La cagna d'ufficio
di
Dan dan
genere
dominazione
Le porte dell'ascensore si aprirono con un leggero tintinnio. Sharon si aggiustò il colletto, il metallo freddo che le premeva contro la gola. "Piano 47, signorina Abernathy", disse l'assistente senza alzare lo sguardo dallo schermo. Lei annuì, salendo sul marmo lucido. I suoi tacchi risuonavano come metronomi nell'atrio cavernoso.
Fuori dalla suite del CEO, l'aria puzzava di legno di sandalo e paura. Sharon appoggiò la fronte contro la quercia scura. Un respiro profondo. Poi girò la maniglia. Dentro, il tappeto persiano inghiottiva ogni rumore. Il signor Thorne era piegato su un rapporto finanziario, le dita macchiate d'inchiostro rosso. Non alzò gli occhi. Lei chiuse la porta alle sue spalle.
Il rituale cominciò in silenzio. Le mani tremanti sbottonarono la camicetta bianca. La gonna grigia scivolò sulle ginocchia. Infine, il reggiseno e le mutandine di pizzo si unirono alla pila ordinata sul divano di pelle. La pelle d'oca le solcò i fianchi mentre si inginocchiava sulla moquette spessa. Il collare di cuoio rosso attendeva sul tavolo Lowen. Freddo. Pesante. La fibbia d'ottone scattò con un *click* definitivo.
Sharon avanzò carponi sul tappeto persiano, le nocche bianche contro i fili intricati. Il profumo di sandalo si mescolava all'odore del suo sudore. Si fermò ai piedi della scrivania monumentale, il naso a un centimetro dalla scarpa di Oxford lucida. Un gemito strozzato le sfuggì quando la suola le schiacciò le dita. Thorne non aveva ancora alzato lo sguardo dalla relazione finanziaria. "Il rapporto trimestrale di Singapore è insoddisfacente", mormorò, la penna rossa che scarabocchiava furiosamente. "Troppi errori umani".
Le sue costole pulsavano sotto il peso silenzioso dell'attesa. Un filo di saliva le colò dal labbro inferiore sul tappeto. Il collare le strozzava ogni respiro superficiale. Quando la punta della scarpa le sollevò il mento, vide il riflesso del suo corpo nudo negli occhiali a mezzaluna di Thorne. "Meglio". La sua voce era piatta come il marmo dell'atrio. "Ma la postura è rigida oggi". La punta della scarpa scivolò giù lungo lo sterno, lasciando una striscia rossa sulla pelle. Sharon trattenne un brivido.
Fuori, il tramonto tingeva i grattacieli di sangue. Throne estrasse un osso di gomma rossa dal cassetto della scrivania. Lo fece roteare lentamente davanti ai suoi occhi. "Singapore richiede disciplina". Lo scagliò oltre la sua testa. Sharon si contorse per seguirlo, le scapole aguzze come lame. Il tappeto bruciò le ginocchia mentre strisciava. L'odore della gomma si confondeva con quello del suo sudore. Quando afferrò l'osso coi denti, una risata bassa rimbombò sopra di lei.
Il telefono squillò. Thorne rispose senza fretta, il piede destro che premeva sulla sua nuca. "Sì? Ah, Nakamura-san". La pressione aumentò mentre parlava di cifre e fusioni. Sharon contò le fibre del tappeto sotto il naso. Uno. Due. Tre. Il dolore alla cervicale diventava acuto, pulsante. Le sue dita affondarono nel tessuto persiano. Il collare le scorticava l'arteria giugulare.
La chiamata terminò. Il silenzio ritornò, più spesso della prima volta. Thorne si alzò, le giunture che scricchiolavano. Sharon trattenne il respiro quando la sua ombra la inghiottì. L'osso di gomma rotolò via quando lui calpestò il suo polso. "Singapore". La parola cadde come una pietra tombale. Lei chiuse gli occhi, preparandosi al dolore.
Le sue dita afferrarono il collare invece della pelle. Il cuoio scattò stretto contro la trachea mentre veniva sollevata. Sharon penzolò come un pupazzo, le dita dei piedi che sfioravano appena il tappeto. Il riflesso della sua schiena curva tremolava nella finestra che diventava nera. Thorne appoggiò la fronte contro il vetro freddo, osservando le luci della città che si accendevano. Lei oscillava nel suo pugno, ogni respiro un fischio strozzato. "Il problema," sussurrò contro il suo riflesso, "è la mancanza di obbedienza istintiva".
La scaraventò sul pavimento. Sharon sbatté il mento contro la lana, il sapore del metallo in bocca. Prima che potesse riprendere fiato, la scarpa di Oxford le schiacciò la scapola sinistra. Un gemito soffocato le sfuggì mentre le dita si aprivano a ventaglio sul tappeto. Thorne estrasse un tablet dalla tasca interna della giacca. Lo accese con un tocco. "Gli analisti di Singapore." La voce era piatta mentre la pressione sulla schiena aumentava. "Guarda."
