L'Ostessa di Bamberga
di
Joe Cabot
genere
confessioni
Baviera, seconda metà del ‘700.
Il frate confessore si guardò attorno scrutando la notte, poi aprì la porta di cui era l’unico ad avere la chiave non appena il campanile del Bamberger Dom batté le due. Salì al buio le rampe della stretta scala di legno fino al all’ultimo piano della locanda. Aprì una porticina che dava su un corridoio illuminato appena da un lume alla parete, e da lì raggiunse un’altra porta.
Bussò due volte.
Una voce femminile lo invitò ad entrare.
Aprì la porta.
L’ostessa lo aspettava, inginocchiata sul tappeto. Aveva i gomiti poggiati su una cassapanca, le mani giunte e strette, e pregava rivolta ad un dipinto di San Sebastiano. Aveva i capelli sciolti sulle spalle, una veste da notte bianca lunga fino alle caviglie, e dall’orlo sbucavano i piedi calzati di cotone nero. Pareva piangere, chiedere perdono.
Si chiamava Juliet.
Era rimasta orfana di entrambi i genitori da bambina, ed era stata presa in casa da Frau Tremaine, una lontana parente senza figli, che gestiva con il marito una locanda lungo il fiume. La donna, più bigotta che amorevole, l’aveva messa subito a fare la servetta, ma non era questo il suo destino, perché la piccola Juliet, non appena era diventata non più tanto piccola, si era resa conto che man mano che il suo corpo prendeva forma, attirava sempre di più gli sguardi, e le mani, degli ospiti. E pure le mani e gli sguardi dell’oste.
Era ormai una giovanissima donna, in un’epoca in cui lo si diventava verso i 15 anni, quando decise che non le importava nulla di essere un’orfana senza dote, destinata a qualche vecchio beone senza un quattrino. Se la sua verginità aveva un valore, come le ripeteva Frau Tremaine, non l’avrebbe certo donata ad un uomo scelto da quella arida megera. Già da bambina non era tipa da lasciare che un dente da latte le dondolasse a lungo e allo stesso modo si tolse presto l’impaccio della prima volta scegliendo lei un ragazzone gentile, di un paesello vicino, che portava verdure alla locanda. Non fu granché. Nessun baratro sull’inferno si aprì ad inghiottirla, nessuna scala scese da una nuvola illuminata dalla luce divina per portarla in paradiso. Eppure cambiò tutto.
Dopo il garzone c’era stato un soldatino di passaggio (benché non desse alcun valore alle credenze della sua gente, capiva quanto potesse essere pericoloso per lei diventare bersaglio di maldicenze, e non voleva incontrare per strada qualcuno che avesse incontrato anche in un fienile, e che potesse farsene vanto) e poi quello strano viaggiatore francese, monsieur d’Erot, forse un Marchese, che era rimasto alla locanda il tempo di insegnarle che il suo incantevole aspetto non serviva ad allietare la vita di un marito o dei clienti della locanda, ma che il suo corpo oltre a dare piacere, poteva riceverne, e non c’era nulla di più sciocco che rinunciare ad un piacere che nell’arrivare si dava. Con lui raggiunse per la prima volta il culmine, di lui assaggiò per la prima volta il piacere, con lui scoprì il gusto di donarsi anche contravvenendo alle rigide regole che, lui le spiegò, la religione spacciava per naturali. Quando lo strano viaggiatore francese se ne andò, dopo l’ennesima notte in cui l’aveva raggiunto in camera in barba a Frau Tremaine, le lasciò solo buoni ricordi, la raccomandazione di non farsi mettere i piedi in testa, e un sacchetto dall’interno tintinnante perché, le disse l’uomo, se non imparava a far di conto Frau Tremaine avrebbe continuato a contare al posto suo.
Il marito di Frau Tremaine non era mai stato cattivo con lei, per questo bastava la matrigna, me ben presto Juliet imparò quanto poco bastava a prenderlo per il naso. In cambio di un sorriso e di uno scorcio dei suoi seni, lui esaudiva ogni sua richiesta e, la notte che Frau Tremaine era andata in visita dalla sorella, ne fece il suo amante o, perché quello era in effetti, il suo succube. Quando la matrigna tornò, capì subito che era finito il tempo in cui la poteva maltrattare impunemente e tre lustri dopo, quando l’oste, ormai anziano, se ne andò, lasciò la locanda a Juliet, che però fu sempre cordiale con Frau Tremaine, anch’essa ormai anziana.
La lasciarono libera e proprietaria della locanda, per nulla intenzionata a limitarsi ad un marito, con in casa due ragazze a servizio, e un fattore che le curava un certo piccolo lotto tenuto ad orti, e le produceva la birra. Aveva raggiunto la mezza età senza avere figli, anche grazie a un certo infuso che le preparava un’amante che aveva a Walsdorf, e ai tempi di questa storia dimostrava meno dei suoi trenta anni.
