maledetto tubo. Gli aveva detto di arrivare presto, prima che lei andasse al lavoro: sapeva che Alessandro sarebbe stato disponibile sin dalle prime ore del mattino.
«Sì prego, accomodati.» Giulia lo fece entrare, dandogli piena libertà di muoversi dentro casa. Spesso lo invitava nel suo appartamento, erano amici di lunga data.
«A che ora cominci a lavorare oggi?» La sua voce scompariva nel corridoio oltre il salotto.
«Alle otto» Si corresse poi. «Per le sette e tre quarti, a dire la verità. Ti preparo un caffè?»
«Certo, grazie.»
Giulia prese la moka, l’acqua e il caffè in polvere, che aveva un odore che la inebriava ogni volta.
«Lo vuoi macchiato? Un po’ di zucchero?»
Alessandro non la sentiva più; decise quindi di aspettarlo sul tavolo per chiederglielo.
Nemmeno una mezz’ora e di già il lavoro dell’idraulico era finito. Il suo caffè si era raffreddato, però.
«Bastava mettere solo un dado attorno al tubo» Disse, presentandosi all’entrata del cucinotto. «Grazie per il caffè.»
«È freddo, se vuoi te lo rifaccio.»
«Oh, non importa.»
«Grazie» Pronunciò tardiva Giulia, riferendosi al lavandino rotto.
Alessandro sorrise timido.
«Quanto ti devo?»
«Oh nulla, è compreso nelle spese condominiali.»
Un leggero imbarazzo salì nella stanza, come tra chi non aveva nulla da dirsi.
«Bene, ora è meglio che vada.»
«Aspetta…!» Perché lo aveva detto? «Io…»
Alessandro la guardò incuriosita, un po’ stupito di quella reazione. Da una parte però, aspettava proprio che glielo dicesse.
«Ho del vino. So che non è il massimo di prima mattina, ma è un sauvignon di prima qualità e non so con chi condividerlo. Sarebbe un dispiacere berlo tutto da sola.»
Dopo pochi minuti si trovavano sul divano; due calici mezzi colmi di vino, non abbastanza per rompere il ghiaccio. Chissà perché Giulia pensò che fosse una bell’idea.
«Non dovresti prepararti per il lavoro?» Alessandro era rigido, le mani sulle ginocchia, guardava lo schermo nero della tv aspettando che si accendesse da solo.
«C’è ancora tempo…» Giulia sedeva con la mano che sorreggeva la testa, la gamba rifilata sotto di lei e l’altra sospesa sul pavimento. Lo guardava, sperando che dicesse qualcosa, chiarendo le cose tra di loro. Non lo fece, non aveva il coraggio per farlo.
«Senti, Ale» Era un discorso che Giulia sapeva di dover fare prima o poi. «Quelle…cose successe tra di noi…»
Alessandro cominciò a guardarla negli occhi per la prima volta, messo alle strette come se una giuria stesse per pronunciare un verdetto su di lui.
«Ecco…forse dovremmo smettere di…»
«Tu mi piaci, Giuli» Una confessione adorabile, ma per Giulia era una fitta al cuore. «Non posso far finta che non sia così.»
Giulia non seppe cosa dire per le prime. Lo guardava con le labbra sigillate, i denti stretti in bocca; due occhi che sembravano delle lune, spalancati com’erano. Lo aveva detto veramente, quello che Giulia non avrebbe mai voluto sentirsi dire da parte sua alla fine lo aveva detto.
«Sei sposato, Ale. Non possiamo continuare a…»
«Lo so, lo so. Ogni volta che vengo a casa tua non porto mai la fede, sperando che possa servire per dimenticare la promessa che ho fatto a Federica.»
«Ale, eravamo ubriachi, tra di noi non c’è mai stato nulla di tutto quello. Eravamo solo sbronzi.»
«E allora perché ci penso ancora?»
«Anche io ci penso ancora, ciò non vuol dire che…»
«Ti prego, ascoltami» Alessandro unì le sue mani a quelle di Giulia. «Siamo amici da tanto tempo, possiamo confessare i nostri sentimenti liberamente, o sbaglio?»
