L'adulterio di Franco bianchi - Ep.3. “Quando si fa scuro”

di
genere
tradimenti

Franco Bianchi il giorno dopo fu distratto e sovrappensiero, cosa che gli capitava di rado, visto che lui per lui lavorare era rilassante.
Scopare a quel modo sua moglie - che amava - pensando ad un’altra, era per lui una cosa nuova e che sentiva sbagliata. Però non c’era modo di girare la frittata: ogni volta che ci pensava gli saliva un desiderio osceno. Nel corpo di sua moglie Ludovica aveva trovato quello di Norma Calisso. Nei suoi gemiti, nella sua fica, nelle sue mani sulla schiena, nel torpore bollente tra la nuca e l’orecchio, lo spettro di Norma si era incarnato e si era fatto scopare dando e prendendo in sé tutto il suo piacere.
Una volta a casa, sotto la doccia, si ritrovò tra la mani l’affare e, come non gli capitava da anni, se lo menò pensando alla gonna a pieghette di Norma Calisso, alle labbra di Norma, al gesto con cui si era sistemata le calze. E per la prima volta si disse chiaro e tondo che doveva scoparsi quella femmina.
In quei giorni Ludovica gli disse che sarebbe dovuta andare a Bologna, con la sua capa Simona, e a Franco venne in mente che Simona Viali, era un gran fica. Poi si chiese cosa gli stesse capitando, perchè lui non era così. Simona era una sua dirigente, per di più molto brava ed energica. Meritava rispetto e quindi lui doveva piantarla di pensare solo al sesso. Tutta colpa di Norma Calisso, pensò, quella gran zoccola, colpa delle sue autoreggenti, del suo culo, e mentre pensava a queste cose, sua moglie gli spiegava che a Bologna avrebbero avuto una riunione martedì, e che il piano di Simona era fermarsi laggiù finché quelli della Fondazione non si fossero tolti ogni dubbio sul loro progetto.
«Allora? Ti dispiace se martedì vado?» gli chiese lei infine.
Lui la guardò perplesso. Non aveva ascoltato una parola, ma forse aveva capito il senso.
«Martedì?» ripeté. “Martedì rivedo quella fica di Norma Calisso”, pensò.
«Sì, martedì questo. E non so se torno mercoledì o quando.»
«Sì certo, non c’è problema.»

Martedì Norma Calisso aveva un’altra delle sue gonne a pieghette (non che per lui facesse differenze, ma stavolta era di quelle che i cataloghi definirebbero ‘semicircular’, perfetta per esaltare un certo tipo di fianchi) e stavolta Franco ebbe serie difficoltà a seguire la lezione. Pensò tutto il tempo alle sue calze velate nere, ai seni compressi da una camicetta rossa molto stretta, al piccolo crocefisso d’oro che cadeva maliziosamente giusto dove iniziava l’avvallamento dei seni. Ma soprattutto al calduccio che doveva avere tra le cosce, nelle mutandine.
Alla fine armeggiò un attimo con le sue cose e si avvicinò alla cattedra mentre gli altri stavano uscendo.
«Allora, prof.,» buttò lì, «oggi non le sono scese?»
Lei lo guardò divertita da sopra gli occhiali, mentre si infilava la giacchetta corta.
«No, oggi non scendono» rispose. Poi con una mano sollevò l’orlo della gonna su una coscia, fino a dove il gancetto del reggicalze sosteneva la calza. «Vedi, oggi sono agganciate».
L’aveva steso e l’espressione di lui la fece ridere di cuore mentre lasciava l’aula lasciandosi dietro una vera scia di sensualità che lui non poté fare altro che seguire.
Oltre la porta, lei si fermò.
«Ho voglia di bere qualcosa» gli disse. «Andiamo all’Odyssey? E’ vicino a casa dei miei, e pure per te è di strada.»
Era vero. L’Odyssey era un locale in una frazione non distante. Da quanto aveva saputo durante la loro precedente chiacchierata, Norma si era trasferita nella bassa da tempo, dove viveva col marito, ma andava a dormire a casa dei suoi lì a Montona, quando aveva lezione, perché non le andava di guidare di notte. Per lui seguire Norma Calisso all’Odyssey era solo piccola deviazione nella strada verso casa.
«Ok.»