Il frate confessore si sedette su una sedia, accanto alla donna inginocchiata. Mormorò alcune formule in latino e fece dei cenni con le mani. Alla fine lei rispose con un ‘amen’.
«Mi perdoni padre, perché ho peccato.»
«Mi dica, figliuola, da quando non vi confessate?»
«Da lunedì scorso, padre, una settimana esatta.»
«Raccontatemi. E, mi raccomando, non tralasciate niente. »
Juliet si mise a raccontare di fatti della locanda. Di come si era intortata un cliente facendogli pagare uno stinco di maiale che poi aveva fatto avere alla vecchia Frau Gutefee, che non ne mangiava uno da settimane. Di come si era rivolta in modo irrispettoso ad una delle ragazze che lavoravano per lei, di come aveva peccato di gola, di come aveva invocato Dio invano per una perdita a carte, naturalmente di aver giocato a carte e ai dadi.
Il padre confessore pareva spazientito. Si agitava sulla sedia e guardava severo la donna inginocchiata, che raccontava quei fatterelli sempre rivolta a San Sebastiano.
«Niente altro?» chiese non appena lei rimase in silenzio un attimo.
«Beh, padre, mi vergogno tanto…»
«Sì? Mi dica… la confessione dev’essere senza remore, se vuole sperare nell’assoluzione.»
«Padre, deve sapere che lunedì scorso, dopo che se ne è andato, ero così prostrata, così sconvolta, che… è stato il diavolo che deve aver guidato la mia mano.»
«Guidata dove?»
«Non lo so… non so come spiegarvi… posso mostrarvelo? »
«Certo! Il peccato dev’essere confessato nella sua interezza, figliuola.»
«Allora ecco, padre, ho fatto così… »
Juliet sciolse le mani giunte, e una di esse scese verso il pube e trovò la via sollevando la veste da camera.
«Mi è venuto di toccarmi qui, così, proprio qui» sospirò la donna. «A volte qui sento come un fuoco, eppure è tutto viscido… lo vede? »
Tirò all’improvviso fuori la mano, e mostrò le dita al padre confessore: alla luce delle candele le dita parevano ricoperte del vischio con cui si catturano gli uccelli.
«E se continuo» riprese dopo essersi rimessa le dita nella fonte di quel vischio, «e se continuo, fa anche peggio. C’è un punto qui… proprio qui… che… mi scalda tutta. E se poi faccio scivolare dentro le dita… così… più volte… oh, sapesse, padre… »
Juliet era sempre inginocchiata, e si sorreggeva con un mano alla cassapanca. Non vedeva ora San Sebastiano, perché aveva gli occhi leggermente rivoltati come in quel dipinto dell’estasi di santa Teresa che l’aveva tanto messo a disagio, e come la santa aveva la bocca socchiusa. Nel silenzio, si sentiva come uno sgocciolio quasi impercettibile, ma non era uno sgocciolio, visto che erano piuttosto delle dita che frugavano in una piccola ciotola, e un altro rumore, che faceva il padre confessore rigirando la lingua nella bocca secca.
«Ho inteso » disse il frate. «E poi? »
«E poi… » sussurrò la donna, senza cambiare posizione o attività, «e poi martedì, credo di aver peccato con il cramaro, il venditore di spezie. Quando ho pagato, non lo so perché, ma ho finto di non avere tutto il denaro. E invece ce l’avevo. E lui si è arrabbiato, e ha detto che si trovava il modo. Mi ha seguito nella dispensa e… » alla donna scappò un gemito, e si interruppe, mentre le guance le si arrossavano.
«E?» la incalzò il padre confessore.
«E ha tirato fuori il suo fallo. Io non volevo, ma lui ha detto che non pagare gli speziali è un peccato contro San Giovanni Damasceno, il loro patrono. Allora ho dovuto inginocchiarmi e… »
«E?»
«Ho dovuto sottostare al suo capriccio… con la bocca (per non offendere San Giovanni Damasceno). Vuole che le spieghi meglio? Le faccio vedere?»