Sul display, cifre rosse pulsavano sopra una fotografia: un giovane uomo in camicia strappata, legato a una sedia d'acciaio. Sharon riconobbe le mattonelle del magazzino di livello -3. Un video iniziò a riprodursi. Non c'era audio, solo le labbra dell'uomo che si muovevano disperatamente mentre una figura in tuta nera alzava un tubo di gomma. Lei chiuse gli occhi. La scarpa le colpì la tempia. "Apri. Osserva il costo della disobbedienza."
Thorne estrasse una ciotola metallica dal cassetto inferiore. La posò sul tappeto con un *clang* che fece vibrare le ossa di Sharon. Dentro, una gelatina trasparente ondeggiava, emanando un odore dolciastro di proteine sintetiche. "Mangia." Il comando cadde nel silenzio mentre lui si sedeva sulla poltrona di pelle, gli occhi fissi sul suo corpo tremante. Sharon si chinò sulla ciotola, le mammelle che ondeggiavano pesanti, il pelo pubico completamente raso che luccicava sotto le luci a LED. Un filo di saliva le colò dal labbro quando la lingua toccò la superficie gelida.
La punta della sua scarpa spinse bruscamente la nuca. Sharon affondò il viso nella gelatina con un tonfo soffocato. Le narici si riempirono dell'odore chimico mentre la lingua cercava goffamente di raccogliere la sostanza viscida. Thorne osservava ogni movimento: come le costole si delineavano sotto la pelle quando si allungava, come i capezzoli si indurivano contro il metallo freddo della ciotola, come le labbra vaginali si contraevano al contatto con la moquette ruvida. Un suono basso gli sfuggì dalla gola quando lei sollevò il bacino per trovare equilibrio, offrendogli una vista completa della pelle liscia e rosea tra le cosce.
Poi, improvvisamente, la pressione sulla sua nuca svanì. Le grandi mani di Thorne scivolarono sotto le sue ascelle, sollevandola con sorprendente delicatezza. Sharon rabbrividì quando il suo corpo nudo venne premuto contro il tessuto di lana della giacca. L'odore di sandalo e potere si mescolò al suo sudore. Un palmo caldo si posò sulla sommità del suo capo, le dita che si insinuarono tra i suoi capelli corti, massaggiando il cuoio capelluto con movimenti circolari precisi. "Brava," sussurrò lui contro la sua tempia, il respiro caldo sulla pelle. Le sue dita discesero lungo la colonna vertebrale, tracciando ogni vertebra fino alla curva del sedere. Lì, il palmo si fermò, premendo con un possessivo calore mentre le dita affondavano nella carne morbida delle natiche, modellandola lentamente. Sharon lasciò sfuggire un sospiro tremulo che non sapeva di trattenere, il corpo che si afflosciava contro di lui. La tensione nelle spalle si sciolse in onde riluttanti.
Thorne continuò a massaggiarle il cuoioio dei capelli con una mano, mentre l'altra scivolava lungo la piega delle natiche verso la coscia interna. Sharon chiuse gli occhi, il respiro che si fece più regolare. Un dito sfiorò il punto dove la pelle rasata diventava rosa e sensibile, un tocco così leggero da sembrare accidentale. Poi la mano si ritrasse. Sharon sentì il corpo di Thorne allontanarsi, lasciando un vuoto fresco sul suo fianco. Aprì gli occhi appena in tempo per vedere la sagoma rossa dell'osso di gomma volare sopra la sua testa, descrivendo un arco basso verso l'angolo opposto della stanza, dove una poltrona di pelle nera rifletteva la luce morente del tramonto.
"Portalo," disse Thorne, tornando alla scrivania senza guardarla. Sharon strisciò in avanti sui gomiti, il collare che le strozzava ogni respiro affannoso. Il tappeto bruciò le ginocchia già arrossate. Quando raggiunse l'osso, lo afferrò con i denti posteriori, il sapore di plastica amara che si mescolava al sangue sulla sua lingua. Lo strascinò indietro, lasciando una scia di bava sulla lana preziosa. Si fermò ai suoi piedi, il mento sollevato in offerta silenziosa. Thorne prese l'osso senza guardare, le unghie che sfiorarono i suoi incisivi. Lo lanciò di nuovo, più forte questa volta. Colpì il vetro panoramico con un tonfo sordo e rimbalzò verso il divano.
Sharon seguì la traiettoria con gli occhi gonfi. Si spinse sulle ginocchia tremanti, le scapole che solcavano la pelle come ali spezzate. Ogni movimento risvegliò il dolore alla spalla schiacciata. Raggiunse il divano mentre l'osso rotolava sotto la poltrona di pelle. Si abbassò, il fianco nudo che sfiorò il freddo metallo delle gambe del mobile. Le labbra si contrassero quando la lingua toccò la superficie ruvida della gomma. Lo riportò lentamente, il passo più pesante questa volta.
Thorne le accarezzò la testa quando lei depose l'osso sulla sua scarpa. Le dita nodose si insinuarono tra i suoi capelli corti, premendo proprio dietro l'orecchio destro dove sapeva farle sciogliere la tensione. "Brava," sussurrò, la voce improvvisamente calda come brandy. "Oggi sei stata la mia cagnolina più obbediente." Sharon rabbrividì, non dal freddo, ma dal brusco cambiamento di tono. L'elogio bruciava più della sua suola.
