𝗖𝗼𝗿𝗿𝗶𝘀𝗽𝗼𝗻𝗱𝗲𝗻𝘇𝗲 𝗖𝗮𝗿𝗻𝗮𝗹𝗶 - 𝗖𝗮𝗽𝗶𝘁𝗼𝗹𝗼 𝟭𝟬 – 𝗘𝘀𝗽𝗹𝗼𝗿𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗦𝗲𝗻𝘀𝗼𝗿𝗶𝗮𝗹𝗶
di
Dago Heron
genere
dominazione
“Usatemi…” quelle parole le erano uscite dalle labbra con un tono che era una miscela tra una supplica, una preghiera e una richiesta. Si mossero lentamente, quasi tutti avessero bisogno di riprendersi ancora un po’ da quanto successo poco prima, sia fisicamente che emotivamente.
Ma in quel lento movimento, al rallentatore come dei bradipi, le due donne si ritrovarono a baciare entrambe Dago, trasformandolo in un bacio a tre, mentre le mani di entrambe scivolarono a cercare la sua carne, il suo cazzo. Nella testa di Roberta passò nitido un pensiero: “È bello toccarglielo anche quando è così, barzotto, né molle, né duro.”
“Il BDSM non è solo sesso e dolore…” La voce di Francesca tornò decisa, un filo di acciaio avvolto in velluto. “È anche disciplina, donarsi…”
La mano della donna afferrò con decisione i capelli di Roberta, spingendola giù verso il cazzo di Dago. Roberta non temeva quel gesto; amava quella carne, la desiderava come aria. Vide Francesca impugnare il membro, accarezzarlo, puntarlo verso la sua bocca. Un missile guidato verso il bersaglio. Se lo ritrovò tutto in bocca, mentre la voce che orchestrava la sua nuova coscienza aggiungeva: ” … è cedere il controllo …”
Guidata dalla mano ferma e dalla voce di Francesca che dettava ogni movimento, succhiava quella colonna di carne sentendola crescere contro il palato, contro la lingua, invadendo spazi sempre più profondi. Quando lo giudicò abbastanza duro, Francesca glielo sfilò dalla bocca, il tempo di baciarla, invaderle la bocca con la propria lingua in un assalto che non ammetteva resistenza, prima di forzarla, con violenza misurata, a ingoiare nuovamente quel cazzo, ora più duro, più grande.
La mano la spinse fino a farle premere le labbra contro l’addome di Dago.
“Desideravi appartenere, vero?” Il tono cambiò repentinamente, scavando ottave più profonde, quasi minaccioso. “Non preoccuparti, piccola. Ora appartieni a noi! Ci appartieni fino a quando lo desideriamo noi!”
Mentre le sussurrava quelle parole nelle orecchie, obbligandola a tenere la verga di Dago così profondamente come mai prima aveva fatto, Roberta fu colta da un senso di vertigini che le annebbiava la mente. Il respiro limitato, il corpo tremava in preda a convulsioni date dallo stato di sovraeccitazione. Da un lato sentiva il bisogno primordiale di respirare mentre, dal lato opposto del suo corpo, sentiva fortissimamente la necessità di essere riempita, posseduta, abitata.
Francesca la strappò via dal cazzo con un movimento secco, e la reazione istintiva di Roberta fu quella di prendere un respiro profondo, vorace, riempiendo i polmoni che quasi le bruciarono per l’improvvisa invasione d’aria. La mano di Francesca non allentò la presa dai suoi capelli, un’ancora che la teneva sospesa tra due mondi. Subito dopo il primo grande respiro arrivarono due schiaffi, non violenti, ma acuti perché inaspettati, precisamente calibrati per risvegliare nervi già ipersensibili.
“Ti piace essere il nostro giocattolo, non è vero?” La domanda fluttuò nell’aria come profumo, retorica nella sua natura, senza necessità di risposta. Per questo Francesca la spinse nuovamente giù, guidandola ad ingoiare tutta la nerchia di Dago. Roberta fece appena in tempo a vederla ricoperta della sua stessa saliva, lucida come marmo bagnato. Per qualche alchimia misteriosa del desiderio, poteva sentirlo ancora più in profondità nella gola. L’unica spiegazione possibile era che gli fosse cresciuto il cazzo in quei trenta secondi, nutrito dall’eccitazione condivisa che saturava l’aria.
Dago, in qualche modo, si stava godendo lo spettacolo. Il suo regale augello coccolato dalla bocca di Roberta guidata magistralmente da Francesca. Aveva quasi l’impressione di stare guardando un porno, dimenticandosi di esserne protagonista. Poi il suo sguardo si posò sui due sederi che le donne gli stavano offrendo, mentre l’una obbligava l’altra a fare cose.
Il pensiero fu semplice e veloce. Allungò le due mani. La sinistra in direzione di Roberta, la destra in direzione di Francesca. La sua mente, in questa prima fase, divise il suo corpo in due parti. La parte inferiore la lasciò in mano alle due donne. La parte superiore, invece, iniziò a giocare con quello che gli avevano lasciato a portata di mano. Carezze, sculacciate, piccole esplorazioni dei buchi. In un primo momento ebbe l’impressione che le due donne non reagissero minimamente al suo tocco, e questo lo fece innervosire. Una sfida. E lui alle sfide non sapeva resistere.
Nello stesso tempo, Francesca staccava e faceva prendere fiato a quel suo nuovo giocattolo. “Quanto ti piace essere la sua succhiacazzi…” La mano sinistra non perdeva mai la presa dai suoi capelli. Decisa, ma non dolorosa. L’altra invece, aveva l’abilità di dare quei tocchi particolari, come un sapiente chef.
Uno schiaffo in faccia, che lasciò un’impronta di fuoco sulla guancia. Uno sui seni, facendoli tremare. Una strofinata alla sua figa gocciolante, raccogliendo l’essenza liquida del suo desiderio. Una strizzata ai capezzoli che strappò un gemito profondo. Poi di nuovo giù, immersione, a farla sprofondare in quella nuova dimensione, in quella nuova identità che Roberta sentiva modellarsi attorno al suo essere come un guanto di seconda pelle.
Dago assestò un paio di schiaffi decisi su entrambi i sederi. La pelle si arrossò, lasciando impronte temporanee come bandiere piantate su territori conquistati. Poi due dita per mano affondarono nelle loro fighe, esplorandole con precisione. Una sensazione unica, sfuggente alle parole più precise. Da fuori tutto sembrava uguale ma, dentro, ogni donna era un universo a sé stante.
Il sesso degli uomini è lì, palesemente visibile. Dimensioni, pregi, difetti completamente esposti al giudizio del mondo. L’erezione, un complimento sincero impossibile da falsificare, la bandiera issata davanti alla bellezza.
Ma le donne, il sesso delle donne, è complesso e stratificato quanto o più delle donne stesse. Sì, è vero, anche da fuori non sono tutte uguali. Ma dentro? Le avete mai esplorate, ascoltate, conosciute in ogni dove? Ogni piega, ogni variazione di umidità, ogni sussulto involontario sotto le dita racconta storie diverse, confessioni carnali che nessuna lingua parlata può tradurre.
Così la sua dissociazione tra parte superiore e parte inferiore aumentò vertiginosamente, ricevendo impulsi e sensazioni diverse da destra e da sinistra, come un musicista che suona due strumenti con melodie contrastanti. Il suo cervello, saturo di endorfine, oscillava tra il piacere ricevuto e quello dato, creando un circuito perfetto di estasi condivisa.