«No! Ho inteso » disse il frate. «E poi? »
«Martedì sono andata al podere, il podere che ho oltre il Regnitz. Ho incontrato il fattore, che vive là tutto solo pover’uomo. E’ tanto bravo, un bravo lavoratore. Vedesse come lavora bene, con quelle sue spalle, con quelle manone. Ma è tanto solo. Poveretto. La moglie lo ha lasciato e da allora è sempre tanto triste. Me lo ha detto lui, e quasi piangeva. Mi ha ricordato il mio patrigno, che anche lui ha sofferto tanto per come era Fra Tremaine… l’ho abbracciato, ma per consolarlo… ma un uomo e una donna, in una casupola appartata… ci si è messo il diavolo! Mi son trovata contro il tavolo, con la gonna sulla schiena, e lui che mi ringraziava, che mi diceva che nessuna padrona è così buona, e quando ha finito era così contento, e anche io… padre, ma era così contento che non mi pare di aver peccato… »
«Vada avanti, figliuola. Mercoledì? »
«Ah, mercoledì invece credo proprio di aver peccato parecchio. Erano venuti lo spazzacamino e il suo aiutante, e mi hanno sistemato prima il camino grande, e poi quello piccolo sul retro. Prima lo spazzacamino, e poi l’aiutante, un ragazzino che aveva tanto bisogno di impratichirsi. Tanto bravo, ma tanto dotato. Per il camino piccolo, ce ne ha messo…»
«Ma questo non mi pare peccato, figliuola »
«Beh, padre, non so come dirglielo… ma hanno fatto non solo i camini della locanda, ma anche quelli della locandiera. »
Al frate confessore scampò un’espressione insolita per un prelato, che avrebbe forse offeso la santa Maddalena.
«Avete detto qualcosa, padre? » disse la donna con voce ingenua.
«Niente. Era latino. Continuate. Avete peccato di giovedì?»
«Volevo giusto parlarvene, padre. Giovedì è stato strano. Si erano fermati alla locanda due viaggiatori, un dentista e la moglie, diretti a Coburgo. Persone così gentili. Lei si chiamava Margaretha, così bella, bionda, nel fiore degli anni. Abbiamo chiacchierato e soprattutto lei era così amichevole. Quando sono saliti in camera, il marito ha insistito per farmi assaggiare un liquore alle erbe, davvero buono. D’un tratto, dopo averne assaggiati 3 o 4 bicchieri, mi sono ritrovato con Margarethe vicina e, non so come… » Juliet si interruppe, e di nuovo si sentì quell’impercettibile sgocciolio.
«Non so come, ma facemmo delle cose strane, ma senza peccare perché il marito, almeno all’inizio, rimase seduto in disparte. Lei mi fece delle cose… con la bocca… »
«Dove? Dove vi fece quelle cose? » gemette il frate confessore con la sua bocca secca.
«Non ci crederete… ma prima mi baciò sulle labbra, anche (Dio mi perdoni) con la lingua. E io non sapevo se era sbagliato. E’ sbagliato? Non lo so. Poi scese sul collo, e poi qui, e qui… » nel dire questo si sollevò un po’, e con la mano si toccò prima il collo, e poi l’incavo tra i seni e poi, dopo un altro “e qui” gutturale, si pizzicò i capezzoli da sopra la veste.
«Qui… tanto… con la sua bocca» gemette.
«E poi » riprese dopo momento di silenzio in cui si sentiva solo il respiro pesante del frate confessore, e il gorgoglio sempre più deciso, tra le sue cosce. «E poi è scesa con la bocca proprio qui… » assunse di nuovo quell’espressione da estasi di santa Teresa, lì inginocchiata, con un mano a stringersi un seno, l’altra tra le gambe socchiuse, che toccavano lì, qui e poi qui, ma soprattutto lì, proprio dove si era insinuata e aveva picchiato la lingua di Margaretha, la moglie del dentista di Coburgo.
«E lui? Vi ha toccata? »
«Lui no. Cioè, all’inizio no. Mentre mi faceva lei quelle cose, no. Guardava e basta. Solo che poi, quando è successo che mi è uscito un grido (forse più di uno), dopo che Margaretha si è aiutata anche con le dita, Margarethe ha smesso, e mi ha di nuovo baciata. E allora a me pareva scortese non ricambiare, e le feci anch’io…. Solo che a quel punto, mentre ero su di lei come una gatta che lecca il latte da una ciotola, il marito dentista di Coburgo si è avvicinato, mi ha preso per le natiche e… ma è stato così gentile anche lui… »
Stavolta l’epiteto che sfuggi dalle labbra del frate confessore si sentì bene, e non era in latino.
«No, niente affatto, non presi soldi. Per niente. Non da loro… »
«Non da loro?!? »
«Sì, perché venerdì si fermarono alla locanda tre mercanti di Magonza, che per la verità conoscevo già. E lì in effetti mi offrirono del denaro e, che vuole, padre? Dico di no ai soldi? L’ho fatto anche per le ragazze, che se quella cosa non gliela davo io, andavano a cercarla dalle ragazze, e con Franziska non avrebbero neanche dovuto insistere granché. E così sono finita in camera con loro, e ho pensato che invece di peccare tre volte, era meglio peccare tutto in una volta sola. È stata una faticaccia, mi creda, ma alla fine erano contenti. Ora però, ripensandoci, forse ho davvero peccato, perchè alla fine mi sono messa in ginocchio tra loro e, non so come dire, ma si sono avvinati e li ho munti, con le mani e la bocca, e alla fine ho bevuto tutto il loro… latte. Si può bere quel latte di giorno di magra, padre?»