Con un sorriso che non raggiungeva gli occhi dietro gli occhiali a mezzaluna, Thorne sfiorò la fibbia del collare. "La tua giornata è finita, Sharon. Puoi andare a casa." Il sollievo le attraversò le spalle come una corrente elettrica troppo forte. Lei si chinò in avanti, le labbra che sfiorarono la punta della Oxford lucida in un bacio umido e silenzioso. Poi si girò lentamente, sollevando i fianchi verso di lui, offrendo la vista completa del suo sesso rasato e lucido di sudore. Il colpo arrivò rapido – uno schiaffo secco sulla carne morbida della natica destra che fece rimbalzare la pelle. Un guaito acuto le sfuggì dalla gola, più istintivo che umano.
"Brava cagna," sussurrò Thorne, osservando il rossore che fioriva sulla pelle colpita. Sharon abbassò i fianchi, poi si mosse carponi verso l'angolo dove il suo vestito era piegato con precisione militare sopra una sedia. Il tappeto persiano sembrava più ruvido adesso, ogni filo una scheggia sotto le ginocchia scorticate. Raggiunse il supporto per cappotti in mogano, le mani tremanti mentre cercavano la fibbia d'ottone dietro la nuca. Il collare si aprì con un *click* metallico che risuonò come una liberazione nella stanza silenziosa. Lo appese con cura a un gancio dorato, il cuoio rosso che dondolava come una lingua spenta.
La stoffa della camicetta bianca le bruciò le spalle quando scivolò sopra la pelle sudata. Ogni bottone era una battaglia vinta contro le dita intorpidite. La gonna grigia le strisciò sulle cosce come una seconda pelle estranea. Infilare le mutande di pizzo fu un esercizio di concentrazione: le ginocchia tremavano ancora quando sollevò un piede, poi l'altro. Il reggiseno chiuse la sua prigione di cotone e spandex. Sharon si raddrizzò lentamente, le vertebre che scricchiolavano in protesta. Il pavimento ondeggiò sotto i suoi tacchi alti mentre si voltava.
Thorne osservava dalla scrivania, gli occhiali a mezzaluna che riflettevano lo schermo del computer. Le sue dita tamburellavano sul bracciolo in pelle. "Non dimenticare il tuo premio," disse, la voce levigata come il marmo dell'atrio. Indicò l'osso di gomma rossa che giaceva immobile accanto alla ciotola metallica vuota.
Sharon non si voltò. Le sue dita si fermarono sull'ultimo bottone della camicetta bianca. Una foglia di tè essiccata era rimasta incastrata nella fibbia d'ottone del collare appeso. La osservò per un attimo, quel frammento marrone che dondolava appeso alla lingua di cuoio spenta. Poi si chinò, raccolse l'osso di gomma con due dita. La plastica era ancora calda dove aveva premuto contro il vetro. Lo posò delicatamente sul tavolo Lowen, accanto al rapporto finanziario macchiato d'inchiostro rosso.
"Lo tenga lei, signore." La sua voce era piatta come il marmo dell'atrio, senza traccia del guaito di pochi minuti prima. Si raddrizzò, aggiustò il colletto della camicetta sul collo nudo. "Buonasera, signor Thorne." Non aspettò risposta. Le sue scarpe con il tacco alto scricchiolarono sul tappeto persiano mentre attraversava la stanza, un suono strano e umano dopo ore di silenzio carponi. La maniglia della porta era fredda sotto le dita. Quando la richiuse alle spalle, il *click* fu più morbido del solito.
L'ascensore scesa vuoto. Sharon appoggiò la schiena contro lo specchio, osservando le proprie pupille dilatate nel riflesso. Il collo le pulsava dove il cuoio aveva lasciato un solco rosso. Al piano terra, attraversò l'atrio a passi rapidi, ignorando lo sguardo curioso della guardia notturna. Fuori, l'aria umida di luglio le avvolse la pelle come una benda fresca dopo l'aria condizionata tombale dell'ufficio. Un autobus numero 14 stava rallentando alla fermata. Corse, il tacco che scivolò sul marciapiede bagnato di pioggia recente.
Salì con un respiro affannoso. La portiera sibilò chiusa alle sue spalle. Monete tintinnarono nella cassa mentre cercava il biglietto nel portafoglio di pelle consunta. L'autista annuì senza alzare lo sguardo. Sharon scivolò su un sedile di plastica blu nel retro, accanto a un finestrino appannato. Fuori, i grattacieli di Midtown sfumavano in quartieri residenziali, le vetrine illuminate che striavano il vetro di riflessi arancioni e verdi. Appoggiò la fronte al vetro freddo. Il motore diesel vibrava attraverso lo schienale, un brusio costante che copriva il ronzio nelle sue orecchie.
A casa, la serratura cedette con un clic familiare. L'appartamento odorava di polvere e vecchio linoleum. Sharon lasciò cadere la borsa sul pavimento. Le dita tremanti sbottonarono la camicetta bianca, poi la gonna grigia. I vestiti formarono una pila informe ai suoi piedi, sul pavimento freddo. Nuda, attraversò il corridoio stretto verso il bagno. Aprì il rubinetto della doccia. Un fischio, poi il rombo dell'acqua calda che batteva sul piatto doccia di plastica bianca. La nebbia salì veloce, avvolgendo lo specchio sopra il lavandino.