Le due dita di sinistra esploravano la figa di Roberta con curiosità. Più giovane, tonica, lubrificata, bagnata. Ruotando le dita poteva sentiva le pareti lisce, fino a quando curvava le dita dietro l’osso pubico. Lì trovava quella rugosità che conosceva bene, quel punto magico che, sfiorato appena, faceva vibrare ogni fibra del corpo femminile come corde di un violino toccate dal maestro. Spingeva più a fondo, accarezzava la bocca dell’utero, un portale sacro, e la sentiva rispondere, cambiare, aprirsi al suo tocco come un fiore notturno al chiaro di luna.
Le due dita di destra vagavano in un paesaggio completamente diverso. Francesca: una donna che aveva partorito, sperimentato, vissuto ogni possibile variazione del piacere. Le sue labbra, generose, si aprivano come pagine di un libro proibito. Belle da giocarci, da pizzicare, da schiaffeggiare quando il piacere richiedeva un contrappunto di dolore.
Penetrarla era come essere risucchiati in una dimensione parallela, Non erano più le sue dita a comandare; era lei, la sua figa, a guidarlo, a sussurrargli segreti attraverso contrazioni e umori. Un territorio che sembrava conoscerlo meglio di quanto lui conoscesse se stesso. In quel mondo più vasto, più profondo, tre dita scivolarono dentro senza resistenza, accolte come vecchi amanti. Le sensazioni che gli rimandava erano incontrollabili, un flusso di piacere che risaliva lungo il braccio e gli allagava la coscienza.
Francesca fece prendere di nuovo fiato a Roberta. Una bava colava dalle sue labbra e il fallo di Dago ne era ricoperto. Mentre la mano teneva il viso di Roberta lontano, iniziò a succhiare avidamente quel cazzo, eccitata dalle dita di lui dentro la sua figa. Fece in tempo a sentirle diventare tre dita, uno spessore che iniziava a diventare interessante, mentre aveva ancora il suo membro in bocca, prima di infilarlo nuovamente nella bocca di Roberta.
Roberta si trovava immersa in una cacofonia di emozioni e sensazioni. Essere usata da Francesca per dare piacere con la bocca a Dago, mentre lui le esplorava la figa con le dita, era un modo nuovo per scoprire il piacere e non poteva negare quanto fosse intenso. La carne pulsante che invadeva la sua gola si trasformava in qualcosa d’altro: non più solo un organo maschile ma un conduttore di sensazioni che attraversavano la sua coscienza come. Sentire la mano di Francesca premerle il viso contro la pancia di Dago, con tutta la sua verga in bocca, senza poterci giocare, senza poter dare libero sfogo alla propria arte pompinara le provocava una strana rabbia eccitante. Un’ira sensuale che invece di bruciare, si scioglieva in umori caldi tra le sue cosce. In contrasto con questa sensazione c’era il sentirlo così profondamente in bocca, in gola, pulsare, vibrare, sentirlo tutto suo come mai prima. La brutalità di quella penetrazione orale forzata risvegliava in lei una un’intimità che andava oltre il sesso. Questo la faceva letteralmente colare di piacere, il suo corpo che traduceva in liquidi ciò che la mente non poteva ancora articolare in pensieri.
Mentre Francesca continuava quel gioco alternando l’ingoio di Roberta al suo succhiarlo, lui ormai aveva infilato quattro dita in entrambe le donne. Entrambe non indietreggiavano, anzi allargavano le gambe, si offrivano. Ormai era ad un livello di eccitazione fisica e mentale che aveva perso ogni forma di raziocinio; quindi, aggiungere il pollice fu un atto automatico.
La mano sinistra spingeva per entrare nella figa di Roberta. Dentro fino alle nocche, ma poi ferma lì. Sentiva con la punta delle dita il paradiso a pochi millimetri, un confine invisibile tra il conosciuto e l’inesplorato. La mano destra invece era stata completamente risucchiata dalla vagina di Francesca. Calda, umida, avvolgente, come un guanto di velluto bagnato che pulsava di vita propria. Muoveva la mano, ruotandola, esplorando con le dita, cercando di ripagare quella donna con intense sensazioni che viaggiavano dal contatto fisico fino ai recessi più profondi del piacere.
La mente di Dago bruciava per quanto fosse ad un livello di estasi che aveva l’impressione di non aver provato prima. I pensieri si dissolvevano in pura sensazione, ogni neurone sintonizzato esclusivamente sulle risposte dei corpi femminili alle sue mani. Se una delle due donne fosse venuta, era certo che avrebbe schizzato almeno quanto una fontana, incapace di contenere la pressione accumulata in ogni fibra del suo essere.
Poi improvvisamente tutto venne congelato dalla voce di Francesca. “Fermati, non ora!”
La frase tagliò l’aria come una lama, recidendo l’incantesimo in cui erano tutti immersi. Aveva sfilato Roberta dal cazzo di Dago, e si era liberata dalla sua mano con un movimento aggraziato. “Seguici e aiutami, per piacere,” aggiunse, e il contrasto era sbalorditivo: come il tono di voce di Francesca cambiasse nella frazione di un millesimo di secondo a seconda che parlasse con Roberta o con lui. Con Roberta, un comando imperioso che non contemplava il rifiuto; con Dago, un tono sottomesso, quasi un sussurro, contaminato di complicità.
Mise Roberta sotto una struttura da dove pendeva una robusta catena. I due infilarono facilmente due polsiere ai polsi di lei, con l’efficienza di chi ha ripetuto quel gesto innumerevoli volte. La sollevarono tirando le catene, lasciandola lì per qualche minuto, i piedi che toccavano appena il pavimento, appesa nuda in mezzo alla stanza.
In quella nudità offerta, in quell’esposizione totale, Roberta scoprì qualcosa di nuovo. Era come se il cedere ogni controllo avesse spalancato uno scrigno segreto dentro di lei, dove nuove sensazioni erano state nascoste per anni. Sentiva ogni millimetro di pelle vibrare di una consapevolezza nuova, come se fino a quel momento avesse indossato uno strato invisibile che le impediva di percepire veramente ciò che la circondava. Era come se l’impossibilità di movimento amplificava, espandeva i confini della sua percezione.
“Guardala,” sussurrò Francesca a Dago, mentre giravano attorno a lei come falene attratte da una fiamma troppo intensa. “Guarda come sta cambiando il suo corpo e come sta cambiando il suo sguardo.”
Roberta, anziché vergogna, provava un’ebbrezza selvaggia nel sapersi scoperta così. Come se ogni centimetro della sua pelle fosse una confessione scritta in un alfabeto che solo loro sapevano interpretare.
La lasciarono lì, sospesa in quel limbo estatico, a prendere consapevolezza di quanto stava accadendo. Poi, uno alla volta, si avvicinarono agghindandola quasi fosse un albero di Natale.
La prima mossa toccò a Dago. Decise per una cosa che poteva sembrare semplice, ma quello che provocava e stimolava era come il primo granello di una valanga. Prese la fascia nera di seta e la bendò, assicurandosi che non potesse vedere nulla.
Il buio improvviso trasformò la percezione di Roberta. Senza vista, ogni suono, odore e tocco acquisì una nuova dimensione, come gli altri sensi compensassero quella privazione diventando antenne ultrasensibili.
