L'Idea migliore (epilogo)

di
genere
saffico

La fotografia è luce. Nel bianco e nero in modo particolare: perché si va al nucleo dell’immagine. E’ una tecnica che non toglie colore, ma lo concentra, lo riduce all’essenza, rivelando l’emozione senza distrazioni. Proprio in questo si nasconde, per me, la sua poesia.
Sul finir del pomeriggio, con il sole che declina, salgo alle spalle di Serena la rampa di gradini che ci porta sulla terrazza. Anche se non ho ancora sollevato la Bronica, già sto scattando. E’ nell’immaginazione, infatti, che nasce la fotografia.
Lei, lì davanti a me in tutta la sua freschezza, non può essere consapevole del modo in cui la sua presenza, il suo corpo ed il mio desiderio di lei abbiano già iniziato a comporsi in scatti immaginari.
Non penso a pose specifiche, ancora; ragiono piuttosto in termini di “ombre”, di curve accennate dalla luce, di contrasti, di chiaroscuri che disegnano la sua pelle come seta.
Già vedo la fotografia che ancora non esiste: un’immagine… immaginata, fatta di pelle, respiro, tensione. Non la fotografia di un corpo, ma del mio desiderio di esso.
Per questa ragione, le foto di lei nella mia testa sono il racconto più che di un istante, di un’intenzione: appagare il desiderio.

Un mix fortunato di architettura e geografia ci vuole nel luogo congeniale. La terrazza misura una ventina di metri quadrati; calce e pietra ne definiscono toni e lucentezza. Siamo a circa nove metri di altezza dalla strada della Riva: salvo che il cornicione, nessuno può vedere nulla da giù. E neppure da intorno: su un lato, infatti, c’è una palizzata frangivento e -soprattutto- frangivista del disordine della terrazza a fianco, pertinenza di un appartamento disabitato da anni; sull’altro c’è il muro alto della chiesa. Sono i due lati mancanti il pregio di questo terrazzo. Quello esposto a Nord offre la stessa vista del balcone del soggiorno: spiaggia della Purità e, dietro, il molo meridionale del porto turistico. Quello verso Ovest guarda l’Isola di Sant’Andrea e l’orizzonte nel Golfo di Taranto. Le due costruzioni che ci sono sul lato opposto della strada sottostante, la Riva, hanno infatti un solo piano fuori terra e non intralciano in alcun modo la vista.
Ovest, a quest’ora, significa tramonto. Tramonto, nel mondo della fotografia in bianco e nero, vuole dire ombra che si allunga, morbidezza radente che accarezza il volto, chiaroscuro naturale che trasforma ogni linea del corpo in disegno, ogni sguardo in materia.
Insomma, quella terrazza non solo è un luogo riservato dove godersi la magia del tramonto, ma anche uno studio fotografico senza pareti, ideale per un ritratto carico di intensità.
Serena, che pare camminare sollevata dieci centimetri da terra, si muove con rapidità da un punto all’altro della terrazza: incredula ed entusiasta, sembra voler constatare l’essere completamente al riparo da sguardi indiscreti. Osserva l’arredamento scarno (due sdraio, due grossi cuscini da giardino, un tavolo basso); ammira la doccia essenziale all’intersezione tra palizzata e muro: un soffione in ferro vecchio stile, senza fronzoli e, al muro, un solo rubinetto: l’acqua, da queste parti, non è fredda per definizione. Alla base, non c’è un vero piatto, è l’inclinazione del pavimento che fa confluire l’acqua in una piastrella di pietra con degli intagli. Sembra una decorazione, quasi un pizzo: invece nasconde il sifone.
È un angolo che adoro, e che mi godo ogni volta con piacere.
Quando rientro dalla spiaggia, scelgo sempre quella doccia esterna, invece di quelle in camera: stare sotto l’acqua dolce, all’aria aperta, mentre la pelle si libera della salsedine, mi regala, da sempre, una sensazione di libertà piena.
Nessun vincolo di spazio, nessun vetro che si appanna, nuina -sempre per quel discorso delle parole desuete- preoccupazione per gli schizzi che si disperdono fuori dai confini del piatto doccia. Solo io, l’acqua, e quel piccolo, semplice lusso di essere nuda al mondo.