Sotto il getto bollente, Sharon chiuse gli occhi. Il vapore le penetrava nei polmoni, sciogliendo la rigidità delle spalle. Le mani le scivolarono lungo le costole, sulle curve dei fianchi, sulla pelle ancora segnata dal solco del collare e dalla striscia rossa lasciata dalla scarpa di Thorne. Un fremito la percorse, non di dolore, ma di riconoscimento profondo. Ricordò il peso del suo sguardo sulla nuca, la pressione possessiva della sua mano sulle natiche, il silenzio sacro rotto solo dai suoi ordini. Un sospiro lungo, soddisfatto, le sfuggì dalle labbra. Era esattamente dove voleva essere. Ai suoi piedi. La sua cagna. Ogni umiliazione, ogni dolore, ogni istante di obbedienza silenziosa era una nota in una sinfonia perfetta. Felice. Davvero felice. Avrebbe accettato qualsiasi cosa pur di rimanere lì, nuda e in ginocchio sul tappeto persiano, a leccare gelatina da una ciotola fredda se lui lo voleva. Era la sua ragione d'essere.
Chiuse l'acqua. Il silenzio tornò improvviso, rotto solo dal gocciolio del rubinetto. Sharon uscì dalla cabina, il corpo fumante nell'aria fresca del bagno, e si avvolse in un accappatoio di spugna sbiadita. Attraversò il corridoio stretto verso il salottino. Le sue dita, ancora rugose dall'acqua, tirarono le tende di velluto pesante, una dopo l'altra, sigillando la stanza nella penombra. Solo la luce fioca di un lampadario da cucina filtrava dalla porta aperta. Si fermò davanti al vecchio specchio dell'ingresso, incorniciato in legno scuro. Con un movimento lento, quasi cerimoniale, lasciò cadere l'accappatoio ai suoi piedi. La stoffa umida formò una pozza informe sul linoleum.
Nello specchio, la sua immagine tremolava nell'ombra. Curve piene e ben definite: fianchi larghi che si assottigliavano in una vita stretta, seni alti e pesanti con capezzoli scuri ancora induriti dal vapore, pelle liscia e pallida segnata solo dal solco rossastro attorno al collo e dalla striscia violacea lasciata dalla scarpa di Thorne sullo sterno. Le sue mani scivolarono lungo i fianchi, le punte delle dita che tracciavano il confine tra l'addome piatto e l'inizio del pube completamente rasato, lucido di umidità. Un brivido la percorse, non di vergogna, ma di possesso silenzioso. Era una splendida puttana. Lo sapeva. Lo sentiva nelle ossa.
Si abbassò sulle ginocchia, le rotule che scricchiolarono sul linoleum freddo. Le palme delle mani si appoggiarono al pavimento. Cominciò a muoversi carponi attraverso il salotto minuscolo, il dorso della schiena che formava una curva morbida sotto la luce fioca. Il tessuto ruvido del tappeto orientale a buon mercato graffiava le ginocchia già irritate. Si fermò davanti alla ciotola d'acciaio per l'acqua del gatto, vuota da quando Mr. Whiskers era morto tre anni prima. Abbassò la testa. La lingua piatta lambì il fondo metallico freddo, raccogliendo le gocce residue. Un sorso. Poi un altro. L'acqua stagnante sapeva di polvere e solitudine. Le gocdele le colarono lungo il mento, cadendo tra i seni.
Si trascinò verso la cucina, il bacino che oscillava lentamente con ogni movimento. Le unghie scricchiolarono sul linoleum consunto quando si fermò davanti alla ciotola per il cibo. Vuota. Immacolata. Annusò l'aria sopra di essa, le narici che si dilatavano. Niente odore di crocchette, solo vecchio Formica e muffa. Un brontolio basso le sfuggì dalla gola. Si voltò, strisciando verso la camera da letto stretta.
La luce fioca del lampione filtrava dalle fessure delle tende, disegnando strisce diagonali sul materasso sfondato. Sharon si arrampicò sul cuscino singolo, il corpo che affondava nella depressione familiare. Si raggomitolò su se stessa, le ginocchia tirate al petto, la nuca appoggiata al divanetto di cotone grezzo. Le palpebre si fecero pesanti. Nel buio, il solco rosso sul collo pulsava ancora, un sigillo invisibile. Il dolore alla spalla schiacciata era un ronzio sordo, una ninna nanna perverse. Ricordò la pressione della scarpa di Oxford sulla nuca, il peso delle sue mani che modellavano le sue natiche, il silenzio sacro rotto solo dal suo respiro caldo contro la sua tempia. Un fremito di piacere le attraversò la colonna vertebrale. Si stiracchiò, offrendo il collo al buio vuoto. Domani sarebbe tornata. Avrebbe strisciato sul tappeto persiano, avrebbe leccato la gelatina dalla ciotola fredda, avrebbe sentito il suo sguardo bruciarle la pelle. Era tutto ciò che voleva. Tutto ciò che era. La sua ragione di esistere. Le palpebre si chiusero. Il respiro divenne regolare. Nel sonno, un sussurro le sfuggì dalle labbra: "Brava cagna". Fuori, la città continuava a pulsare, ignara. Dentro, Sharon sorrise.