Francesca scelse un paio di mollette da appendere ai capezzoli, con dei piccoli pesi. Non sapere cosa stesse per succedere, sentirne solo l’effetto provocò a Roberta un nuovo cortocircuito di sensazioni ed emozioni. I seni erano ancora comodamente avvolti dalle corde e ora, quel nuovo stimolo stuzzicava diversamente i suoi seni. Lo stringere, meccanico. Il tirare del peso. Con gli occhi bendati il senso del tatto sulla sua pelle, sul suo corpo, si acuì.
Il dolore dei capezzoli stretti dalle mollette si trasformò lentamente in un piacere sottile che le fece contrarre i muscoli interni. Quel confine tra disagio e godimento diventò sempre più sfumato, indefinibile, una terra di nessuno dove stava imparando a dimorare.
Percepì il profumo di Dago dietro di lei pochi istanti prima che lui iniziasse a giocare con i suoi capelli, raccoglierli in una coda. Le sue mani sicure e forti fissarono la coda con una corda lunga. Subito dopo sentì qualcosa di metallico premere contro il suo ano, penetrarlo. Sentiva chiaramente che non era il classico plug e quando sentì che lui lo connetteva ai capelli con la corda, nella sua mente si formò l’immagine di quell’oggetto a forma di uncino che le era capitato di vedere. Dago tensionò la corda in modo che ad un certo movimento della testa corrispondesse un movimento del gancio dentro di lei.
La consapevolezza di essere così controllata, di non poter fare nemmeno il più piccolo movimento senza conseguenze, le provocò un brivido profondo che le attraversò la spina dorsale. Era intrappolata non solo dalle corde e dai vincoli fisici, ma anche dalla propria eccitazione che cresceva inaspettatamente davanti a ogni nuova restrizione. Si chiese, in un fugace momento di lucidità, se avesse sempre desiderato questa forma di abbandono senza saperlo.
I sensi completamente tesi, in ascolto, percepirono il cambio di profumo. Era il turno di quello più avvolgente di Francesca. Il fruscio, la carezza delle corde sulla sua pelle, attorno ai suoi fianchi. Le agili mani della donna le fecero una sottospecie di mutanda nella quale aveva incastrato qualcosa. Roberta sentiva solo come una sfera, abbastanza grande, premuta contro il clitoride, un pianeta alieno che gravitava attorno al centro del suo piacere.
Mentre cercava di immaginare, capire, una serie di tre intense vibrazioni le fecero capire che si trattava della famosa magic wand. Il suo corpo sussultò violentemente, come attraversato da una corrente elettrica che risvegliava muscoli dimenticati. la clitoride, intrappolata sotto quella pressione vibrante, divenne improvvisamente il centro dell’universo, un sole rovente attorno al quale ogni sensazione orbitava disperatamente.
Subito dopo la voce di Francesca le ricordò il suo ruolo in quella situazione, un velluto che nascondeva lame affilate: “Io ti prometto di non esagerare per questa volta con l’intensità…”. Una serie di scosse di varie intensità la fece sussultare, ogni vibrazione una promessa di ciò che sarebbe potuto accadere, un assaggio del paradiso o dell’inferno che l’attendeva. “Tu invece mi devi promettere di aspettare il mio permesso per poter venire!”
Il “Sì Signora…” che seguì aveva un particolare vibrato dato dal fatto che Francesca aveva acceso il vibratore alla massima potenza mentre lei parlava. Le parole si frammentarono in gemiti spezzati, sillabe disarticolate che raccontavano la verità del suo corpo meglio di qualsiasi frase coerente.
Ora aspettava Dago che ordinò alle sue spalle: “Apri bene la bocca!” Qualcosa di traverso in bocca, bloccato dietro la testa. “È un morso, come quello dei cavalli”. La mano di Dago dopo aver controllato che fosse ben fissato le accarezzò la schiena, un gesto tenero che contrastava con la brutalità dell’oggetto che le riempiva la bocca. “È in silicone, non dovrebbe darti problemi… serve solo ad impedirti di parlare…” Poteva sentire chiaramente nella sua voce il tono divertito e poteva immaginare quel suo sorriso fatto sollevando solo l’angolo destro della bocca, quel sorriso che aveva imparato a conoscere così bene nelle loro notti insieme.
Il morso le impose un nuovo silenzio, diverso da quello scelto. Le parole, impossibili da articolare, si trasformarono in pensieri sempre più primitivi, istinti puri che parlavano il linguaggio della carne. La sua mente, privata dell’uscita delle parole, iniziò a riempirsi come una diga in piena, ogni sensazione amplificata dall’impossibilità di descriverla.
Era di nuovo il turno di Francesca, che regolò la tensione delle catene, permettendole di appoggiare meglio i piedi, un atto di crudele gentilezza che le ricordava chi controllava ogni aspetto del suo comfort o disagio. Poi sentì fissare delle cavigliere, e qualcosa che obbligava Roberta ad allargare le gambe quanto lei desiderava, esponendola a qualsiasi cosa avessero in serbo per lei.
Poi di nuovo il silenzio, quasi fosse in una camera a deprivazione sensoriale. Non riusciva a capire per quanto tempo la lasciarono lì in quel modo. La pelle iniziò a formicolare in attesa, ogni poro dilatato come in cerca d’aria.
Poi arrivò, secca, decisa, la prima scudisciata sul culo. La carne si contrasse, un calore improvviso le invase la pelle lasciando un’impronta invisibile. Subito dopo un fremito, qualcosa di simile ad una scossa, ma diversa sulla pancia. I muscoli addominali si tesero involontariamente, creando onde superficiali sotto l’epidermide. Poi una frustata sui seni, seguita subito dopo da una scossa, questa volta veramente una scossa elettrica, all’interno coscia. Il muscolo si contrasse violentemente, mandando impulsi fino al centro del suo sesso.
La sequenza era stata fatta con tempismo studiato, dandole il tempo di assaporare le differenze. Poi Francesca accese la magic wand, un programma che variava continuamente intensità e durata della vibrazione. Il clitoride, imprigionato sotto quella sfera vibrante, pulsava come un secondo cuore, inviando scariche di piacere lungo tutta la sua spina dorsale. E poi ricominciò l’alternarsi tra scudisciata, frustata, scossa lieve e scossa intensa. Mai la stessa sequenza. Mai gli stessi punti. Bendata non poteva prevedere, prepararsi. Era un minestrone di emozioni e sensazioni che sobbolliva continuamente, borbottando, esattamente come quel gemito che sgorgava dalle labbra di Roberta. Era un suono che riusciva a mischiare acuti e bassi, a raccontare il dolore ed il piacere fino a quasi creare un nuovo tipo di gemito, una nuova emozione.
Improvvisamente qualcuno le sfilò la benda. Le ci volle qualche secondo per abituarsi di nuovo alla luce, anche se era soffusa. Il mondo riacquistò forma e colore gradualmente, come un dipinto che emerge da una nebbia acquosa. Appena riuscì a mettere a fuoco, vide che Francesca e Dago continuavano a ruotare attorno a lei, tenendo ciascuno due oggetti in mano. Alcuni di quegli oggetti avrebbe scoperto meglio più tardi nome e funzione.
Dago impugnava in una mano quello che a tutti gli effetti sembrava il frustino di un cavallerizzo e nell’altra qualcosa che sembrava uno stiletto, che in realtà era uno zapper, che dava delle intense scosse localizzate in un punto. La vista dell’accessorio le contrasse involontariamente i muscoli addominali, il corpo che ricordava quelle scariche prima ancora che la mente le rievocasse.