Una domanda retorica, che Giulia era tentata di rispondere.
«Fino a due settimane fa tra noi sembrava non esserci nulla, se non l’amicizia che ci ha sempre tenuto uniti. Ho sempre pensato che fossi molto bella, davvero, ma non lo realizzai mai. Mi innamorai di Federica, era una cosa seria. E non so però, sembravo molto inesperto. Ti chiesi tanti consigli, ti assillavo anche per telefono, e tu sapevi sempre come aiutarmi. Ad una certa presi a parlare con Federica fingendo che fossi tu. Poi, quella sera, tu hai allungato il tuo braccio attorno al mio collo e ho sentito qualcosa, qualcosa di vero.»
«No, no…» Giulia negava, pensava che fosse abbastanza per non sentirsi in colpa. «Noi avevamo solo bevuto troppo.»
«E allora perché non ne abbiamo parlato prima? Se era così semplice perché non abbiamo trovato una soluzione prima?»
Giulia era sempre stata pudica a parlare dei suoi veri sentimenti. Forse riconosceva il fatto che tra lei e Alessandro un’intesa c’era, ma era solo una risposta chimica alla rottura con Teo.
«Solo che…» Le frasi di Giulia sembravano non avere mai una fine. «Mi sentivo così…»
“Sola. Da quando Teo è andato via, dopo che avevamo fatto all’amore per un’ultima volta. Mi sono sempre sentita sola in verità, per tutta la mia vita. Le cose non cambieranno mai Ale, tu non puoi aiutarmi in questo. Non prenderti responsabilità che non puoi gestire e, tantomeno, non provarci con me, perché ti farò solo del male. Vai da Federica, lei ti ama.”
Giulia voleva dire questo. Voleva sputargli in faccia la verità, ma Alessandro non c’entrava niente. Quel pensiero pareva solo molto altisonante. Gli occhi di lui erano teneri, vogliosi; l’aveva interrotta ancora, vedeva che muoveva le labbra ma non sentiva il suono, coperto da uno strano strido acuto che aveva cominciato a prorompersi nel suo orecchio. In quel momento erano molto vicini, quasi abbracciati l’uno all’altro. Giulia lo baciò.
Gli portò una mano dietro il collo e lo fece distendere su di lei. Trovò la radice del suo calore quando gli sbottonò di poco la camicia e passò la mano sul petto un poco ricoperto di peli. Lo guardava con gli occhi di chi sembrava dire ‘ti voglio, scusami se non te l’ho detto prima’. Lui la baciava, sul mento, sul collo, un attimo e si trovava già sul suo seno. Gli alzò la camicetta e gli affondò la faccia in mezzo, lambiva con la lingua i suoi turgidi capezzoli. Giulia sentiva una vampata di calore salirle dal cuore fino alla bocca, un blocco alla gola che si sciolse in un breve strepito. Sentiva il suo membro che strusciava tra i suoi pantaloni: duro, impaziente, lo voleva toccare. Gli aprì la zip e prese a massaggiargli la punta. Lo voleva dentro di lei, sentirlo un tutt’uno con il suo corpo. Agì con cautela, come era suo solito fare; lo fece strisciare prima per il tessuto delle mutandine e poi tra gli slip; sentiva come fremeva dalla voglia di trovare un posto in cui entrare e lei che prolungava il suo desiderio facendolo strisciare lungo le labbra. Lui stava per venire, sentiva un filo di liquido tingerle il bassoventre; lo accompagnò per farsi penetrare, delicata e materna. Alessandro sospirò nel suo orecchio, un lungo mugolio di chi anelava nella lussuria. Si stringeva attorno a lui, lo stava guidando come se lo stesse facendo per la prima volta, ma Alessandro si divincolava pensando di saper da solo come procurarle piacere. Ci riuscì, la fece bagnare. Giulia gemette: i loro lamenti li condividevano sempre all’orecchio, sussurri di chi si nascondeva, di chi voleva amare in segreto. Alessandro aspettava ancora, voleva spartirsi quelle note di godimento assieme a lei, arrivare al culmine con Giulia. Penetrò più affondo, lei percepiva i suoi tentativi di insistenza. Si lasciò andare, lo voleva accontentare come meglio poteva e presto il suo seme si unì ai suoi umori. Caldo, invadente, e così esaustivo. Alessandro non voleva staccarsi, era unito a lei per sempre. Ma sul volto di Giulia comparì di nuovo quella strana assortita di nostalgia e avvilimento: non stava facendo la cosa giusta, né per sé stessa né per lui, che di sicuro non si accorgeva del male che si stava procurando. Alessandro sprofondò con il volto erubescente tra i suoi capelli, mentre lei continuava a massaggiargli la nuca; si stava ancora muovendo dentro di lei, ma Giulia strisciò fuori come in allerta. Non voleva farlo ancora, non poteva farlo.