Lui non rispose subito. Anzi, non rispose proprio. Solo dopo un po’ sospirò “sabato?”.
«Sabato niente… c’è tanto lavoro! Giusto quel malgaro, ma niente di che, non fosse che aveva un cazzo da toro (ops! mi scusi la parola, padre) e non vedeva una donna da tre mesi. Domenica invece, mi è successa un cosa strana. È il giorno del Signore, e da brava cristiana sono andata alla messa, nella chiesetta qui vicino, e quando ho preso il Corpo di Cristo, ho visto che il prevosto mi ha fatto un cenno con l’occhio. Timorata come sono, ho aspettato la fine della messa e l’ho raggiunto nello stanzino dove indossa i suoi paramenti sacri. E lì il prevosto, senza tanti giri di parole, ha iniziato a mettermi le mani dappertutto, mi ha spinta contro un banchetto e, senza troppi riguardi, me lo ha messo nel… insomma, voi mi capite. Che poi per fortuna che lo conosco, quel prevosto, e non vado mai a messa senza prima ungermi un po’, con del burro, dove so che gli piace tanto. Ma la cosa strana è che poi, tra le monete che mi ha dato, c’era un franco svizzero, identico a quello che avevo messo nella sacca dell’offertorio. Ed è strano, che di monete così non se ne vedono tante.»
Per la prima volta dacché il frate confessore era arrivato nella stanza, Juliet lo guardò. L’uomo pareva stravolto, la fronte imperlata di sudore, il corpo percorso da brividi.
«Allora padre? Me la dà la penitenza?»
Sempre inginocchiata davanti al quadretto con San Sebastiano, ora lo fissava con sguardo da strega, mentre una mano continuava toccare lì, qui e poi qui, ma soprattutto lì, mentre l’altra si era infilata tra la fila di bottoni sul davanti della veste, per stringere un seno.
Il frate confessore si alzò in piedi. «Ora avrai quello che meriti, lurida peccatrice.»
«Sia fatta la volontà del Signore… »
Si sfilò il cingolo di corda grezza che gli cingeva il fianco e, inginocchiatosi a sua volta alle spalle della penitente, le sfilò la veste da camera lasciandola completamente nuda, fatta eccezione per le calze nere legate a metà coscia da un laccio rosso. “Rosso e nero… il colore del peccato!” pensò il frate confessore.
«Dammi le tue mani, meretrice di Babilonia.»
Juliet obbedì, porgendo le mani in modo che il frate confessore potesse legargliele dietro la schiena con il cingolo. Quando la ebbe legata ben stretta, strappandole un gemito di dolore, la spinse contro la cassapanca e si liberò del saio rilevando un poderoso batacchio. Afferrandola per le natiche, bussò con la sua natura a quella della donna, vischiosa e bollente. La penetrò d’improvviso.
«Questa è per esserti concessa a garzoni e viandanti» diceva quasi salmodiando ad ogni spinta decisa, e lei rispondeva bofonchiando dei ‘fiat voluntas tua’ resi inintelligibili dall’estasi con cui venivano ripetuti. «E questo per esserti concessa per il piacere, e questo per esserti venduta per danaro », e via dicendo. Poi si chinava e le afferrava un seno, stringendolo e pizzicando i capezzoli. «E questo per aver giaciuto con un donna, questo per averne tratto piacere, e questo per averne dato».
«Puniscimi, padre, puniscimi perché ho peccato anche contro natura.»
E la punizione non tardò ad arrivare, grossa e solenne.
«Ecco la punizione, puttana sodomita. E questo è per quello che ti hanno fatto gli spazzacamini, e questo per i viandanti a cui hai concesso il didietro per danaro. E questo per aver traviato e portato al peccato contro natura il prevosto, e questo per averne provato piacere, e questo per il meretricio.»
Il frate confessore la punì a lungo, allungandole qualche sculaccione sulle natiche, e lei riceveva tutto con dei ‘fiat’ sempre più sbiascicati.
«E ora, cagna del demonio » disse alzandosi in piedi e sollevando la penitente per i capelli. «Questo è per aver usato la bocca per peccare invece che per pregare.»
Glielo puntò alla bocca e lei la aprì facendo uscire la lingua come si fa per prendere il corpo di Cristo a messa, e lui a quel punto spruzzò dal suo aspersorio proprio lì, sulla lingua oscenamente protesa, e poi sulle guance, e sui seni.
Fatto ciò il frate confessore stramazzò sulla sedia, mentre lei si abbandonava nuovamente sulla cassapanca.
Quando si ripresero, molte ore mancavano ancora all’alba. Il frate confessore la slegò e lei lo spinse sopra al letto, dove fecero l’amore.