Salirono ognuno sulla sua macchina e dopo pochi minuti parcheggiarono davanti all’Odyssey.
Che però era chiuso, come ogni martedì.
«Che sciocca!» disse Norma Calisso chinandosi per controllare l’orario. «Beh,» disse alzandosi, «ora che sei qui, almeno sali un attimo da me. Mio padre dovrebbe avere una bottiglia di scotch… tu te ne intendi?»
Franco non se ne intendeva ma per la verità avrebbe bevuto pure varechina, in quel momento. Ma il problema era un altro. Che l’Odyssey fosse chiuso l’aveva deluso. Ludovica era a Bologna, e lui sarebbe stato ben contento di flirtare un po’ con quella femmina che, ormai lo sapeva, voleva scoparsi da una ventina di anni. Ma salire da lei. Quello cambiava tutto. Ma poi si diede dell’idiota. Casa mai poteva succedere, a casa dei suoi?

La casa dei Calisso era una casa di quelle a corte. Un tempo ci abitavano 4 famiglie, ma negli anni si era svuotata (a Montona non c’era lavoro e man mano che i vecchi morivano, i figli si trasferivano in città). Dentro però la casa non aveva nulla del finto rustico che spesso caratterizza l’arredamento dei paesini di montagna, visto che il vecchio Calisso, un architetto piuttosto noto nella Valle, detestava quello stile. L’ingresso dava su un salotto open space, con un piccolo caminetto a vetro, la tv abbastanza moderna, un impianto stereo con accanto una colonnina porta cd, un divano anni ‘90, comodo e senza fronzoli, un mobiletto bar.
Non era tardi e Franco si aspettava di trovare i Calisso ancora svegli, magari davanti alla tv. Invece la casa era riscaldata, ma silenziosa.
Norma Calisso gli prese la giacca e l’appese ad un mobiletto all’ingresso, accanto alla sua.
«Franco, posso chiederti un favore? Accenderesti il fuoco? E’ tutto pronto ma io sono negata…»
Franco andò al caminetto e aprì la porta a vetro. La cassa di combustione era pulita, come nuova, e dentro c’era un pira ben fatta. Si guardò attorno in cerca di un accendino e vide che Norma Calisso era inginocchiata davanti al mobiletto bar, e frugava all’interno spostando bottiglie. La posizione ne metteva in risalto il culo sontuoso, stretto dalla gonna che scendeva attorno a lei, lasciando uscire le caviglie fasciate dalle calze, le scarpe con i tacchi. Franco capì che avrebbe avuto bisogno di più di qualche bicchierino, anche solo per parlare. Lei si voltò, sedendosi sui tacchi. «Trovato!» esultò sorridendo nella sua direzione. «Questo è speciale. Almeno così dice mio padre.»
Franco deglutì a fatica. «C’è… c’è un accendino?»
«È lì, sulla mensola».
Quattro minuti dopo il fuoco scoppiettava già, e Franco e Norma Calisso erano seduti sul divano. Norma teneva il suo tumbler su un ginocchio, lasciato scoperto dalla gonna quando aveva accavallato le gambe. Erano silenziosi, lei a suo agio, rivolta verso di lui che non sapeva dove guardare.
«Ma... i tuoi?, a letto con le galline?» chiese lui tanto per dire qualcosa.
Lei rise allegra.
«I miei non vivono più qui. Ormai lo studio lavora quasi solo a Udine e si sono trasferiti in città da tempo. Siamo soli…»
Lui la guardò negli occhi e vi trovò davvero parecchia malizia. E notò anche che era parecchio vicina. Se avesse voluto, la sua bocca socchiusa… gli sarebbe bastato chinarsi un po’.
Quindi erano soli, in quel salotto illuminato dal fuoco e da una calda lampada da pavimento. Ed al primo scotch ne seguì un altro, con in mezzo la spiegazione di un viaggio dei suoi a Edimburgo, in cui avevano visitato una distilleria e acquistato quella e altre bottiglie. Lei parlava e lui annuiva, seguendo il movimento del crocifisso tra i seni, e non perdendo un millimetro del modo in cui la gonna si ritirava dal ginocchio verso il paradiso. Si sentiva affamato come un orso polare, carico come un toro, quando avrebbe dovuto rendersi conto che da un bel po’, era solo il topolino con cui quella gatta stava giocando.