Fuori dalla suite del CEO, l'aria puzzava di legno di sandalo e paura. Sharon appoggiò la fronte contro la quercia scura. Un respiro profondo. Poi girò la maniglia. Dentro, il tappeto persiano inghiottiva ogni rumore. Il signor Thorne era piegato su un rapporto finanziario, le dita macchiate d'inchiostro rosso. Non alzò gli occhi. Lei chiuse la porta alle sue spalle.
Il rituale cominciò in silenzio. Le mani tremanti sbottonarono la camicetta bianca. La gonna grigia scivolò sulle ginocchia. Infine, il reggiseno e le mutandine di pizzo si unirono alla pila ordinata sul divano di pelle. La pelle d'oca le solcò i fianchi mentre si inginocchiava sulla moquette spessa. Il collare di cuoio rosso attendeva sul tavolo Lowen. Freddo. Pesante. La fibbia d'ottone scattò con un *click* definitivo.
Sharon avanzò carponi sul tappeto persiano, le nocche bianche contro i fili intricati. Il profumo di sandalo si mescolava all'odore del suo sudore. Si fermò ai piedi della scrivania monumentale, il naso a un centimetro dalla scarpa di Oxford lucida. Un gemito strozzato le sfuggì quando la suola le schiacciò le dita. Thorne non aveva ancora alzato lo sguardo dalla relazione finanziaria. "Il rapporto trimestrale di Singapore è insoddisfacente", mormorò, la penna rossa che scarabocchiava furiosamente. "Troppi errori umani".
Le sue costole pulsavano sotto il peso silenzioso dell'attesa. Un filo di saliva le colò dal labbro inferiore sul tappeto. Il collare le strozzava ogni respiro superficiale. Quando la punta della scarpa le sollevò il mento, vide il riflesso del suo corpo nudo negli occhiali a mezzaluna di Thorne. "Meglio". La sua voce era piatta come il marmo dell'atrio. "Ma la postura è rigida oggi". La punta della scarpa scivolò giù lungo lo sterno, lasciando una striscia rossa sulla pelle. Sharon trattenne un brivido.
Fuori, il tramonto tingeva i grattacieli di sangue. Throne estrasse un osso di gomma rossa dal cassetto della scrivania. Lo fece roteare lentamente davanti ai suoi occhi. "Singapore richiede disciplina". Lo scagliò oltre la sua testa. Sharon si contorse per seguirlo, le scapole aguzze come lame. Il tappeto bruciò le ginocchia mentre strisciava. L'odore della gomma si confondeva con quello del suo sudore. Quando afferrò l'osso coi denti, una risata bassa rimbombò sopra di lei.
Il telefono squillò. Thorne rispose senza fretta, il piede destro che premeva sulla sua nuca. "Sì? Ah, Nakamura-san". La pressione aumentò mentre parlava di cifre e fusioni. Sharon contò le fibre del tappeto sotto il naso. Uno. Due. Tre. Il dolore alla cervicale diventava acuto, pulsante. Le sue dita affondarono nel tessuto persiano. Il collare le scorticava l'arteria giugulare.
La chiamata terminò. Il silenzio ritornò, più spesso della prima volta. Thorne si alzò, le giunture che scricchiolavano. Sharon trattenne il respiro quando la sua ombra la inghiottì. L'osso di gomma rotolò via quando lui calpestò il suo polso. "Singapore". La parola cadde come una pietra tombale. Lei chiuse gli occhi, preparandosi al dolore.
Le sue dita afferrarono il collare invece della pelle. Il cuoio scattò stretto contro la trachea mentre veniva sollevata. Sharon penzolò come un pupazzo, le dita dei piedi che sfioravano appena il tappeto. Il riflesso della sua schiena curva tremolava nella finestra che diventava nera. Thorne appoggiò la fronte contro il vetro freddo, osservando le luci della città che si accendevano. Lei oscillava nel suo pugno, ogni respiro un fischio strozzato. "Il problema," sussurrò contro il suo riflesso, "è la mancanza di obbedienza istintiva".
La scaraventò sul pavimento. Sharon sbatté il mento contro la lana, il sapore del metallo in bocca. Prima che potesse riprendere fiato, la scarpa di Oxford le schiacciò la scapola sinistra. Un gemito soffocato le sfuggì mentre le dita si aprivano a ventaglio sul tappeto. Thorne estrasse un tablet dalla tasca interna della giacca. Lo accese con un tocco. "Gli analisti di Singapore." La voce era piatta mentre la pressione sulla schiena aumentava. "Guarda."
Sul display, cifre rosse pulsavano sopra una fotografia: un giovane uomo in camicia strappata, legato a una sedia d'acciaio. Sharon riconobbe le mattonelle del magazzino di livello -3. Un video iniziò a riprodursi. Non c'era audio, solo le labbra dell'uomo che si muovevano disperatamente mentre una figura in tuta nera alzava un tubo di gomma. Lei chiuse gli occhi. La scarpa le colpì la tempia. "Apri. Osserva il costo della disobbedienza."
