Il fascino discreto di Gis

di
genere
incesti

In quella cucina dai toni caldi, con le piastrelle d’altri tempi e il profumo di caffè nell’aria, Gis sedeva con naturale eleganza, stringendo tra le braccia il piccolo Leo. Era una scena semplice, quotidiana… eppure, c’era qualcosa di magnetico in lei. Il modo in cui abbassava lo sguardo, quel sorriso velato, la curva appena accennata della scollatura, tutto sembrava raccontare di una donna che non aveva bisogno di ostentare nulla per essere irresistibile.

Gis era così: una bellezza che non si imponeva, ma che lasciava il segno. I suoi ricci incorniciavano il viso come una corona ribelle, e ogni gesto — anche quello, distratto, di aggiustarsi la manica o accarezzare il bimbo — aveva una grazia quasi teatrale.

Leo, in braccio a lei, sembrava il principe di quel regno fatto di tenerezza e risate soffuse. Ma chi conosceva davvero Gis sapeva che dietro a quel ruolo materno si nascondeva un’anima di fuoco. Bastava uno sguardo più profondo, un attimo rubato mentre si versava un bicchiere di vino, per intuire che quella donna aveva vissuto. E amato. Tanto.

Una volta, durante una cena di famiglia, qualcuno l’aveva chiamata “la più figa delle cognate”. Tutti avevano riso, lei per prima. Ma nessuno aveva osato contraddirlo.

Il vino, quella sera, divenne il nostro complice. Leo dormiva sul divano, e lei era lì, davanti a me, con la maglia sbottonata e uno sguardo carico di fame trattenuta.

Mi avvicinai piano, come se stessi toccando qualcosa di sacro e proibito allo stesso tempo. Lei non si ritrasse. La maglia scivolò, rivelando il suo seno nudo, caldo, vivo. Non portava reggiseno. Era tutto calcolato. Tutto maledettamente perfetto.

«Non farmi aspettare troppo…» sussurrò.

La spogliai lentamente. I jeans le scivolarono sui fianchi come seta. Era già bagnata, pulsante, pronta. In quel momento non era più la cognata, né la madre premurosa. Era una donna libera, assetata. E io ero lì per placarla.

La presi così, sul tavolo della cucina, da dietro, con forza, senza freni. Ogni colpo affondava profondo, le faceva gemere il mio nome contro il marmo freddo. Poi si voltò, si inginocchiò davanti a me e si prese tutto. Fino in fondo. Senza distogliere lo sguardo.

«Adesso fammelo ancora… ma sporco.»
E da lì, esplose tutto.

Mi guidò nel corridoio, si appoggiò al muro, sollevò una gamba e si aprì. Mi scopò lei, con il mio corpo, con la mia voglia. Mi fece entrare a fondo, mi fece toccare il limite. I suoi gemiti si perdevano nel silenzio notturno, mentre le sue dita si muovevano sul clitoride.
«Schiacciami lì… fammi venire mentre mi sfondi…»

E venne. Tremando. Gridando. Piegata sotto di me. Poi si inginocchiò ancora, con la bocca calda e affamata, e mi fece venire in gola, ingoiando tutto senza fermarsi.

Pensavo fosse finita. Ma Gis no.

Mi guardò, sudata, spettinata, nuda come un sogno sporco. E sussurrò:
«La prossima volta… mi scopi mentre cucino. O davanti allo specchio, con la tua mano sulla mia gola. Voglio vederti dentro me…»

E io lo feci. Nei giorni seguenti, ogni scusa era buona: una cena in famiglia, un pomeriggio con Leo a scuola. La prendevo nel bagno, nel garage, a letto mentre le mandavo le dita in gola e lei godeva forte, zitta, morsa al cuscino. Voleva tutto. Voleva ogni mio liquido, ogni mio comando.



Epilogo – La sfida finale

Un giorno, dopo l’ennesima scopata furiosa nel retro della macchina, mentre ancora respiravamo piano e il vetro era appannato, Gis mi guardò con una calma nuova, diversa.

«Sai che… non posso più farne a meno?»
Le sorrisi, arrogante. «Nemmeno io.»
Lei scosse la testa, seria.

«No… intendo dire che non riesco più a scopare con mio marito. Nemmeno a fingere. Quando mi tocca, penso a te. Quando mi viene sopra, chiudo gli occhi e sento te… E sai qual è il problema?»

Rimasi zitto. Lei si avvicinò al mio orecchio, con un soffio di voce:
«Che adesso voglio fartelo vedere. Voglio che mi scopi… mentre lui è in casa. Mentre può sentirci. Voglio che mi guardi negli occhi… mentre gli rubo la moglie.»



Finale – Il colpo di scena

Era un sabato sera. Il marito di Gis guardava la TV in salotto. Leo dormiva. Io arrivai con una scusa qualsiasi. Gis aprì la porta, in pigiama corto, senza mutande. Non servì parlare.

Mi prese per mano e mi portò in camera da letto, lasciando la porta socchiusa. Il cuore mi martellava, ma lei era decisa, lucida, carica di una fame oscura. Mi spinse sul letto, si spogliò davanti a me, lentamente, lasciando scivolare la maglia fino al pavimento.

Salì sopra di me. Nuda. Selvaggia. E iniziò a muoversi.
Piano. Profondo. Goccia dopo goccia.

«Senti?» mi disse ansimando.
Dal corridoio arrivava il suono della TV, e poco più in là… c’era lui. Suo marito. Ignaro.

«Adesso vienimi dentro… voglio il tuo sperma mentre lui è lì fuori. Voglio che tu mi marchi. Che io perda il controllo per te. Che tu mi renda tua. Davanti a lui.»

E lo feci. Con tutta la forza che avevo. La presi, la sottomisi, la riempii. Lei venne mentre io la stringevo forte, con la porta aperta, la gola stretta e la bocca che urlava il mio nome.

E mentre tremava sotto di me, con le cosce che ancora palpitavano, mi sussurrò, sorridendo:

«Adesso vado a sdraiarmi vicino a lui… con il tuo sperma che mi cola tra le gambe.»

E lo fece.

Gis era mia. Del tutto.
E io? Io ero suo prigioniero.
Per sempre.
scritto il
2025-05-01
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