«Ecco cosa ci vuole!» disse lei balzando in piedi. «Dovrei averlo qui.»
Andò ondeggiando sui tacchi alti fino alla colonnina dei cd. Si piegò offrendo di nuovo la vista del suo culo a Franco, che terminò sbigottito il secondo scotch (doppio).
«Eccolo!»
Prese un cd e lo tolse dalla custodia. Lo mise nel lettore, non selezionò né traccia né il volume, ma indugiò sul pulsante play, si fermò, come ripensandoci.
«Ho paura che mi sentirò ridicola.»
Franco Bianchi non aveva idea di cosa stesse parlando. Ma in quel momento la trovava tutto fuorché ridicola. Era come metallo rovente infilato in calze e mutandine, i vestiti su quel corpo da bomba erano una presa in giro che doveva finire e, scusate la banalità, ma era davvero esplosiva, con tutte quelle curve in ‘poco più di un metro e un crodino’ di altezza. Franco pensava solo a parole come sfondare, riempire, sbattere, fottere.
Lei ancheggiò di nuovo fino al tavolino, guardandolo negli occhi, si chinò facendo penzolare il crocefisso al collo sopra la scollatura, senza perdere di vista gli occhi dell’uomo che in quella scollatura finirono risucchiati. Si sollevò con il tumbler in mano. Lo seccò facendo una smorfia che Franco interpretò come quella di una puttana da saloon. «Ora va meglio» disse. Poi versò altri due bicchieri, e tornò verso lo stereo.
Si chinò per raggiungere il pulsante play e si voltò.
«Sei pronto?»
«Pronto per cosa?»
«Ora vedrai.»
Franco non era un appassionato di cinema e non conosceva la scena in cui Salma Hayek era entrata nell’immaginario collettivo versando della tequila in bocca a Quentin Tarantino facendosela scorrere dal ginocchio al piede, altrimenti ne avrebbe riconosciuto la musica da blues satanico.
Norma Calisso si sfilò per prima cosa gli occhiali, ancheggiando piano al ritmo soffuso della musica. Li posò sullo stereo e quindi si passò la mano a ravvivare i capelli fulvi. Poi iniziò ad ondeggiare verso di lui, sciogliendosi un bottone della camicetta.
«Ti piace, Franco?»
«Sì» boccheggio lui.
Iniziò ad accentuare i movimenti delle anche, ma non troppo. Ballando lenta, schiudeva un attimo le cosce facendo fluttuare la gonna. Poi gli dava la schiena, guardandolo da sopra la spalla sempre più scoperta. Quindi gli si avvicinò, gli posò le mani sulle ginocchia e si chinò verso di lui. Lo baciò un attimo, facendo scorrere scintille, poi si ritrasse sorridendogli da maiala (Franco non sapeva come altro dirlo, ma in effetti avrebbe centrato il punto) e continuò a ballare, ancheggiando, abbassandosi sulle ginocchia e passandosi le mani a stringere i seni contro il crocefisso, poi sui fianchi e giù lungo le cosce. Si avvicinò di nuovo, si mise di fronte a lui, a suo tiro, alzò la gamba destra e posò la scarpa col tacco sul divano, accanto a lui, senza mai smettere di muoversi. Franco ormai sentiva il suo odore. Lei si chinò, prese la sua mano sinistra tra le sue (la destra di Franco pareva inanimata e sul punto di lasciar rovesciare il tumbler, ancora una volta quasi vuoto) e, tirandolo a sé, se la posò sul fianco, facendogli seguire il suo movimento. A Franco pareva di sentirla bruciare. Non badò al testo che diceva:

I find myself in her room
Feel the fever of my doom
Falling, falling through the floor
I'm knocking on the devil's door, yeah*