Francesca invece aveva scelto un gatto a nove code di cuoio, che maneggiava con destrezza, colpendo senza lasciare particolari segni se non il rossore e un oggetto che a Roberta sembrava avere visto dall’estetista e che rilasciava una scossa elettrostatica sulla superficie della pelle. Le lingue di cuoio danzavano nell’aria come serpenti ammaestrati, pronti a mordere la sua carne al minimo cenno della loro padrona.
Continuarono quel gioco ancora per un po’, anche se ora che poteva vedere, quasi prevedere quello che sarebbe successo era diverso. Non meno doloroso o piacevole. Diverso. Avere ottenuto di nuovo un senso importante come la vista aveva quasi abbassato la sensibilità della pelle, del suo corpo. Gli occhi rubavano energia agli altri sensi, la mente ora divisa tra l’anticipazione visiva e la ricezione tattile. La magia dell’ignoto si era dissolta, sostituita dalla tensione dell’attesa, dal vedere la mano alzarsi prima di sentire l’impatto sulla pelle. Come guardare la tempesta formarsi prima di essere colpiti dal fulmine.
Li vide allontanarsi di nuovo, complottare e concordare qualcos’altro con sguardi complici che escludevano la sua comprensione. Posarono gli oggetti usati fino a quel momento come chirurghi che cambiano strumenti a metà operazione. Francesca tornò impugnando un grosso pennarello nero, lo stappò con un gesto teatrale mentre le labbra si piegavano in un sorriso predatorio. Un fremito percorse la pelle di Roberta quando sentì la punta fredda e umida tracciare segni sulla carne, parole che non poteva leggere ma che percepiva come marchi di possesso. Sul viso, sulle cosce, sul sedere: ogni centimetro di pelle libera dalle corde diventava pergamena per quella calligrafia di dominazione.
Il telefonino di Francesca catturò quei momenti con piccoli flash che facevano battere le palpebre di Roberta. Poi le mostrò l’opera, lo schermo come uno specchio digitale che rifletteva una verità cruda e innegabile.
Roberta, per la prima volta, poté vedere parzialmente il suo stato, la sua condizione. L’immagine le provocò un tuffo al cuore e una fiammata al basso ventre. Era quasi irriconoscibile a sé stessa, come se quella metamorfosi carnale avesse cancellato la donna che era stata fino a poche ore prima. Il viso stravolto, il trucco colato in rivoli neri come lacrime di una divinità pagana. Il corpo ricoperto di segni rossi, un arcipelago di sensazioni impresse sulla pelle. E ora, quelle scritte degradanti in italiano e inglese, parole oscene che la riducevano a puro oggetto sessuale. Eppure, nel leggerle, sentì una vampata di eccitazione più forte di qualsiasi frustata.
Dago, nel frattempo, aveva rimosso la magic wand dal suo sesso pulsante con la delicatezza di chi stacca un cerotto. I muscoli del pube di Roberta si contrassero in un lamento silenzioso, privati della vibrazione che ormai era diventata una presenza costante. Sotto di lei apparve un oggetto che aveva l’aspetto di una sella di cavallo, lucida e minacciosa nella sua semplicità. Lui la sganciò dalle catene con gesti sicuri, provocando un momentaneo sollievo ai suoi polsi indolenziti. Le dita di Dago si mossero sulle braccia di Roberta, massaggiando con cura i muscoli contratti, riattivando la circolazione nelle zone arrossate dalle polsiere. Un’attenzione quasi tenera che contrastava con quanto avrebbero fatto dopo. Francesca ne approfittò per liberarla dalla barre che la obbligava a tenere le gambe aperte.
Con decisione Dago le bloccò i polsi dietro la schiena, creando un nuovo livello di impotenza che le fece arricciare le dita dei piedi. La guidò sulla sella dall’aspetto innocuo, le cosce aperte a cavalcarla mentre qualcosa di duro premeva contro la sua fessura. Le fissò le cosce con cinghie di cuoio, immobilizzandola in quella posizione offerta, ogni muscolo esposto e vulnerabile. L’unica cosa che poteva muovere adesso era il bacino, un’illusione di controllo che ben presto avrebbe scoperto essere la sua prossima tortura.
Nel frattempo, Francesca aveva posizionato davanti a lei un’ampia poltrona. Una volta che concordarono che tutto fosse pronto, la donna prese per mano Dago, facendolo accomodare sulla poltrona. La mano di Francesca gli afferrò subito il cazzo, quasi volesse assicurarsi che fosse duro quanto lei desiderava ma, mentre lo faceva, cercava gli occhi di Roberta.
Quello sguardo diceva tutto: non era un gesto di esclusione, ma un invito a partecipare attraverso la visione, a sentire vicariamente ciò che le era negato toccare. Un gioco di potere dove la vista sostituiva il tatto.
Senza perdere il contatto visivo abbassò la testa, iniziando a gustarsi le gocce di precum che, l’eccitazione provata per tutto il tempo, avevano ricoperto il glande. E dopo quel primo assaggio, ingorda, lo succhiò tutto in bocca.
Roberta non riusciva a capire se quello che provava fosse gelosia, invidia, eccitazione, rabbia o cos’altro. Sentimenti contrastanti si scontravano dentro di lei come in una pista di autoscontri. C’era qualcosa di ipnotico nel vedere quelle labbra avvolgere il cazzo che conosceva così bene, come assistere ad un’interpretazione di una canzone familiare eseguita da un altro artista.
Mentre lottava con quelle emozioni inafferrabili, il congegno sotto di lei iniziò a vibrare. Una vibrazione sorda che non le faceva vibrare solo il sesso, ma le faceva vibrare anche il cervello. Era come sentire un basso potente attraverso tutto il corpo, ogni cellula che risuonava con quella frequenza profonda. La clitoride, già sensibilizzato dagli stimoli precedenti, captava ogni minima variazione di intensità, trasformandola in pulsazioni elettriche che risalivano verso il midollo spinale.
Poi la vide scivolare sopra Dago, sempre rivolta verso di lei, quasi a creare una connessione tra donne, uno scambio di emozioni, di pensieri e di molto altro. La figura di Francesca si stagliava contro la luce come una divinità greca, pelle alabastrina attraversata da fremiti di anticipazione. Ogni suo gesto sembrava calibrato per lo sguardo di Roberta, una performance intima studiata soltanto per lei.
Francesca si impalò sul cazzo guidandolo direttamente nel suo culo con un movimento lento e deliberato, il viso che si contraeva in una smorfia di piacere mescolati in proporzioni perfette. Si aprì, si offrì allo sguardo di Roberta che, immobilizzata, con il morso che le consentiva solo di grugnire come una bestia in calore e il cavallo vibrante sotto di lei che la stava tenendo su un limite quasi irresistibile, aveva l’impressione di impazzire in quella tortura delicata e raffinata. Una parte remota del suo cervello, quella che galleggiava sopra il caos delle sensazioni crude, iniziava a rilasciare serotonina e dopamina, trasformando la sua mente in un caleidoscopio chimico dove niente aveva più forma definita.
Francesca fece comparire la magic wand, come per magia. La posizionò sul proprio sesso con la precisione chirurgica di chi conosce perfettamente il proprio corpo, e iniziò a usarla su sé stessa. Lo strumento ronzava contro la sua carne come un calabrone elettrico. Le mani di Dago, intanto, giocavano con i suoi seni, dita che affondavano nella carne morbida pizzicavano capezzoli turgidi già pronti a esplodere di sensibilità. Poi quelle stesse mani scivolarono sui suoi fianchi, la afferrarono con la brutalità contenuta di chi sa esattamente quanto può osare, e iniziarono a guidarla sempre più furiosamente su e giù, impalandola sempre più profondamente, come sapeva bene a lei piaceva. Il corpo di Francesca oscillava tra i due poli del piacere, sospeso tra cielo e terra.
