Sorpresa

di
genere
dominazione

Ti avevo legato alla sedia.

Le mani strette dietro la schiena, le gambe divaricate e bloccate. Quando ti ho detto di sederti e aspettarmi, ho letto subito nei tuoi occhi quella brama silenziosa, un desiderio che non hai provato a nascondere.

Eri in pantaloncini, nudo e vulnerabile, con il caldo che ci avvolgeva. Io tornavo indossando solo una camicia di lino così leggera da lasciar trasparire i miei capezzoli tesi, le mutandine nascoste ma pronte a tradirmi. Ti sei leccato le labbra, guardandomi come se già sapessi cosa stava per accadere, ma senza aprirti del tutto.

Mi sono seduta su di te, senza dolcezza, con la voglia di dominare ogni istante. Ti ho baciato le labbra con ardore, sfiorando la pelle con desiderio palpabile. Sentivo la fame crescere dentro me, la tua eccitazione era un filo che legava i nostri corpi. Tu provavi a resistere, ma io ero più forte, più determinata.

Ti ho legato stretto, cancellando ogni tua possibilità di movimento, mentre ti accarezzavo il collo con la bocca, lasciandoti un segno indelebile. Ti ho sfiorato con la lingua, strofinandomi contro il tuo cazzo duro, godendo della tua frustrazione e della tua attesa.

Ho iniziato a muovermi su di te lentamente, quasi dolcemente, assaporando il controllo. Ti possedevo con un'intensità carnale che mi ha fatto venire in pochi attimi, stringendo forte i muscoli intorno a te, tremando sotto il piacere, mentre tu mi incitavi a non fermarmi. Ma non ti ho permesso di venire subito.

Ho rallentato, afferrandoti i capelli e baciandoti con irruenza, mordendo le tue labbra, assaporando il sapore del sangue e del desiderio. Volevo sentire tutto di te, lasciarti senza respiro. Poi ho aumentato il ritmo, decisa e violenta, prendendoti tutto con voracità.

Ho toccato le tue palle con fermezza, sentendo la tua tensione crescere al massimo. Il secondo orgasmo mi ha travolto, più potente e intenso, mentre tu ti agitavi, incatenato dalla mia presa. Ti tenevo stretto, costringendoti a respirare il mio odore, a sentire la mia presenza che dominava ogni tuo senso.

Quando ho finito, ti ho lasciato lì, legato, con il cazzo duro che spuntava dai pantaloni, i tuoi lamenti di frustrazione che ancora mi rimbombano nelle orecchie come un'eco struggente.

Dopo averti lasciato lì, legato e ansimante, ho lentamente sciolto le corde che tenevano ferme le tue mani dietro la schiena. Le tue gambe si sono chiuse piano, quasi riluttanti a lasciare quella posizione. Quando finalmente ti sei liberato, il gioco era finito.

Ti sei appoggiato allo schienale della sedia, respirando a fatica, con lo sguardo ancora perso tra desiderio e frustrazione. A quel punto hai tirato fuori i soldi con mano ancora un po' tremante, e me li hai poggiati davanti con fermezza.

Non c'era bisogno di parole, quel gesto parlava per te. Era un'offerta silenziosa, un riconoscimento del potere che avevo avuto su di te, ma anche della tua volontà di restare nel gioco, di non lasciarti andare del tutto.

Ho raccolto i soldi senza fretta, consapevole che quel gesto era molto più di una semplice transazione. Era la nostra intesa, il nostro tacito accordo su chi comanda e su chi si lascia guidare.

Quando mi sono voltata per sistemare la camicia sulle spalle, la tua voce mi ha fermata.

«Valeva ogni secondo. Anche senza... il finale.»

Mi sono girata lentamente, sorridendo appena, lasciando che il silenzio facesse da risposta. Poi hai aggiunto, quasi sottovoce, come se le parole ti fossero scappate senza volerlo:

«Hai un modo tutto tuo di lasciarmi senza scampo.»

Avrei potuto ridere, ma ho solo piegato il capo da un lato, osservandoti.

«Lo so,» ho risposto, avvicinandomi a prendere il bicchiere d'acqua sul tavolo. «Ed è questo che continui a pagare.»

Dopo che la porta si chiude, rimango sola. Nuda, ma non nel corpo — nell'anima.
Mi passo una mano sulla pelle ancora calda, il battito lento ma irregolare. Sento ogni centimetro vivo, come se l'elettricità fosse rimasta dentro, incastrata sotto pelle. Mi chiamo Luna. E a volte mi chiedo se io sia davvero quella che guida il gioco, o se sto solo recitando una parte che gli altri mi chiedono di interpretare.

Ci sono momenti in cui mi sento potente, invincibile. Altri in cui la solitudine arriva senza bussare, silenziosa ma pesante.
Non provo vergogna. Né per i soldi, né per il desiderio. Provo piuttosto una forma di malinconia. Come se stessi cercando qualcosa in ogni corpo che sfioro, qualcosa che non riesco mai ad afferrare del tutto. Ma in quei minuti, mentre comando, mentre stringo, mentre lo faccio tremare senza lasciarlo cadere — lì, esisto davvero.

Forse è questo che cerco ogni volta: sentirmi reale.
scritto il
2025-07-09
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