Il frate confessore si guardò attorno scrutando la notte, poi aprì la porta di cui era l’unico ad avere la chiave non appena il campanile del Bamberger Dom batté le due. Salì al buio le rampe della stretta scala di legno fino al all’ultimo piano della locanda. Aprì una porticina che dava su un corridoio illuminato appena da un lume alla parete, e da lì raggiunse un’altra porta.
Bussò due volte.
Una voce femminile lo invitò ad entrare.
Aprì la porta.
L’ostessa lo aspettava, inginocchiata sul tappeto. Aveva i gomiti poggiati su una cassapanca, le mani giunte e strette, e pregava rivolta ad un dipinto di San Sebastiano. Aveva i capelli sciolti sulle spalle, una veste da notte bianca lunga fino alle caviglie, e dall’orlo sbucavano i piedi calzati di cotone nero. Pareva piangere, chiedere perdono.
Si chiamava Juliet.
Era rimasta orfana di entrambi i genitori da bambina, ed era stata presa in casa da Frau Tremaine, una lontana parente senza figli, che gestiva con il marito una locanda lungo il fiume. La donna, più bigotta che amorevole, l’aveva messa subito a fare la servetta, ma non era questo il suo destino, perché la piccola Juliet, non appena era diventata non più tanto piccola, si era resa conto che man mano che il suo corpo prendeva forma, attirava sempre di più gli sguardi, e le mani, degli ospiti. E pure le mani e gli sguardi dell’oste.
Era ormai una giovanissima donna, in un’epoca in cui lo si diventava verso i 15 anni, quando decise che non le importava nulla di essere un’orfana senza dote, destinata a qualche vecchio beone senza un quattrino. Se la sua verginità aveva un valore, come le ripeteva Frau Tremaine, non l’avrebbe certo donata ad un uomo scelto da quella arida megera. Già da bambina non era tipa da lasciare che un dente da latte le dondolasse a lungo e allo stesso modo si tolse presto l’impaccio della prima volta scegliendo lei un ragazzone gentile, di un paesello vicino, che portava verdure alla locanda. Non fu granché. Nessun baratro sull’inferno si aprì ad inghiottirla, nessuna scala scese da una nuvola illuminata dalla luce divina per portarla in paradiso. Eppure cambiò tutto.
Dopo il garzone c’era stato un soldatino di passaggio (benché non desse alcun valore alle credenze della sua gente, capiva quanto potesse essere pericoloso per lei diventare bersaglio di maldicenze, e non voleva incontrare per strada qualcuno che avesse incontrato anche in un fienile, e che potesse farsene vanto) e poi quello strano viaggiatore francese, monsieur d’Erot, forse un Marchese, che era rimasto alla locanda il tempo di insegnarle che il suo incantevole aspetto non serviva ad allietare la vita di un marito o dei clienti della locanda, ma che il suo corpo oltre a dare piacere, poteva riceverne, e non c’era nulla di più sciocco che rinunciare ad un piacere che nell’arrivare si dava. Con lui raggiunse per la prima volta il culmine, di lui assaggiò per la prima volta il piacere, con lui scoprì il gusto di donarsi anche contravvenendo alle rigide regole che, lui le spiegò, la religione spacciava per naturali. Quando lo strano viaggiatore francese se ne andò, dopo l’ennesima notte in cui l’aveva raggiunto in camera in barba a Frau Tremaine, le lasciò solo buoni ricordi, la raccomandazione di non farsi mettere i piedi in testa, e un sacchetto dall’interno tintinnante perché, le disse l’uomo, se non imparava a far di conto Frau Tremaine avrebbe continuato a contare al posto suo.
Il marito di Frau Tremaine non era mai stato cattivo con lei, per questo bastava la matrigna, me ben presto Juliet imparò quanto poco bastava a prenderlo per il naso. In cambio di un sorriso e di uno scorcio dei suoi seni, lui esaudiva ogni sua richiesta e, la notte che Frau Tremaine era andata in visita dalla sorella, ne fece il suo amante o, perché quello era in effetti, il suo succube. Quando la matrigna tornò, capì subito che era finito il tempo in cui la poteva maltrattare impunemente e tre lustri dopo, quando l’oste, ormai anziano, se ne andò, lasciò la locanda a Juliet, che però fu sempre cordiale con Frau Tremaine, anch’essa ormai anziana.
La lasciarono libera e proprietaria della locanda, per nulla intenzionata a limitarsi ad un marito, con in casa due ragazze a servizio, e un fattore che le curava un certo piccolo lotto tenuto ad orti, e le produceva la birra. Aveva raggiunto la mezza età senza avere figli, anche grazie a un certo infuso che le preparava un’amante che aveva a Walsdorf, e ai tempi di questa storia dimostrava meno dei suoi trenta anni.