Compresso tra il cazzo che la inculava ed il vibratore che iper stimolava la sua clitoride. L’orgasmo si costruì come un’onda anomala, invisibile al largo ma devastante quando raggiunge la riva. Quando finalmente esplose, fu in un intenso e multiplo squirt che schizzò attraverso la stanza, arrivando a colpire ripetutamente Roberta. Gocce calde le bagnarono il viso, il petto, come una pioggia sacra di una cerimonia proibita. Roberta si sentì vacillare, quasi oltrepassare quel limite che le era stato vietato. Il suo corpo tremava sull’orlo del precipizio, ogni muscolo teso nello sforzo sovrumano di non cedere a quella tempesta di piacere che minacciava di travolgerla.
Il cavallo fu spento. Il silenzio improvviso sembrò avvolgere la stanza. Francesca, ancora scossa da spasmi residui di piacere, ebbe bisogno di qualche minuto prima di riuscire a muoversi. Il suo corpo brillava di sudore come alabastro bagnato da pioggia notturna. Scivolando via da Dago, gli sussurrò di non muoversi, un comando morbido ma definitivo. Voleva prendersi cura lei di Roberta, come un’artista che completa la propria opera.
Per prima cosa le tolse il morso. Le labbra di Roberta, liberate da quella costrizione, tremarono leggermente, riacquistando sensibilità millimetro dopo millimetro. Francesca le baciò con passione, lingua che cercava lingua in un’intimità che aveva superato ogni convenzione. “Ti ho lasciato tutta la sborra per te…” le sussurrò, un soffio caldo contro l’orecchio che fece contorcere qualcosa nel basso ventre di Roberta. Era un messaggio chiaro di rispetto per la loro relazione, la promessa che non avrebbe mai interferito veramente tra loro due.
Le sue dita esperte sganciarono poi le mollette dai capezzoli. Un dolore acuto, quasi elettrico, attraversò i seni di Roberta mentre il sangue affluiva nuovamente nelle punte sensibili. Era quasi più doloroso quel momento di liberazione che l’intera permanenza delle mollette. Il suo corpo sussultò, ogni terminazione nervosa ora ipersensibile dopo ore di stimolazioni e privazioni.
Con metodica delicatezza, Francesca continuò il rituale di liberazione: sciolse le braccia, sganciò i capelli dalla corda e, con un movimento fluido che parlava di esperienza, sfilò l’uncino dal suo corpo. Ogni vincolo che cadeva sembrava restituire a Roberta un frammento di sé, come pezzi di un puzzle che lentamente ricreava la sua identità frantumata dal piacere. La liberò dal cavallo e, per concludere, come una carezza finale, le slegò tutte le corde che avevano fasciato il suo corpo, lasciando sulla pelle il loro marchio che raccontava la storia di quella notte.
Essere di nuovo libera, nuda, fu una sensazione stranamente perturbante. Il corpo di Roberta ricordava ancora la pressione delle corde, come un arto fantasma che duole dopo l’amputazione. La sua pelle vibrava di una nuova consapevolezza, ogni centimetro risvegliato a sensazioni che prima ignorava esistessero. Francesca la baciò di nuovo, questa volta con una tenerezza quasi materna, e la prese per mano, guidandola verso la poltrona dove Dago attendeva.
Roberta era quasi sfinita, tremante come una foglia in una tempesta autunnale, ma l’idea di essere tra le braccia di Dago accese nei suoi occhi una luce che scacciava l’ombra della stanchezza. Salì a cavalcioni sopra di lui con le ultime forze. Sentì il suo membro scivolare dentro con facilità, accogliendolo come un viaggiatore che torna a casa dopo un lungo viaggio. Anche lui era al limite, il corpo teso come la corda di un violino prima dell’ultima nota.
La baciò dolcemente, stringendola a sé con un’intimità che trascendeva il semplice contatto carnale. I loro sessi, immobili uno dentro l’altro come matriosche russe, pulsavano di un desiderio condiviso, pronto a esplodere. In quel momento di sospensione, di attesa pulsante, Roberta sentì che qualcosa in lei era cambiato definitivamente, come un fiume che trova un nuovo corso dopo una piena devastante.
Francesca comparve dietro di loro, con un nuovo accessorio: indossava uno strap on! La sagoma scura del fallo artificiale si stagliava contro la sua pelle pallida come un’arma.
Con la grazia predatoria di una pantera, si avvicinò alle due figure intrecciate. Le scivolò dentro il buco rimasto libero, un’invasione lenta e inesorabile che completava il circolo. Roberta era veramente al limite. Il gemito prolungato che le uscì dalla gola ne era la prova: un suono gutturale che, risaliva dagli abissi dell’inconscio, attraversava la carne vibrante e emergeva nell’aria come la confessione ultima della sua resa.
“Ora puoi godere, piccola troietta…” L’ordine di Francesca, sussurrato con voce roca di desiderio, cadde su Roberta come l’assoluzione dopo una lunga penitenza. Quelle parole scatenarono la belva che si contorceva sotto la pelle, liberandola dalla sua gabbia dorata.
Roberta iniziò a muoversi, furiosa, cavalcando entrambi i falli con la foga selvaggia di chi si è trattenuto troppo a lungo. Il cazzo di carne di Dago pulsava dentro la sua figa, quello di silicone di Francesca le riempiva il culo. Due presenze solide che cancellarono ogni pensiero, ogni identità, ogni cosa che non fosse pura sensazione.
Fu come l’esplosione del big bang. Il tempo si dilatava, i secondi divennero ore, le ore divennero istanti. I suoni si ovattavano, trasformandosi in una sinfonia distorta e irriconoscibile. Corpo e mente si dividevano, sparati in dimensioni diverse, lontane ed opposte. La Roberta razionale, la donna in controllo, l’executive di successo, si dissolse come cenere al vento, lasciando solo una creatura di carne e nervi che godeva senza vergogna.
Dago esplose rapidamente dentro di lei, un vulcano incapace di trattenersi oltre. Ma sepolto dal corpo delle due donne, da lì non poteva scappare. Il suo cazzo continuava a pulsare dentro Roberta, intrappolato nella morsa calda della sua vagina, costretto a sentire ogni spasmo, ogni contrazione.
L’orgasmo di Roberta fu tanto intenso che sembrava strapparle l’anima dal corpo, onde di piacere che la sommergevano come un mare in tempesta. La sua figa si contrasse violentemente attorno al cazzo di Dago, i muscoli interni che tremavano, pulsavano, succhiavano ogni goccia di sperma dalle sue palle. Quella sinfonia di carne provocò un nuovo orgasmo a Francesca, che si riversò in gemiti gutturali contro la nuca di Roberta.
Roberta era stata tenuta sul limite per così tanto tempo, così crudelmente vicina al precipizio senza poter saltare che, quando finalmente le fu permesso di farlo, perse il controllo del corpo. Non era più lei a decidere, ma una forza che la abitava, un demone di piacere ne aveva preso il controllo. Continuò a muoversi come una posseduta, avendo orgasmi multipli che si accavallavano come onde su una spiaggia, finché il suo corpo iniziò a tremare incontrollato, spasmi che parlavano di un’estasi che sfiorava la sofferenza.