Thorne estrasse una ciotola metallica dal cassetto inferiore. La posò sul tappeto con un *clang* che fece vibrare le ossa di Sharon. Dentro, una gelatina trasparente ondeggiava, emanando un odore dolciastro di proteine sintetiche. "Mangia." Il comando cadde nel silenzio mentre lui si sedeva sulla poltrona di pelle, gli occhi fissi sul suo corpo tremante. Sharon si chinò sulla ciotola, le mammelle che ondeggiavano pesanti, il pelo pubico completamente raso che luccicava sotto le luci a LED. Un filo di saliva le colò dal labbro quando la lingua toccò la superficie gelida.
La punta della sua scarpa spinse bruscamente la nuca. Sharon affondò il viso nella gelatina con un tonfo soffocato. Le narici si riempirono dell'odore chimico mentre la lingua cercava goffamente di raccogliere la sostanza viscida. Thorne osservava ogni movimento: come le costole si delineavano sotto la pelle quando si allungava, come i capezzoli si indurivano contro il metallo freddo della ciotola, come le labbra vaginali si contraevano al contatto con la moquette ruvida. Un suono basso gli sfuggì dalla gola quando lei sollevò il bacino per trovare equilibrio, offrendogli una vista completa della pelle liscia e rosea tra le cosce.
Poi, improvvisamente, la pressione sulla sua nuca svanì. Le grandi mani di Thorne scivolarono sotto le sue ascelle, sollevandola con sorprendente delicatezza. Sharon rabbrividì quando il suo corpo nudo venne premuto contro il tessuto di lana della giacca. L'odore di sandalo e potere si mescolò al suo sudore. Un palmo caldo si posò sulla sommità del suo capo, le dita che si insinuarono tra i suoi capelli corti, massaggiando il cuoio capelluto con movimenti circolari precisi. "Brava," sussurrò lui contro la sua tempia, il respiro caldo sulla pelle. Le sue dita discesero lungo la colonna vertebrale, tracciando ogni vertebra fino alla curva del sedere. Lì, il palmo si fermò, premendo con un possessivo calore mentre le dita affondavano nella carne morbida delle natiche, modellandola lentamente. Sharon lasciò sfuggire un sospiro tremulo che non sapeva di trattenere, il corpo che si afflosciava contro di lui. La tensione nelle spalle si sciolse in onde riluttanti.
Thorne continuò a massaggiarle il cuoioio dei capelli con una mano, mentre l'altra scivolava lungo la piega delle natiche verso la coscia interna. Sharon chiuse gli occhi, il respiro che si fece più regolare. Un dito sfiorò il punto dove la pelle rasata diventava rosa e sensibile, un tocco così leggero da sembrare accidentale. Poi la mano si ritrasse. Sharon sentì il corpo di Thorne allontanarsi, lasciando un vuoto fresco sul suo fianco. Aprì gli occhi appena in tempo per vedere la sagoma rossa dell'osso di gomma volare sopra la sua testa, descrivendo un arco basso verso l'angolo opposto della stanza, dove una poltrona di pelle nera rifletteva la luce morente del tramonto.
"Portalo," disse Thorne, tornando alla scrivania senza guardarla. Sharon strisciò in avanti sui gomiti, il collare che le strozzava ogni respiro affannoso. Il tappeto bruciò le ginocchia già arrossate. Quando raggiunse l'osso, lo afferrò con i denti posteriori, il sapore di plastica amara che si mescolava al sangue sulla sua lingua. Lo strascinò indietro, lasciando una scia di bava sulla lana preziosa. Si fermò ai suoi piedi, il mento sollevato in offerta silenziosa. Thorne prese l'osso senza guardare, le unghie che sfiorarono i suoi incisivi. Lo lanciò di nuovo, più forte questa volta. Colpì il vetro panoramico con un tonfo sordo e rimbalzò verso il divano.
Sharon seguì la traiettoria con gli occhi gonfi. Si spinse sulle ginocchia tremanti, le scapole che solcavano la pelle come ali spezzate. Ogni movimento risvegliò il dolore alla spalla schiacciata. Raggiunse il divano mentre l'osso rotolava sotto la poltrona di pelle. Si abbassò, il fianco nudo che sfiorò il freddo metallo delle gambe del mobile. Le labbra si contrassero quando la lingua toccò la superficie ruvida della gomma. Lo riportò lentamente, il passo più pesante questa volta.
Thorne le accarezzò la testa quando lei depose l'osso sulla sua scarpa. Le dita nodose si insinuarono tra i suoi capelli corti, premendo proprio dietro l'orecchio destro dove sapeva farle sciogliere la tensione. "Brava," sussurrò, la voce improvvisamente calda come brandy. "Oggi sei stata la mia cagnolina più obbediente." Sharon rabbrividì, non dal freddo, ma dal brusco cambiamento di tono. L'elogio bruciava più della sua suola.