Il frate confessore si sedette su una sedia, accanto alla donna inginocchiata. Mormorò alcune formule in latino e fece dei cenni con le mani. Alla fine lei rispose con un ‘amen’.
«Mi perdoni padre, perché ho peccato.»
«Mi dica, figliuola, da quando non vi confessate?»
«Da lunedì scorso, padre, una settimana esatta.»
«Raccontatemi. E, mi raccomando, non tralasciate niente. »
Juliet si mise a raccontare di fatti della locanda. Di come si era intortata un cliente facendogli pagare uno stinco di maiale che poi aveva fatto avere alla vecchia Frau Gutefee, che non ne mangiava uno da settimane. Di come si era rivolta in modo irrispettoso ad una delle ragazze che lavoravano per lei, di come aveva peccato di gola, di come aveva invocato Dio invano per una perdita a carte, naturalmente di aver giocato a carte e ai dadi.
Il padre confessore pareva spazientito. Si agitava sulla sedia e guardava severo la donna inginocchiata, che raccontava quei fatterelli sempre rivolta a San Sebastiano.
«Niente altro?» chiese non appena lei rimase in silenzio un attimo.
«Beh, padre, mi vergogno tanto…»
«Sì? Mi dica… la confessione dev’essere senza remore, se vuole sperare nell’assoluzione.»
«Padre, deve sapere che lunedì scorso, dopo che se ne è andato, ero così prostrata, così sconvolta, che… è stato il diavolo che deve aver guidato la mia mano.»
«Guidata dove?»
«Non lo so… non so come spiegarvi… posso mostrarvelo? »
«Certo! Il peccato dev’essere confessato nella sua interezza, figliuola.»
«Allora ecco, padre, ho fatto così… »
Juliet sciolse le mani giunte, e una di esse scese verso il pube e trovò la via sollevando la veste da camera.
«Mi è venuto di toccarmi qui, così, proprio qui» sospirò la donna. «A volte qui sento come un fuoco, eppure è tutto viscido… lo vede? »
Tirò all’improvviso fuori la mano, e mostrò le dita al padre confessore: alla luce delle candele le dita parevano ricoperte del vischio con cui si catturano gli uccelli.
«E se continuo» riprese dopo essersi rimessa le dita nella fonte di quel vischio, «e se continuo, fa anche peggio. C’è un punto qui… proprio qui… che… mi scalda tutta. E se poi faccio scivolare dentro le dita… così… più volte… oh, sapesse, padre… »
Juliet era sempre inginocchiata, e si sorreggeva con un mano alla cassapanca. Non vedeva ora San Sebastiano, perché aveva gli occhi leggermente rivoltati come in quel dipinto dell’estasi di santa Teresa che l’aveva tanto messo a disagio, e come la santa aveva la bocca socchiusa. Nel silenzio, si sentiva come uno sgocciolio quasi impercettibile, ma non era uno sgocciolio, visto che erano piuttosto delle dita che frugavano in una piccola ciotola, e un altro rumore, che faceva il padre confessore rigirando la lingua nella bocca secca.
«Ho inteso » disse il frate. «E poi? »
«E poi… » sussurrò la donna, senza cambiare posizione o attività, «e poi martedì, credo di aver peccato con il cramaro, il venditore di spezie. Quando ho pagato, non lo so perché, ma ho finto di non avere tutto il denaro. E invece ce l’avevo. E lui si è arrabbiato, e ha detto che si trovava il modo. Mi ha seguito nella dispensa e… » alla donna scappò un gemito, e si interruppe, mentre le guance le si arrossavano.
«E?» la incalzò il padre confessore.
«E ha tirato fuori il suo fallo. Io non volevo, ma lui ha detto che non pagare gli speziali è un peccato contro San Giovanni Damasceno, il loro patrono. Allora ho dovuto inginocchiarmi e… »
«E?»
«Ho dovuto sottostare al suo capriccio… con la bocca (per non offendere San Giovanni Damasceno). Vuole che le spieghi meglio? Le faccio vedere?»