Franco pensava solo alla stringa del reggicalze che sentiva sotto alla gonna, alla mano calda di lei che spingeva la sua verso il basso lungo la coscia, verso l’interno e giù fino a oltre il ginocchio, e oltre ancora dove finalmente la sua mano superò la gonna e incontrò le calze. Da lì sempre guidato dalla mano di lei, i cui fianchi non mancavano mai una nota di basso, passò sotto al ginocchio, salì nell’interno caldo della coscia, fino a toccare la sua carne. Fu a quel punto che Franco sentì Norma Calisso gemere, e capì quanto anche lei lo desiderasse.
Franco, che fino a quel momento, come ipnotizzato, aveva tenuto gli occhi sulla mano di lei che lo portava a frugare tra i suoi vestiti, la guardò in viso. Aveva le labbra socchiuse, a tradire un respiro affannato, gli occhi dilatati, eccitati. Si accorse di avere ancora del liquido nel tumbler: lo finì e se ne liberò. Alzò la schiena dallo schienale del divano in cui era sprofondato e la mano libera poté risalire sotto la gonna, avida e lussuriosa, da dietro la coscia, fino a dove partiva il sedere, che scoprì coperto ben poco da mutandine di pizzo. L’altra mano, raggiunse la fica dal davanti, e un nuovo gemito della femmina che aveva tanto desiderato gli annunciò che era sulla retta via della perdizione. Lei, sempre ballando lenta, prese a slacciarsi i 3 bottoni che ancora le tenevano i seni compressi nella camicetta. Quindi la sfilò, rimanendo con quelle bocce incredibili sospinte verso di lui dal reggiseno, con nell’avvallamento il crocefisso d’oro mai come in quel momento simbolo di lussuria. Franco, che seduto sul divano le arrivava comunque alle spalle, si chinò per baciare, leccare e succhiare la sua pelle. Mentre con le mani le stringeva il culo, le si infilava nelle mutandine, scoprendo un sesso liscio, rasato di fresco.
Lei si scostò un attimo, lasciandolo a mani vuote, ma continuando a riempire tutti gli altri suoi sensi. Fece scorrere la zip della gonna che scivolò sulle sue cosce, prima di cadere lì accanto. Si lasciò guardare un attimo il costoso coordinato nero reggiseno, reggicalze e mutandine e tutto quanto contenesse. quindi si avvicinò di nuovo, si godette per un po’ le mani e la bocca dell’uomo sui suoi fianchi, sul suo culo, sui seni e quindi si inginocchiò tra le sue gambe e lo baciò con foga e desiderio, mentre le sue mani armeggiavano con la cintura e la patta dei pantaloni. Quando le sue piccole mani esperte trovarono quel che cercava, lo lasciò uscire come con uno scoppio. Smise di baciare l’uomo, gli sorrise oscena, e prese in bocca il suo cazzo.
Franco si abbandonò all’indietro, con le mani tra i capelli fulvi di Norma Calisso. Tito cantava:

In my heart, a deep and dark and lonely part
Wants her and waits for after dark
After dark, after dark
After dark**

La canzone terminò e ne riprese un’altra, sempre su quei toni, ma Franco non ci badò. Sentiva solo quella bocca sul suo cazzo, quei capelli tra le mani. Certo non era il primo pompino che riceveva, ma quello era diverso. Non era quello che si dice un ‘preliminare’. Quella femmina inginocchiata ai suoi piedi pareva una belva affamata. Pareva davvero godere a leccare, a succhiare, a inghiottire. Non voleva eccitarlo, voleva divorarlo, farlo suo. Quel cazzo in bocca pareva il desiderio espresso soffiando le candeline, il suo oscar, il suo tesoro, la sua agognata libbra di carne.
Iniziò piano, facendogli sentire tutto il proprio calore, la sua lingua, la sua delicata bravura, ma poi non fece che accelerare lentamente e alla fine, quando Franco si sentì tutt’uno con il brivido che partiva dall’osso sacro alla punta del suo cazzo, lei non la smise di certo, continuando a deglutire e succhiare la sua anima.

. continua>>>

[il seguito di questo e altri racconti su https://raccontiviola.wordpress.com/]


*Mi ritrovo nella sua stanza/Senti la febbre del mio destino/Cadere, cadere sul pavimento/Sto bussando alla porta del diavolo, sì
**Nel mio cuore, una parte profonda, oscura e solitaria/La vuole e aspetta quando il tramonto/Dopo il tramonto, dopo il tramonto/Quando si fa scuro

per chi non conosce la canzone: [https://www.youtube.com/watch?v=gdLrxN50JYM]
di
scritto il
2023-04-03
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