Apro il mirino a pozzetto della macchina fotografica e regolo la luce. Serena mi gira intorno. Seguo i suoi movimenti riflessi, dall’obiettivo al luminoso mirino, tramite un sistema di specchi. Uno dei vantaggi di questo tipo di apparecchio fotografico è proprio il mirino: non solo per la dimensione straordinariamente maggiore rispetto a quella di una normale “reflex”, ma per la posizione. Dovendoci guardare dentro dall’alto, non si può che tenere la macchina all’altezza dell’ombelico, ciò che cambia la prospettiva di ogni fotografia: scattata da più in basso. Non solo, la macchina non si frappone tra il volto di chi la governa e quello del soggetto fotografato. Inoltre -può sembrare un’inezia, ma non lo è- colui del quale stai facendo il ritratto, vede il tuo volto, non una macchina fotografica dietro la quale ti celi. Secondo taluni, questa è una delle ragioni per cui questo tipo di apparecchio (medio formato con mirino a pozzetto: Rolleiflex, Hasselblad, Yashica, Bronica) ha avuto tanto successo tra i ritrattisti.
Dentro quel gioco magico di lenti, riflessi, specchi e vetri inquadro Serena: il suo sorriso radioso, i suoi occhi intriganti, il suo sguardo malizioso. Ora baciata dalla luce del sole che cala, ora in controluce.
Io al centro, lei che mi danza intorno a due, tre metri, con la leggerezza di un cerbiatto. Apre le braccia, scuote la testa per muovere la chioma, improvvisa pose. Sa benissimo di non essere una modella, come io so di non meritare di fare la copertina di Vanity Fair, ma ci atteggiamo entrambe, giochiamo. Ridiamo. Non abbiamo ancora detto una parola da quando ho aperto la macchina fotografica. A un certo punto, in controluce, il tessuto leggero della sua camicia muove il mio primo click. L’avevo preparato, attendendo che ripetesse un movimento appena fatto. Di Serena e del suo corpo, sul rullino ho immortalato in lieve sovraesposizione il profilo, mentre uno spicchio di lino tra il busto e il braccio teso con un fluido movimento offriva un senso di lievità luminosa, di evanescenza.
Con una macchina digitale, staremmo già riguardando quello scatto. Qui, invece, ci vuole pazienza, s’impone l’attesa: prima il dovere, poi il piacere.
Cerco di darle istruzioni, anche facendo gesti con la mano libera: più indietro, dall’altra parte, girati su te stessa, più velocità nei movimenti, ancora. L’iniziativa migliore, però, la prende lei da sola: in quel suo muoversi vorticoso, a un certo punto, dopo aver tenuto la mano al modo di un cowboy su un’inesistente fibbia in vita, slaccia il primo bottone dei bermuda. Quindi estrae completamente l’ampia camicia bianca da essi e la solleva, leggera, con una mano fin sopra l’ombelico. Sullo sfondo, il bianco del muro. Il contrasto del suo corpo con quel bianco della camicia e della calce meriterebbe da solo lo scatto, ma è il suo sguardo, il suo sorriso bianco a dare a quell’immagine una forza straordinaria. Uno sguardo deduttivo, malizioso, affilato come una lama che taglia senza far rumore; parte da sotto, appena di traverso, con il volto inclinato quel tanto che basta a far sembrare ogni pensiero un segreto.
Con l’indice abbassa un minimo il labbro inferiore, su un lato. C’è qualcosa di simile a timidezza che esorta all’inesorabile trasgressione. C’è ingenuità e consapevolezza, spensieratezza e controllo. Se dovessi dare un titolo, sarebbe: Invito.
Click!
Non avrò bisogno di vedere questo scatto trasfuso sulla carta: s’è stampato nella mia testa e mi provoca non solo emozione, ma anche sensazioni fisiche: calore tra le gambe, capezzoli che si inturgidiscono.
Serena è un furetto: continua a giocare con la sua camicia, ora completamente slacciata, che svolazza ad ogni sua piroletta. “Posso -domanda con falsa ingenuità- tenere poi io negativi e stampe?”. Annuisco e lei, con un movimento naturale, si slaccia il pezzo sopra del bikini e con calma, usando una sola mano, lo prende da intorno al collo, lo sfila e fa per lasciarlo cadere su una sdraio. Click! Colgo l’attimo, per pura fortuna, un secondo prima che le sue dita mollino quel pezzo di tessuto ciondolante!
Va vicino al muro, mi offre le spalle: la sua ombra si distende lunga sul pavimento mentre lei, in punta dei piedi, volta il viso verso il sole e, poi, mi guarda lasciando piano cadere la camicetta sulle spalle. Solleva una gamba, come un fenicottero rosa, in una posa che per equilibrio non so come riesca a reggere. Click! So di aver fatto una foto bellissima per la geometria dell’ombra e del corpo. Spero che la distanza non abbia sottratto forza al suo sguardo.