«No! Ho inteso » disse il frate. «E poi? »
«Martedì sono andata al podere, il podere che ho oltre il Regnitz. Ho incontrato il fattore, che vive là tutto solo pover’uomo. E’ tanto bravo, un bravo lavoratore. Vedesse come lavora bene, con quelle sue spalle, con quelle manone. Ma è tanto solo. Poveretto. La moglie lo ha lasciato e da allora è sempre tanto triste. Me lo ha detto lui, e quasi piangeva. Mi ha ricordato il mio patrigno, che anche lui ha sofferto tanto per come era Fra Tremaine… l’ho abbracciato, ma per consolarlo… ma un uomo e una donna, in una casupola appartata… ci si è messo il diavolo! Mi son trovata contro il tavolo, con la gonna sulla schiena, e lui che mi ringraziava, che mi diceva che nessuna padrona è così buona, e quando ha finito era così contento, e anche io… padre, ma era così contento che non mi pare di aver peccato… »
«Vada avanti, figliuola. Mercoledì? »
«Ah, mercoledì invece credo proprio di aver peccato parecchio. Erano venuti lo spazzacamino e il suo aiutante, e mi hanno sistemato prima il camino grande, e poi quello piccolo sul retro. Prima lo spazzacamino, e poi l’aiutante, un ragazzino che aveva tanto bisogno di impratichirsi. Tanto bravo, ma tanto dotato. Per il camino piccolo, ce ne ha messo…»
«Ma questo non mi pare peccato, figliuola »
«Beh, padre, non so come dirglielo… ma hanno fatto non solo i camini della locanda, ma anche quelli della locandiera. »
Al frate confessore scampò un’espressione insolita per un prelato, che avrebbe forse offeso la santa Maddalena.
«Avete detto qualcosa, padre? » disse la donna con voce ingenua.
«Niente. Era latino. Continuate. Avete peccato di giovedì?»
«Volevo giusto parlarvene, padre. Giovedì è stato strano. Si erano fermati alla locanda due viaggiatori, un dentista e la moglie, diretti a Coburgo. Persone così gentili. Lei si chiamava Margaretha, così bella, bionda, nel fiore degli anni. Abbiamo chiacchierato e soprattutto lei era così amichevole. Quando sono saliti in camera, il marito ha insistito per farmi assaggiare un liquore alle erbe, davvero buono. D’un tratto, dopo averne assaggiati 3 o 4 bicchieri, mi sono ritrovato con Margarethe vicina e, non so come… » Juliet si interruppe, e di nuovo si sentì quell’impercettibile sgocciolio.
«Non so come, ma facemmo delle cose strane, ma senza peccare perché il marito, almeno all’inizio, rimase seduto in disparte. Lei mi fece delle cose… con la bocca… »
«Dove? Dove vi fece quelle cose? » gemette il frate confessore con la sua bocca secca.
«Non ci crederete… ma prima mi baciò sulle labbra, anche (Dio mi perdoni) con la lingua. E io non sapevo se era sbagliato. E’ sbagliato? Non lo so. Poi scese sul collo, e poi qui, e qui… » nel dire questo si sollevò un po’, e con la mano si toccò prima il collo, e poi l’incavo tra i seni e poi, dopo un altro “e qui” gutturale, si pizzicò i capezzoli da sopra la veste.
«Qui… tanto… con la sua bocca» gemette.
«E poi » riprese dopo momento di silenzio in cui si sentiva solo il respiro pesante del frate confessore, e il gorgoglio sempre più deciso, tra le sue cosce. «E poi è scesa con la bocca proprio qui… » assunse di nuovo quell’espressione da estasi di santa Teresa, lì inginocchiata, con un mano a stringersi un seno, l’altra tra le gambe socchiuse, che toccavano lì, qui e poi qui, ma soprattutto lì, proprio dove si era insinuata e aveva picchiato la lingua di Margaretha, la moglie del dentista di Coburgo.
«E lui? Vi ha toccata? »
«Lui no. Cioè, all’inizio no. Mentre mi faceva lei quelle cose, no. Guardava e basta. Solo che poi, quando è successo che mi è uscito un grido (forse più di uno), dopo che Margaretha si è aiutata anche con le dita, Margarethe ha smesso, e mi ha di nuovo baciata. E allora a me pareva scortese non ricambiare, e le feci anch’io…. Solo che a quel punto, mentre ero su di lei come una gatta che lecca il latte da una ciotola, il marito dentista di Coburgo si è avvicinato, mi ha preso per le natiche e… ma è stato così gentile anche lui… »
Stavolta l’epiteto che sfuggi dalle labbra del frate confessore si sentì bene, e non era in latino.
«No, niente affatto, non presi soldi. Per niente. Non da loro… »
«Non da loro?!? »
«Sì, perché venerdì si fermarono alla locanda tre mercanti di Magonza, che per la verità conoscevo già. E lì in effetti mi offrirono del denaro e, che vuole, padre? Dico di no ai soldi? L’ho fatto anche per le ragazze, che se quella cosa non gliela davo io, andavano a cercarla dalle ragazze, e con Franziska non avrebbero neanche dovuto insistere granché. E così sono finita in camera con loro, e ho pensato che invece di peccare tre volte, era meglio peccare tutto in una volta sola. È stata una faticaccia, mi creda, ma alla fine erano contenti. Ora però, ripensandoci, forse ho davvero peccato, perchè alla fine mi sono messa in ginocchio tra loro e, non so come dire, ma si sono avvinati e li ho munti, con le mani e la bocca, e alla fine ho bevuto tutto il loro… latte. Si può bere quel latte di giorno di magra, padre?»