Francesca, con la saggezza di chi ha visto molte volte questo abbandono totale, si staccò delicatamente dal corpo tremante di Roberta. Comparve poco dopo con una calda coperta, soffice come un abbraccio materno. Avvolse Dago e Roberta con premura, lasciandoli lì, tranquilli, a cercare di riprendersi, i corpi intrecciati in un groviglio di arti esausti.
Lei si allontanò silenziosa, aveva bisogno di bere qualcosa, di stare sola e rimettere ordine alle sue emozioni e ai suoi pensieri.
www.dagoheron.it
Ma in quel lento movimento, al rallentatore come dei bradipi, le due donne si ritrovarono a baciare entrambe Dago, trasformandolo in un bacio a tre, mentre le mani di entrambe scivolarono a cercare la sua carne, il suo cazzo. Nella testa di Roberta passò nitido un pensiero: “È bello toccarglielo anche quando è così, barzotto, né molle, né duro.”
“Il BDSM non è solo sesso e dolore…” La voce di Francesca tornò decisa, un filo di acciaio avvolto in velluto. “È anche disciplina, donarsi…”
La mano della donna afferrò con decisione i capelli di Roberta, spingendola giù verso il cazzo di Dago. Roberta non temeva quel gesto; amava quella carne, la desiderava come aria. Vide Francesca impugnare il membro, accarezzarlo, puntarlo verso la sua bocca. Un missile guidato verso il bersaglio. Se lo ritrovò tutto in bocca, mentre la voce che orchestrava la sua nuova coscienza aggiungeva: ” … è cedere il controllo …”
Guidata dalla mano ferma e dalla voce di Francesca che dettava ogni movimento, succhiava quella colonna di carne sentendola crescere contro il palato, contro la lingua, invadendo spazi sempre più profondi. Quando lo giudicò abbastanza duro, Francesca glielo sfilò dalla bocca, il tempo di baciarla, invaderle la bocca con la propria lingua in un assalto che non ammetteva resistenza, prima di forzarla, con violenza misurata, a ingoiare nuovamente quel cazzo, ora più duro, più grande.
La mano la spinse fino a farle premere le labbra contro l’addome di Dago.
“Desideravi appartenere, vero?” Il tono cambiò repentinamente, scavando ottave più profonde, quasi minaccioso. “Non preoccuparti, piccola. Ora appartieni a noi! Ci appartieni fino a quando lo desideriamo noi!”
Mentre le sussurrava quelle parole nelle orecchie, obbligandola a tenere la verga di Dago così profondamente come mai prima aveva fatto, Roberta fu colta da un senso di vertigini che le annebbiava la mente. Il respiro limitato, il corpo tremava in preda a convulsioni date dallo stato di sovraeccitazione. Da un lato sentiva il bisogno primordiale di respirare mentre, dal lato opposto del suo corpo, sentiva fortissimamente la necessità di essere riempita, posseduta, abitata.
Francesca la strappò via dal cazzo con un movimento secco, e la reazione istintiva di Roberta fu quella di prendere un respiro profondo, vorace, riempiendo i polmoni che quasi le bruciarono per l’improvvisa invasione d’aria. La mano di Francesca non allentò la presa dai suoi capelli, un’ancora che la teneva sospesa tra due mondi. Subito dopo il primo grande respiro arrivarono due schiaffi, non violenti, ma acuti perché inaspettati, precisamente calibrati per risvegliare nervi già ipersensibili.
“Ti piace essere il nostro giocattolo, non è vero?” La domanda fluttuò nell’aria come profumo, retorica nella sua natura, senza necessità di risposta. Per questo Francesca la spinse nuovamente giù, guidandola ad ingoiare tutta la nerchia di Dago. Roberta fece appena in tempo a vederla ricoperta della sua stessa saliva, lucida come marmo bagnato. Per qualche alchimia misteriosa del desiderio, poteva sentirlo ancora più in profondità nella gola. L’unica spiegazione possibile era che gli fosse cresciuto il cazzo in quei trenta secondi, nutrito dall’eccitazione condivisa che saturava l’aria.
Dago, in qualche modo, si stava godendo lo spettacolo. Il suo regale augello coccolato dalla bocca di Roberta guidata magistralmente da Francesca. Aveva quasi l’impressione di stare guardando un porno, dimenticandosi di esserne protagonista. Poi il suo sguardo si posò sui due sederi che le donne gli stavano offrendo, mentre l’una obbligava l’altra a fare cose.
Il pensiero fu semplice e veloce. Allungò le due mani. La sinistra in direzione di Roberta, la destra in direzione di Francesca. La sua mente, in questa prima fase, divise il suo corpo in due parti. La parte inferiore la lasciò in mano alle due donne. La parte superiore, invece, iniziò a giocare con quello che gli avevano lasciato a portata di mano. Carezze, sculacciate, piccole esplorazioni dei buchi. In un primo momento ebbe l’impressione che le due donne non reagissero minimamente al suo tocco, e questo lo fece innervosire. Una sfida. E lui alle sfide non sapeva resistere.
Nello stesso tempo, Francesca staccava e faceva prendere fiato a quel suo nuovo giocattolo. “Quanto ti piace essere la sua succhiacazzi…” La mano sinistra non perdeva mai la presa dai suoi capelli. Decisa, ma non dolorosa. L’altra invece, aveva l’abilità di dare quei tocchi particolari, come un sapiente chef.
Uno schiaffo in faccia, che lasciò un’impronta di fuoco sulla guancia. Uno sui seni, facendoli tremare. Una strofinata alla sua figa gocciolante, raccogliendo l’essenza liquida del suo desiderio. Una strizzata ai capezzoli che strappò un gemito profondo. Poi di nuovo giù, immersione, a farla sprofondare in quella nuova dimensione, in quella nuova identità che Roberta sentiva modellarsi attorno al suo essere come un guanto di seconda pelle.
Dago assestò un paio di schiaffi decisi su entrambi i sederi. La pelle si arrossò, lasciando impronte temporanee come bandiere piantate su territori conquistati. Poi due dita per mano affondarono nelle loro fighe, esplorandole con precisione. Una sensazione unica, sfuggente alle parole più precise. Da fuori tutto sembrava uguale ma, dentro, ogni donna era un universo a sé stante.
Il sesso degli uomini è lì, palesemente visibile. Dimensioni, pregi, difetti completamente esposti al giudizio del mondo. L’erezione, un complimento sincero impossibile da falsificare, la bandiera issata davanti alla bellezza.
Ma le donne, il sesso delle donne, è complesso e stratificato quanto o più delle donne stesse. Sì, è vero, anche da fuori non sono tutte uguali. Ma dentro? Le avete mai esplorate, ascoltate, conosciute in ogni dove? Ogni piega, ogni variazione di umidità, ogni sussulto involontario sotto le dita racconta storie diverse, confessioni carnali che nessuna lingua parlata può tradurre.
Così la sua dissociazione tra parte superiore e parte inferiore aumentò vertiginosamente, ricevendo impulsi e sensazioni diverse da destra e da sinistra, come un musicista che suona due strumenti con melodie contrastanti. Il suo cervello, saturo di endorfine, oscillava tra il piacere ricevuto e quello dato, creando un circuito perfetto di estasi condivisa.