Con un sorriso che non raggiungeva gli occhi dietro gli occhiali a mezzaluna, Thorne sfiorò la fibbia del collare. "La tua giornata è finita, Sharon. Puoi andare a casa." Il sollievo le attraversò le spalle come una corrente elettrica troppo forte. Lei si chinò in avanti, le labbra che sfiorarono la punta della Oxford lucida in un bacio umido e silenzioso. Poi si girò lentamente, sollevando i fianchi verso di lui, offrendo la vista completa del suo sesso rasato e lucido di sudore. Il colpo arrivò rapido – uno schiaffo secco sulla carne morbida della natica destra che fece rimbalzare la pelle. Un guaito acuto le sfuggì dalla gola, più istintivo che umano.
"Brava cagna," sussurrò Thorne, osservando il rossore che fioriva sulla pelle colpita. Sharon abbassò i fianchi, poi si mosse carponi verso l'angolo dove il suo vestito era piegato con precisione militare sopra una sedia. Il tappeto persiano sembrava più ruvido adesso, ogni filo una scheggia sotto le ginocchia scorticate. Raggiunse il supporto per cappotti in mogano, le mani tremanti mentre cercavano la fibbia d'ottone dietro la nuca. Il collare si aprì con un *click* metallico che risuonò come una liberazione nella stanza silenziosa. Lo appese con cura a un gancio dorato, il cuoio rosso che dondolava come una lingua spenta.
La stoffa della camicetta bianca le bruciò le spalle quando scivolò sopra la pelle sudata. Ogni bottone era una battaglia vinta contro le dita intorpidite. La gonna grigia le strisciò sulle cosce come una seconda pelle estranea. Infilare le mutande di pizzo fu un esercizio di concentrazione: le ginocchia tremavano ancora quando sollevò un piede, poi l'altro. Il reggiseno chiuse la sua prigione di cotone e spandex. Sharon si raddrizzò lentamente, le vertebre che scricchiolavano in protesta. Il pavimento ondeggiò sotto i suoi tacchi alti mentre si voltava.
Thorne osservava dalla scrivania, gli occhiali a mezzaluna che riflettevano lo schermo del computer. Le sue dita tamburellavano sul bracciolo in pelle. "Non dimenticare il tuo premio," disse, la voce levigata come il marmo dell'atrio. Indicò l'osso di gomma rossa che giaceva immobile accanto alla ciotola metallica vuota.
Sharon non si voltò. Le sue dita si fermarono sull'ultimo bottone della camicetta bianca. Una foglia di tè essiccata era rimasta incastrata nella fibbia d'ottone del collare appeso. La osservò per un attimo, quel frammento marrone che dondolava appeso alla lingua di cuoio spenta. Poi si chinò, raccolse l'osso di gomma con due dita. La plastica era ancora calda dove aveva premuto contro il vetro. Lo posò delicatamente sul tavolo Lowen, accanto al rapporto finanziario macchiato d'inchiostro rosso.
"Lo tenga lei, signore." La sua voce era piatta come il marmo dell'atrio, senza traccia del guaito di pochi minuti prima. Si raddrizzò, aggiustò il colletto della camicetta sul collo nudo. "Buonasera, signor Thorne." Non aspettò risposta. Le sue scarpe con il tacco alto scricchiolarono sul tappeto persiano mentre attraversava la stanza, un suono strano e umano dopo ore di silenzio carponi. La maniglia della porta era fredda sotto le dita. Quando la richiuse alle spalle, il *click* fu più morbido del solito.
L'ascensore scesa vuoto. Sharon appoggiò la schiena contro lo specchio, osservando le proprie pupille dilatate nel riflesso. Il collo le pulsava dove il cuoio aveva lasciato un solco rosso. Al piano terra, attraversò l'atrio a passi rapidi, ignorando lo sguardo curioso della guardia notturna. Fuori, l'aria umida di luglio le avvolse la pelle come una benda fresca dopo l'aria condizionata tombale dell'ufficio. Un autobus numero 14 stava rallentando alla fermata. Corse, il tacco che scivolò sul marciapiede bagnato di pioggia recente.
Salì con un respiro affannoso. La portiera sibilò chiusa alle sue spalle. Monete tintinnarono nella cassa mentre cercava il biglietto nel portafoglio di pelle consunta. L'autista annuì senza alzare lo sguardo. Sharon scivolò su un sedile di plastica blu nel retro, accanto a un finestrino appannato. Fuori, i grattacieli di Midtown sfumavano in quartieri residenziali, le vetrine illuminate che striavano il vetro di riflessi arancioni e verdi. Appoggiò la fronte al vetro freddo. Il motore diesel vibrava attraverso lo schienale, un brusio costante che copriva il ronzio nelle sue orecchie.
A casa, la serratura cedette con un clic familiare. L'appartamento odorava di polvere e vecchio linoleum. Sharon lasciò cadere la borsa sul pavimento. Le dita tremanti sbottonarono la camicetta bianca, poi la gonna grigia. I vestiti formarono una pila informe ai suoi piedi, sul pavimento freddo. Nuda, attraversò il corridoio stretto verso il bagno. Aprì il rubinetto della doccia. Un fischio, poi il rombo dell'acqua calda che batteva sul piatto doccia di plastica bianca. La nebbia salì veloce, avvolgendo lo specchio sopra il lavandino.