Lui non rispose subito. Anzi, non rispose proprio. Solo dopo un po’ sospirò “sabato?”.
«Sabato niente… c’è tanto lavoro! Giusto quel malgaro, ma niente di che, non fosse che aveva un cazzo da toro (ops! mi scusi la parola, padre) e non vedeva una donna da tre mesi. Domenica invece, mi è successa un cosa strana. È il giorno del Signore, e da brava cristiana sono andata alla messa, nella chiesetta qui vicino, e quando ho preso il Corpo di Cristo, ho visto che il prevosto mi ha fatto un cenno con l’occhio. Timorata come sono, ho aspettato la fine della messa e l’ho raggiunto nello stanzino dove indossa i suoi paramenti sacri. E lì il prevosto, senza tanti giri di parole, ha iniziato a mettermi le mani dappertutto, mi ha spinta contro un banchetto e, senza troppi riguardi, me lo ha messo nel… insomma, voi mi capite. Che poi per fortuna che lo conosco, quel prevosto, e non vado mai a messa senza prima ungermi un po’, con del burro, dove so che gli piace tanto. Ma la cosa strana è che poi, tra le monete che mi ha dato, c’era un franco svizzero, identico a quello che avevo messo nella sacca dell’offertorio. Ed è strano, che di monete così non se ne vedono tante.»
Per la prima volta dacché il frate confessore era arrivato nella stanza, Juliet lo guardò. L’uomo pareva stravolto, la fronte imperlata di sudore, il corpo percorso da brividi.
«Allora padre? Me la dà la penitenza?»
Sempre inginocchiata davanti al quadretto con San Sebastiano, ora lo fissava con sguardo da strega, mentre una mano continuava toccare lì, qui e poi qui, ma soprattutto lì, mentre l’altra si era infilata tra la fila di bottoni sul davanti della veste, per stringere un seno.
Il frate confessore si alzò in piedi. «Ora avrai quello che meriti, lurida peccatrice.»
«Sia fatta la volontà del Signore… »
Si sfilò il cingolo di corda grezza che gli cingeva il fianco e, inginocchiatosi a sua volta alle spalle della penitente, le sfilò la veste da camera lasciandola completamente nuda, fatta eccezione per le calze nere legate a metà coscia da un laccio rosso. “Rosso e nero… il colore del peccato!” pensò il frate confessore.
«Dammi le tue mani, meretrice di Babilonia.»
Juliet obbedì, porgendo le mani in modo che il frate confessore potesse legargliele dietro la schiena con il cingolo. Quando la ebbe legata ben stretta, strappandole un gemito di dolore, la spinse contro la cassapanca e si liberò del saio rilevando un poderoso batacchio. Afferrandola per le natiche, bussò con la sua natura a quella della donna, vischiosa e bollente. La penetrò d’improvviso.
«Questa è per esserti concessa a garzoni e viandanti» diceva quasi salmodiando ad ogni spinta decisa, e lei rispondeva bofonchiando dei ‘fiat voluntas tua’ resi inintelligibili dall’estasi con cui venivano ripetuti. «E questo per esserti concessa per il piacere, e questo per esserti venduta per danaro », e via dicendo. Poi si chinava e le afferrava un seno, stringendolo e pizzicando i capezzoli. «E questo per aver giaciuto con un donna, questo per averne tratto piacere, e questo per averne dato».
«Puniscimi, padre, puniscimi perché ho peccato anche contro natura.»
E la punizione non tardò ad arrivare, grossa e solenne.
«Ecco la punizione, puttana sodomita. E questo è per quello che ti hanno fatto gli spazzacamini, e questo per i viandanti a cui hai concesso il didietro per danaro. E questo per aver traviato e portato al peccato contro natura il prevosto, e questo per averne provato piacere, e questo per il meretricio.»
Il frate confessore la punì a lungo, allungandole qualche sculaccione sulle natiche, e lei riceveva tutto con dei ‘fiat’ sempre più sbiascicati.
«E ora, cagna del demonio » disse alzandosi in piedi e sollevando la penitente per i capelli. «Questo è per aver usato la bocca per peccare invece che per pregare.»
Glielo puntò alla bocca e lei la aprì facendo uscire la lingua come si fa per prendere il corpo di Cristo a messa, e lui a quel punto spruzzò dal suo aspersorio proprio lì, sulla lingua oscenamente protesa, e poi sulle guance, e sui seni.
Fatto ciò il frate confessore stramazzò sulla sedia, mentre lei si abbandonava nuovamente sulla cassapanca.
Quando si ripresero, molte ore mancavano ancora all’alba. Il frate confessore la slegò e lei lo spinse sopra al letto, dove fecero l’amore.
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– Beh? che c’è? – gli disse sorridendo.
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