Si gira, guardandomi con intensità: siamo l’una in fronte all’altra; meno di tre metri di distanza tra noi. Il suo bellissimo corpo tonico indossa solo quei cortissimi pantaloncini di jeans con il primo bottone slacciato. Serena tende il braccio verso di me: la sua mano distesa, il palmo rivolto verso il basso, il polso lievemente piegato in giù, un piccolo anello a regalare un dettaglio di luce a quel frammento. Mi avvicino. A fuoco c’è il suo sguardo, provocante, mentre il sole basso illumina un lato del suo volto. La composizione dell’immagine, tuttavia, parte dalla mano, in primo piano, che regala profondità. Click!
Con due zampettate leggere lei si allontana, va nell’angolo tra il muro e la palizzata. Apre l’acqua della doccia: il sole è ancora sufficientemente luminoso da creare dei bei riflessi con gli zampilli. Dandomi le spalle, in un movimento lento e aggraziato, girando il volto e guardandomi di traverso, si abbassa in un sol colpo ciò che indossa, liberando quelle chiappette sode e rotonde con il segno del costume. Che meraviglia! La sua ombra riflette la forma di quel corpo perfetto sulla parete, in prossimità della doccia. Click!
Continuo a inquadrarla con il mirino. Lei allunga una mano, come a sincerarsi della temperatura. Quindi si infila sotto il getto emettendo un verso giocoso. Si volta, mostrandosi nella sua strabiliante nudità assoluta. Un triangolo curato, perfettamente definito, che le adorna il pube ipnotizza immediatamente il mio sguardo voglioso.
Serena riesce a stare in punta dei piedi anche su quel piano scivoloso. Si vedono gli addominali tesi, il busto eretto, il seno piccolo e gonfio allo stesso tempo, lo sterno piatto, ampio con le costole che si diramano, le clavicole definite, il collo allungato, il mento alzato. Con i gomiti sollevati all’altezza della testa, le mani scivolano a spostare indietro, su entrambi i lati della nuca, i capelli bagnati. Gli occhi chiusi sotto il getto d’acqua, le cui gocce rimbalzano con argentee traiettorie casuali che incorniciano quell’immagine di bellezza. Click! Click! Click!
Non so resisterle. Prima che riapra gli occhi, ho già adagiato la Bronica sul tavolo e mi sono sfilata il pareo dalla vita. Non riesco ad aspettare di togliere la maglietta e lo slip del costume: voglio essere con lei sotto quell’acqua. Unire il mio corpo al suo.
Sente il palmo della mia mano appoggiarsi sul suo seno, sorride rimanendo con la testa rivolta in alto, nel centro del getto dell’acqua. Poi si sposta di un attimo: quel che basta per aprire gli occhi, espressivi come mai ne ho visti, e fissarli nei miei pregni del suo stesso desiderio. Avvicina la sua bocca alla mia, mi pone le sue labbra lievemente dischiuse. Come le mie che le accolgono. E’ un bacio vivo, dolce e prepotente in uno, liberatorio quello al quale ci concediamo. Le nostre lingue si cercano, si accarezzano, si avvolgono calde l’una all’altra. Le nostre mani scorrono sui nostri corpi: lei mi libera della maglietta fradicia e con entrambi i palmi gioca con il mio seno. Bacia il mio collo, poi scende ai miei capezzoli duri. Le mie mani giocano con le sue natiche perfette, scorrono sulla sua schiena, poi vanno a quelle tettine perfette.
Serena infila una mano tra le mie gambe, ancora baciandomi. Non c’è bisogno né di versi, né di movimenti, né di parole perché senta quanto io apprezzi quel suo gesto. Con la mano che vi ha già infilato dento, lei fa cadere gli slip del mio costume. Ci abbracciamo, ci baciamo, ci tocchiamo per un tempo senza misura. Poi chiude l’acqua.
Il sole tiepido del tramonto ci accompagna mentre, avvinghiate, ci spostiamo su uno dei cuscinoni. Siamo ancora bagnate, i nostri corpi scaldano reciprocamente la sensazione di fresco delle nostre epidermidi. Mi ritrovo sopra di lei, tra le sue gambe aperte. Il mio pube sfrega sul suo; spingo perché quella pressione sia maggiore. La ricerca del piacere, presto e in maniera naturale, porta le nostre fessure a strofinarsi l’una sulla coscia dell’altra. E’ stupendo!
Quindi le mie mani, entrambe, scendono ad accarezzare la sua fessura: le mie dita si muovono in quell’umore caldo mentre lei si abbandona sul cuscino a godersi quelle mie attenzioni che da disordinate diventano metodiche. Sono in mezzo alle sue gambe e non la mollerò, prometto a me stessa, fino a ché non la sentirò contrarsi dentro per il piacere.
Non so dopo quanto: poco o un tempo lungo passato in fretta? Ne ho perso la misura guardando i suoi occhi, baciando la sua bocca, leccando il suo seno, muovendomi dentro di lei, nella sua intimità più profonda. Ho sentito il suo corpo cambiare, prepararsi al piacere, attenderlo, assecondarlo, goderselo tutto, fino in fondo. Poi la sua bocca esprimerlo: con il respiro rotto, ansimando, gemendo.