Guardò alla sua sinistra: i calici erano ancora riempiti di vino. Questa volta non poteva dare la colpa all’alcool.
«Ti prego, vattene» Giulia sapeva di ferirlo. «Vattene via.»
Alessandro continuava a riposarsi tra le sue ciocche di capelli. Era come assopito, di sicuro appagato e illuso di aver trovato un nuovo amore.
«Ale, devi andare via. Ti prego.»
Alessandro alzò la testa. Le diede un conciso bacio sulla guancia: ardeva come l’acciaio stridente di una lama.
«No…no» Giulia era stata messa in una situazione drastica. «Smettila, ti supplico.»
Alessandro non voleva crederci. Si stagliò davanti a lei, sorretto sulle proprie ginocchia. Il pene che gli penzolava davanti, ancora umido di brama.
«Perché mi dici così?» Parlava come se fosse stato appena abbandonato, come un bambino viziato e capriccioso.
«Perché non è giusto» Parole troppo dolorose, sembrava che non fosse Giulia a parlare.
«È successo. Non eravamo ubriachi questa volta.»
«Lo so, lo so. Per questo te lo dico. Non accadrà come le scorse volte, che ci svegliamo con il mal di testa e facciamo finta che nulla sia successo solo perché stiamo troppo male per parlarne. Questa volta è finita, sul serio.»
Alessandro non sapeva controbattere. Non sapeva, Giulia era troppo potente e troppo onesta. Ad una certa sembrava che gli occhi gli si gonfiassero per piangere, ma la sua mente si rifiutava di comportarsi come se avesse avuto il diritto di difendersi. Doveva smettere di storpiare la realtà a suo piacimento.
Si riallacciò i pantaloni, aiutò Giulia a sistemarsi e poi si abbracciarono. Non un abbraccio d’amore, ma l’abbraccio di due amici, due buoni amici.
8:17. Giulia stava tardando al lavoro di oltre mezz’ora. Si era raccolta seduta contro la porta, sentiva ancora i passi di Alessandro fuori dall’entrata. Era una pessima persona, pensò. Ora sperava solo che le cose tra lei e lui tornassero come prima.
Andò in bagno, prese il cellulare e telefonò Serena inventando una scusa. Si guardò allo specchio: il suo volto sembrava un po’ più radioso di quando si era svegliata, sicuramente meno consunto e logoro dalla stanchezza. Si sarebbe aspettata di peggio. Si lavò alla svelta, le sue gambe tremavano ancora un poco. Si truccò usando soprattutto la cipria per rinvigorire in apparenza la pelle. La sua uniforme di donna in carriera la rendeva splendida, una ragazza nuovamente concentrata solo sul suo lavoro, quell’occupazione che odiava ma che ora sembrava l’unico metodo per dimenticare la mattinata.
Guardò fuori dalla finestra, là dove prima si rifiutò di vedere perché trovava solo desolazione. Le persone camminavano con il solito ritmo che contraddistingueva la città; le saracinesche dei negozi vennero alzate e le macchine sfrecciavano per evitare il traffico di prima mattina. Il cielo era terso, blu, il sole aveva ancora velature di rosso. Era una bella giornata.
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