La cagna d'ufficio 5

di
genere
dominazione

"Ecco," disse Thorne, la voce bassa. Non rallentò il passo. Sharon abbassò gli occhi sul cemento che scorreva sotto le sue mani nude, concentrandosi sul movimento ritmico delle sue ginocchia. Il guinzaglio rimase teso. Passarono davanti al cancello aperto. Thorne la guidò lungo un vialetto laterale di ghiaia che scricchiolava sotto i loro passi, conducendo verso una porta laterale, nascosta sotto una pergola di glicine. L'odore intenso, quasi opprimente, dei fiori viola si sovrappose a tutti gli altri. Thorne si fermò davanti alla porta, una robusta entrata di quercia con una piccola grata metallica all'altezza degli occhi. Sfilò un mazzo di chiavi dalla tasca. Il tintinnio metallico sembrò troppo forte nel silenzio del giardino.

La chiave girò nella serratura con un clunk solido. La porta si aprì verso l'interno, rivelando un corridoio stretto, pavimentato con piastrelle di cotto rosso. Un'onda di aria più fresca, carica dell'odore di cera per mobili e vecchi libri, investì Sharon. Thorne entrò per primo, il guinzaglio che segnò il confine tra l'umido della notte e l'interno asciutto. Sharon lo seguì strisciando oltre la soglia. Il cotto era fresco sotto le sue ginocchia, ruvido ma pulito. Thorne chiuse la porta alle sue spalle con un tonfo definitivo. Il silenzio calò, rotto solo dal loro respiro e dal ticchettio lontano di un orologio. Non ci furono parole di benvenuto. Thorne si chinò, le mani esperte che sganciarono il guinzaglio dalla fibbia del collare rosso. Il metallo cadde sul cotto con un leggero tintinnio. "Segui," ordinò semplicemente, lasciando il guinzaglio sul pavimento.

Sharon avanzò sulle sue mani e ginocchia lungo il corridoio. La luce fioca di una lampada a sospensione di ottone illuminava pareti tinteggiate di un giallo ocra sbiadito. Passarono davanti a una porta socchiusa che mostrava una biblioteca affollata, gli scaffali di legno scuro carichi fino al soffitto. Più avanti, un'altra porta aperta lasciava intravedere una cucina: piastrelle bianche, un grande fornello a legna spento, un tavolo di legno massiccio. Thorne non indicava nulla, non spiegava. Si limitava a camminare davanti a lei, il suo passo misurato sul cotto, mentre lei lo seguiva fedelmente. Il suo corpo nudo si muoveva con una fluidità acquisita, ogni movimento un'affermazione silenziosa della sua scelta. Qui, tra queste vecchie mura, la sua nudità non era esposizione, ma verità. Era esattamente ciò che voleva essere: sottomessa, nuda, al servizio del suo padrone. Un senso di diritto, profondo e caldo, si diffuse nel suo petto.

Attraversarono un arco basso che immetteva in un salotto spazioso. Mobili antichi di quercia scura – una credenza massiccia, due poltrone con braccioli intagliati – si stagliavano contro pareti rivestite di pannelli di legno chiaro. Un enorme tappeto persiano dai colori sbiaditi copriva gran parte del pavimento di legno. Thorne si fermò davanti al camino di pietra, spento ma pulito. Si voltò verso di lei. "Cena," disse semplicemente. Si diresse verso la cucina. Sharon lo seguì strisciando sul legno liscio, poi sulle fredde piastrelle bianche della cucina. Thorne aprì il frigorifero, estrasse avanzi di pollo arrosto freddo e un pezzo di pane rustico. Si sedette al tavolo massiccio, tagliò il pollo a pezzi irregolari. Senza cerimonie, ne lanciò uno verso di lei. Sharon lo seguì con lo sguardo, aprì la bocca e lo catturò al volo. Il sapore salato e carnoso esplose sulla sua lingua. Un brontolio di piacere le sfuggì mentre masticava avidamente, gli occhi fissi su Thorne che osservava impassibile. Lanciò un pezzo di pane. Lei lo afferrò, la crosta croccante che si sbriciolava tra i suoi denti. Mangiarono così, in silenzio rotto solo dal ticchettio di un orologio a pendolo nel salotto e dal suono sommesso delle sue mascelle. Ogni boccone che catturava, ogni sguardo approvante di Thorne, era una conferma.

Dopo, Thorne si alzò e ripulì velocemente i pochi piatti. Sharon rimase immobile sul pavimento fresco, leccandosi distrattamente le labbra, sazia e stranamente serena. Thorne tornò nel salotto e si sedette in una delle poltrone accanto al camino freddo. Accese una lampada da tavolo con paralume di vetro verde, gettando un cerchio di luce calda sul libro che aprì. Sharon strisciò silenziosamente verso di lui attraverso il tappeto persiano, la lana ruvida sotto le sue ginocchia nude. Si sistemò ai suoi piedi, appoggiando il fianco contro il legno solido della poltrona. Il suo corpo si rilassò contro la struttura familiare di Thorne. Inspirò profondamente. L'odore della cera per legno, della carta vecchia del libro e della sua stessa pelle pulita dopo il viaggio si mescolavano nell'aria ferma. Chiuse gli occhi per un istante. Un fremito di felicità pura, semplice, la attraversò. Qui, nuda e ai suoi piedi, non era una prigioniera. Era arrivata.

Thorne sfogliò una pagina, il fruscio della carta unico suono oltre al loro respiro sincronizzato. La sua mano libera discese, quasi senza pensare, e si posò sulla testa di Sharon. Le dita affondarono nei suoi capelli, massaggiando il cuoio capelluto con una pressione familiare, possessiva. Sharon emise un sospiro basso, quasi un brontolio, e inclinò la testa nel suo palmo come un gatto che cerca le carezze. Il collare rosso era un peso leggero, una promessa invece che una catena. Guardò verso l'alto attraverso le ciglia. La luce della lampada scolpiva la mascella di Thorne, illuminava la concentrazione nei suoi occhi mentre leggeva. La sua presenza riempiva la stanza, solida e immutabile come le pareti stesse. "Padrone," sussurrò, la voce roca dal lungo silenzio. La parola non era una supplica, ma una constatazione. Un riconoscimento.

Thorne abbassò brevemente lo sguardo. Un lampo di qualcosa – approvazione? – attraversò i suoi occhi prima che tornassero al libro. "Sì, Sharon," rispose, la voce bassa e calda come la pietra del camino alle loro spalle. "Sei a casa." Le sue dita continuarono il movimento lento nei suoi capelli. Sharon chiuse gli occhi, lasciando che il significato di quelle parole la penetrasse profondamente. Non era più la segretaria che strisciava sotto la scrivania dell'ufficio durante le pause pranzo. Non era più la ragazza che mangiava dalla ciotola nel parco sotto gli occhi dei passanti. Qui, tra queste mura impregnate di cera per legno e carta antica, la sua nudità e la sua sottomissione erano intrinseche alla struttura stessa della casa. Era il pavimento di legno liscio sotto le sue ginocchia, era il riflesso della lampada sul collare rosso, era la mano ferma che affondava nei suoi capelli. Era esattamente dove voleva essere. Dove apparteneva.
scritto il
2025-11-13
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