Le due dita di sinistra esploravano la figa di Roberta con curiosità. Più giovane, tonica, lubrificata, bagnata. Ruotando le dita poteva sentiva le pareti lisce, fino a quando curvava le dita dietro l’osso pubico. Lì trovava quella rugosità che conosceva bene, quel punto magico che, sfiorato appena, faceva vibrare ogni fibra del corpo femminile come corde di un violino toccate dal maestro. Spingeva più a fondo, accarezzava la bocca dell’utero, un portale sacro, e la sentiva rispondere, cambiare, aprirsi al suo tocco come un fiore notturno al chiaro di luna.
Le due dita di destra vagavano in un paesaggio completamente diverso. Francesca: una donna che aveva partorito, sperimentato, vissuto ogni possibile variazione del piacere. Le sue labbra, generose, si aprivano come pagine di un libro proibito. Belle da giocarci, da pizzicare, da schiaffeggiare quando il piacere richiedeva un contrappunto di dolore.
Penetrarla era come essere risucchiati in una dimensione parallela, Non erano più le sue dita a comandare; era lei, la sua figa, a guidarlo, a sussurrargli segreti attraverso contrazioni e umori. Un territorio che sembrava conoscerlo meglio di quanto lui conoscesse se stesso. In quel mondo più vasto, più profondo, tre dita scivolarono dentro senza resistenza, accolte come vecchi amanti. Le sensazioni che gli rimandava erano incontrollabili, un flusso di piacere che risaliva lungo il braccio e gli allagava la coscienza.
Francesca fece prendere di nuovo fiato a Roberta. Una bava colava dalle sue labbra e il fallo di Dago ne era ricoperto. Mentre la mano teneva il viso di Roberta lontano, iniziò a succhiare avidamente quel cazzo, eccitata dalle dita di lui dentro la sua figa. Fece in tempo a sentirle diventare tre dita, uno spessore che iniziava a diventare interessante, mentre aveva ancora il suo membro in bocca, prima di infilarlo nuovamente nella bocca di Roberta.
Roberta si trovava immersa in una cacofonia di emozioni e sensazioni. Essere usata da Francesca per dare piacere con la bocca a Dago, mentre lui le esplorava la figa con le dita, era un modo nuovo per scoprire il piacere e non poteva negare quanto fosse intenso. La carne pulsante che invadeva la sua gola si trasformava in qualcosa d’altro: non più solo un organo maschile ma un conduttore di sensazioni che attraversavano la sua coscienza come. Sentire la mano di Francesca premerle il viso contro la pancia di Dago, con tutta la sua verga in bocca, senza poterci giocare, senza poter dare libero sfogo alla propria arte pompinara le provocava una strana rabbia eccitante. Un’ira sensuale che invece di bruciare, si scioglieva in umori caldi tra le sue cosce. In contrasto con questa sensazione c’era il sentirlo così profondamente in bocca, in gola, pulsare, vibrare, sentirlo tutto suo come mai prima. La brutalità di quella penetrazione orale forzata risvegliava in lei una un’intimità che andava oltre il sesso. Questo la faceva letteralmente colare di piacere, il suo corpo che traduceva in liquidi ciò che la mente non poteva ancora articolare in pensieri.
Mentre Francesca continuava quel gioco alternando l’ingoio di Roberta al suo succhiarlo, lui ormai aveva infilato quattro dita in entrambe le donne. Entrambe non indietreggiavano, anzi allargavano le gambe, si offrivano. Ormai era ad un livello di eccitazione fisica e mentale che aveva perso ogni forma di raziocinio; quindi, aggiungere il pollice fu un atto automatico.
La mano sinistra spingeva per entrare nella figa di Roberta. Dentro fino alle nocche, ma poi ferma lì. Sentiva con la punta delle dita il paradiso a pochi millimetri, un confine invisibile tra il conosciuto e l’inesplorato. La mano destra invece era stata completamente risucchiata dalla vagina di Francesca. Calda, umida, avvolgente, come un guanto di velluto bagnato che pulsava di vita propria. Muoveva la mano, ruotandola, esplorando con le dita, cercando di ripagare quella donna con intense sensazioni che viaggiavano dal contatto fisico fino ai recessi più profondi del piacere.
La mente di Dago bruciava per quanto fosse ad un livello di estasi che aveva l’impressione di non aver provato prima. I pensieri si dissolvevano in pura sensazione, ogni neurone sintonizzato esclusivamente sulle risposte dei corpi femminili alle sue mani. Se una delle due donne fosse venuta, era certo che avrebbe schizzato almeno quanto una fontana, incapace di contenere la pressione accumulata in ogni fibra del suo essere.
Poi improvvisamente tutto venne congelato dalla voce di Francesca. “Fermati, non ora!”
La frase tagliò l’aria come una lama, recidendo l’incantesimo in cui erano tutti immersi. Aveva sfilato Roberta dal cazzo di Dago, e si era liberata dalla sua mano con un movimento aggraziato. “Seguici e aiutami, per piacere,” aggiunse, e il contrasto era sbalorditivo: come il tono di voce di Francesca cambiasse nella frazione di un millesimo di secondo a seconda che parlasse con Roberta o con lui. Con Roberta, un comando imperioso che non contemplava il rifiuto; con Dago, un tono sottomesso, quasi un sussurro, contaminato di complicità.
Mise Roberta sotto una struttura da dove pendeva una robusta catena. I due infilarono facilmente due polsiere ai polsi di lei, con l’efficienza di chi ha ripetuto quel gesto innumerevoli volte. La sollevarono tirando le catene, lasciandola lì per qualche minuto, i piedi che toccavano appena il pavimento, appesa nuda in mezzo alla stanza.
In quella nudità offerta, in quell’esposizione totale, Roberta scoprì qualcosa di nuovo. Era come se il cedere ogni controllo avesse spalancato uno scrigno segreto dentro di lei, dove nuove sensazioni erano state nascoste per anni. Sentiva ogni millimetro di pelle vibrare di una consapevolezza nuova, come se fino a quel momento avesse indossato uno strato invisibile che le impediva di percepire veramente ciò che la circondava. Era come se l’impossibilità di movimento amplificava, espandeva i confini della sua percezione.
“Guardala,” sussurrò Francesca a Dago, mentre giravano attorno a lei come falene attratte da una fiamma troppo intensa. “Guarda come sta cambiando il suo corpo e come sta cambiando il suo sguardo.”
Roberta, anziché vergogna, provava un’ebbrezza selvaggia nel sapersi scoperta così. Come se ogni centimetro della sua pelle fosse una confessione scritta in un alfabeto che solo loro sapevano interpretare.
La lasciarono lì, sospesa in quel limbo estatico, a prendere consapevolezza di quanto stava accadendo. Poi, uno alla volta, si avvicinarono agghindandola quasi fosse un albero di Natale.
La prima mossa toccò a Dago. Decise per una cosa che poteva sembrare semplice, ma quello che provocava e stimolava era come il primo granello di una valanga. Prese la fascia nera di seta e la bendò, assicurandosi che non potesse vedere nulla.
Il buio improvviso trasformò la percezione di Roberta. Senza vista, ogni suono, odore e tocco acquisì una nuova dimensione, come gli altri sensi compensassero quella privazione diventando antenne ultrasensibili.
Francesca scelse un paio di mollette da appendere ai capezzoli, con dei piccoli pesi. Non sapere cosa stesse per succedere, sentirne solo l’effetto provocò a Roberta un nuovo cortocircuito di sensazioni ed emozioni. I seni erano ancora comodamente avvolti dalle corde e ora, quel nuovo stimolo stuzzicava diversamente i suoi seni. Lo stringere, meccanico. Il tirare del peso. Con gli occhi bendati il senso del tatto sulla sua pelle, sul suo corpo, si acuì.