Sotto il getto bollente, Sharon chiuse gli occhi. Il vapore le penetrava nei polmoni, sciogliendo la rigidità delle spalle. Le mani le scivolarono lungo le costole, sulle curve dei fianchi, sulla pelle ancora segnata dal solco del collare e dalla striscia rossa lasciata dalla scarpa di Thorne. Un fremito la percorse, non di dolore, ma di riconoscimento profondo. Ricordò il peso del suo sguardo sulla nuca, la pressione possessiva della sua mano sulle natiche, il silenzio sacro rotto solo dai suoi ordini. Un sospiro lungo, soddisfatto, le sfuggì dalle labbra. Era esattamente dove voleva essere. Ai suoi piedi. La sua cagna. Ogni umiliazione, ogni dolore, ogni istante di obbedienza silenziosa era una nota in una sinfonia perfetta. Felice. Davvero felice. Avrebbe accettato qualsiasi cosa pur di rimanere lì, nuda e in ginocchio sul tappeto persiano, a leccare gelatina da una ciotola fredda se lui lo voleva. Era la sua ragione d'essere.
Chiuse l'acqua. Il silenzio tornò improvviso, rotto solo dal gocciolio del rubinetto. Sharon uscì dalla cabina, il corpo fumante nell'aria fresca del bagno, e si avvolse in un accappatoio di spugna sbiadita. Attraversò il corridoio stretto verso il salottino. Le sue dita, ancora rugose dall'acqua, tirarono le tende di velluto pesante, una dopo l'altra, sigillando la stanza nella penombra. Solo la luce fioca di un lampadario da cucina filtrava dalla porta aperta. Si fermò davanti al vecchio specchio dell'ingresso, incorniciato in legno scuro. Con un movimento lento, quasi cerimoniale, lasciò cadere l'accappatoio ai suoi piedi. La stoffa umida formò una pozza informe sul linoleum.
Nello specchio, la sua immagine tremolava nell'ombra. Curve piene e ben definite: fianchi larghi che si assottigliavano in una vita stretta, seni alti e pesanti con capezzoli scuri ancora induriti dal vapore, pelle liscia e pallida segnata solo dal solco rossastro attorno al collo e dalla striscia violacea lasciata dalla scarpa di Thorne sullo sterno. Le sue mani scivolarono lungo i fianchi, le punte delle dita che tracciavano il confine tra l'addome piatto e l'inizio del pube completamente rasato, lucido di umidità. Un brivido la percorse, non di vergogna, ma di possesso silenzioso. Era una splendida puttana. Lo sapeva. Lo sentiva nelle ossa.
Si abbassò sulle ginocchia, le rotule che scricchiolarono sul linoleum freddo. Le palme delle mani si appoggiarono al pavimento. Cominciò a muoversi carponi attraverso il salotto minuscolo, il dorso della schiena che formava una curva morbida sotto la luce fioca. Il tessuto ruvido del tappeto orientale a buon mercato graffiava le ginocchia già irritate. Si fermò davanti alla ciotola d'acciaio per l'acqua del gatto, vuota da quando Mr. Whiskers era morto tre anni prima. Abbassò la testa. La lingua piatta lambì il fondo metallico freddo, raccogliendo le gocce residue. Un sorso. Poi un altro. L'acqua stagnante sapeva di polvere e solitudine. Le gocdele le colarono lungo il mento, cadendo tra i seni.
Si trascinò verso la cucina, il bacino che oscillava lentamente con ogni movimento. Le unghie scricchiolarono sul linoleum consunto quando si fermò davanti alla ciotola per il cibo. Vuota. Immacolata. Annusò l'aria sopra di essa, le narici che si dilatavano. Niente odore di crocchette, solo vecchio Formica e muffa. Un brontolio basso le sfuggì dalla gola. Si voltò, strisciando verso la camera da letto stretta.
La luce fioca del lampione filtrava dalle fessure delle tende, disegnando strisce diagonali sul materasso sfondato. Sharon si arrampicò sul cuscino singolo, il corpo che affondava nella depressione familiare. Si raggomitolò su se stessa, le ginocchia tirate al petto, la nuca appoggiata al divanetto di cotone grezzo. Le palpebre si fecero pesanti. Nel buio, il solco rosso sul collo pulsava ancora, un sigillo invisibile. Il dolore alla spalla schiacciata era un ronzio sordo, una ninna nanna perverse. Ricordò la pressione della scarpa di Oxford sulla nuca, il peso delle sue mani che modellavano le sue natiche, il silenzio sacro rotto solo dal suo respiro caldo contro la sua tempia. Un fremito di piacere le attraversò la colonna vertebrale. Si stiracchiò, offrendo il collo al buio vuoto. Domani sarebbe tornata. Avrebbe strisciato sul tappeto persiano, avrebbe leccato la gelatina dalla ciotola fredda, avrebbe sentito il suo sguardo bruciarle la pelle. Era tutto ciò che voleva. Tutto ciò che era. La sua ragione di esistere. Le palpebre si chiusero. Il respiro divenne regolare. Nel sonno, un sussurro le sfuggì dalle labbra: "Brava cagna". Fuori, la città continuava a pulsare, ignara. Dentro, Sharon sorrise.
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