Quando riapre gli occhi, sono ancora velati dal godimento provato.
Riprende fiato. “Sarà dura essere all’altezza…” Ride lei, lo faccio anch’io: entrambe con tenerezza autentica. Mi fa stendere supina, nella posizione in cui era lei. Si mette in quella che era la mia: tra le mie gambe aperte. Accarezza tutto il mio corpo: dalla nuca al collo, alle spalle, al seno; poi il ventre, le cosce, le ginocchia, le tibie, le caviglie, i piedi. Prende la Bronica sul tavolo basso vicino a lei e fotografa le labbra della mia fessura. Sono certa che il mio volto sullo sfondo non possa che apparire sfuocato, ma l’idea stessa di quella fotografia e il gesto di scattarla hanno qualcosa di osceno che accentua, se possibile, la mia eccitazione. Riappoggia l’apparecchio fotografico, quindi prende nuovamente ad accarezzarmi il volto, il busto, il ventre, il monte di Venere, le cosce, le gambe; poi risale, sempre simmetrica con le due mani. Quando giunge alla base del costato, inverte la direzione e fa scorrere i suoi palmi fino all’interno delle mie cosce aperte. Mi coglie una scossa quando appoggia, delicate, le sue dita sulla mia fessura. Quindi le fa scorrere tra le labbra. Il suo tocco ha una delicatezza meravigliosa e un movimento sapiente.
Chiudo gli occhi e mi lascio andare, abbandonandomi su quel cuscino come prima aveva fatto Serena e concentrando ogni sensazione su ciò che lei sta pungolando, eccitando. Sento le sue dita aprire le mie labbra, entrare in me, sollecitarmi dentro con movimenti fermi e delicati. Perdo la concezione del tempo.
A un certo punto mi inarco, come per espormi ancora di più a lei. Pochi secondi e sento la sua lingua umida dedicarsi al mio clitoride. E’ una scarica elettrica che mi fa sussultare. Apro gli occhi, come a voler razionalizzare con l’immagine la forza delle emozioni che sto provando; il cielo sta mutando dall’arancione più intenso a qualcosa di più scuro che ha delle prime venature, come di viola. Noto una stella luminosissima, solo una. Ma quando richiudo gli occhi, dopo aver guardato la sua nuca tra le mie gambe piegate e aperte, le stelle che vedo sono mille. Lascio cadere la mia testa sul cuscino e mi godo ogni frazione di secondo: l’attimo, il tempo.
E’ allora che lo sento.
Lontano, profondo, ma inconfondibile.
Un inizio lento, come certi brani di musica elettronica progressive, che sembrano non voler mai cominciare davvero e, con questo, incantano. Salvo, poi, cogliere d’essere in una escalation a spirale. I synth si rincorrono, si moltiplicano, si fanno più densi, ma sempre sul filo dello stesso motivo ripetuto: semplice, ipnotico, …ossessivo; cresce la velocità, l’intensità, la tensione. Pensi: “Eccolo, è adesso. È il momento: esplode.”
Invece è una corsa che non scoppia mai dove te l’aspetti. Ti tiene lì, in bilico, in un eterno “quasi”.
Una progressione che si trattiene, si tende, allunga l’attesa in un piacere sospeso, bruciante, che sembra non finire mai.
E poi, quando l’orecchio e il corpo si sono persi, arresi, arriva: il culmine.
Atteso, sì, ma mai previsto così improvviso, totale, come un’onda che travolge e scioglie tutto.
Ecco, esattamente nello stesso modo: un crescendo puro, un inno all’attesa, una dimostrazione che il piacere sta nel ritardare l’arrivo, fino a renderlo inevitabile.
Ma arriva. Lo sento: prima mi fa vibrare, poi tremare, dopo mi agita, quindi mi scuote, tracima, deflagra, divampa, si scatena: nei raggi fluidi che attraversano i miei occhi chiusi, nelle contrazioni lunghe del mio ventre, negli spasmi, nel pervadermi di un’energia ingovernabile che attraversa ogni cellula del il mio corpo, ma che allo stesso tempo è lì, in un punto perfettamente determinato che Serena ha saputo trovare.
Esplodo in un piacere che è una lunga, lunghissima scossa. Non so niente: dove sono, chi sono. Tutto è piacere. Il centro del mondo sono le contrazioni del mio ventre, della mia vagina. E quella testa che ora istintivamente stringo tra le mie cosce: non so se per dirle basta o per trattenerla.

(Fine)
scritto il
2025-08-27
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