Il dolore dei capezzoli stretti dalle mollette si trasformò lentamente in un piacere sottile che le fece contrarre i muscoli interni. Quel confine tra disagio e godimento diventò sempre più sfumato, indefinibile, una terra di nessuno dove stava imparando a dimorare.
Percepì il profumo di Dago dietro di lei pochi istanti prima che lui iniziasse a giocare con i suoi capelli, raccoglierli in una coda. Le sue mani sicure e forti fissarono la coda con una corda lunga. Subito dopo sentì qualcosa di metallico premere contro il suo ano, penetrarlo. Sentiva chiaramente che non era il classico plug e quando sentì che lui lo connetteva ai capelli con la corda, nella sua mente si formò l’immagine di quell’oggetto a forma di uncino che le era capitato di vedere. Dago tensionò la corda in modo che ad un certo movimento della testa corrispondesse un movimento del gancio dentro di lei.
La consapevolezza di essere così controllata, di non poter fare nemmeno il più piccolo movimento senza conseguenze, le provocò un brivido profondo che le attraversò la spina dorsale. Era intrappolata non solo dalle corde e dai vincoli fisici, ma anche dalla propria eccitazione che cresceva inaspettatamente davanti a ogni nuova restrizione. Si chiese, in un fugace momento di lucidità, se avesse sempre desiderato questa forma di abbandono senza saperlo.
I sensi completamente tesi, in ascolto, percepirono il cambio di profumo. Era il turno di quello più avvolgente di Francesca. Il fruscio, la carezza delle corde sulla sua pelle, attorno ai suoi fianchi. Le agili mani della donna le fecero una sottospecie di mutanda nella quale aveva incastrato qualcosa. Roberta sentiva solo come una sfera, abbastanza grande, premuta contro il clitoride, un pianeta alieno che gravitava attorno al centro del suo piacere.
Mentre cercava di immaginare, capire, una serie di tre intense vibrazioni le fecero capire che si trattava della famosa magic wand. Il suo corpo sussultò violentemente, come attraversato da una corrente elettrica che risvegliava muscoli dimenticati. la clitoride, intrappolata sotto quella pressione vibrante, divenne improvvisamente il centro dell’universo, un sole rovente attorno al quale ogni sensazione orbitava disperatamente.
Subito dopo la voce di Francesca le ricordò il suo ruolo in quella situazione, un velluto che nascondeva lame affilate: “Io ti prometto di non esagerare per questa volta con l’intensità…”. Una serie di scosse di varie intensità la fece sussultare, ogni vibrazione una promessa di ciò che sarebbe potuto accadere, un assaggio del paradiso o dell’inferno che l’attendeva. “Tu invece mi devi promettere di aspettare il mio permesso per poter venire!”
Il “Sì Signora…” che seguì aveva un particolare vibrato dato dal fatto che Francesca aveva acceso il vibratore alla massima potenza mentre lei parlava. Le parole si frammentarono in gemiti spezzati, sillabe disarticolate che raccontavano la verità del suo corpo meglio di qualsiasi frase coerente.
Ora aspettava Dago che ordinò alle sue spalle: “Apri bene la bocca!” Qualcosa di traverso in bocca, bloccato dietro la testa. “È un morso, come quello dei cavalli”. La mano di Dago dopo aver controllato che fosse ben fissato le accarezzò la schiena, un gesto tenero che contrastava con la brutalità dell’oggetto che le riempiva la bocca. “È in silicone, non dovrebbe darti problemi… serve solo ad impedirti di parlare…” Poteva sentire chiaramente nella sua voce il tono divertito e poteva immaginare quel suo sorriso fatto sollevando solo l’angolo destro della bocca, quel sorriso che aveva imparato a conoscere così bene nelle loro notti insieme.
Il morso le impose un nuovo silenzio, diverso da quello scelto. Le parole, impossibili da articolare, si trasformarono in pensieri sempre più primitivi, istinti puri che parlavano il linguaggio della carne. La sua mente, privata dell’uscita delle parole, iniziò a riempirsi come una diga in piena, ogni sensazione amplificata dall’impossibilità di descriverla.
Era di nuovo il turno di Francesca, che regolò la tensione delle catene, permettendole di appoggiare meglio i piedi, un atto di crudele gentilezza che le ricordava chi controllava ogni aspetto del suo comfort o disagio. Poi sentì fissare delle cavigliere, e qualcosa che obbligava Roberta ad allargare le gambe quanto lei desiderava, esponendola a qualsiasi cosa avessero in serbo per lei.
Poi di nuovo il silenzio, quasi fosse in una camera a deprivazione sensoriale. Non riusciva a capire per quanto tempo la lasciarono lì in quel modo. La pelle iniziò a formicolare in attesa, ogni poro dilatato come in cerca d’aria.
Poi arrivò, secca, decisa, la prima scudisciata sul culo. La carne si contrasse, un calore improvviso le invase la pelle lasciando un’impronta invisibile. Subito dopo un fremito, qualcosa di simile ad una scossa, ma diversa sulla pancia. I muscoli addominali si tesero involontariamente, creando onde superficiali sotto l’epidermide. Poi una frustata sui seni, seguita subito dopo da una scossa, questa volta veramente una scossa elettrica, all’interno coscia. Il muscolo si contrasse violentemente, mandando impulsi fino al centro del suo sesso.
La sequenza era stata fatta con tempismo studiato, dandole il tempo di assaporare le differenze. Poi Francesca accese la magic wand, un programma che variava continuamente intensità e durata della vibrazione. Il clitoride, imprigionato sotto quella sfera vibrante, pulsava come un secondo cuore, inviando scariche di piacere lungo tutta la sua spina dorsale. E poi ricominciò l’alternarsi tra scudisciata, frustata, scossa lieve e scossa intensa. Mai la stessa sequenza. Mai gli stessi punti. Bendata non poteva prevedere, prepararsi. Era un minestrone di emozioni e sensazioni che sobbolliva continuamente, borbottando, esattamente come quel gemito che sgorgava dalle labbra di Roberta. Era un suono che riusciva a mischiare acuti e bassi, a raccontare il dolore ed il piacere fino a quasi creare un nuovo tipo di gemito, una nuova emozione.
Improvvisamente qualcuno le sfilò la benda. Le ci volle qualche secondo per abituarsi di nuovo alla luce, anche se era soffusa. Il mondo riacquistò forma e colore gradualmente, come un dipinto che emerge da una nebbia acquosa. Appena riuscì a mettere a fuoco, vide che Francesca e Dago continuavano a ruotare attorno a lei, tenendo ciascuno due oggetti in mano. Alcuni di quegli oggetti avrebbe scoperto meglio più tardi nome e funzione.
Dago impugnava in una mano quello che a tutti gli effetti sembrava il frustino di un cavallerizzo e nell’altra qualcosa che sembrava uno stiletto, che in realtà era uno zapper, che dava delle intense scosse localizzate in un punto. La vista dell’accessorio le contrasse involontariamente i muscoli addominali, il corpo che ricordava quelle scariche prima ancora che la mente le rievocasse.
Francesca invece aveva scelto un gatto a nove code di cuoio, che maneggiava con destrezza, colpendo senza lasciare particolari segni se non il rossore e un oggetto che a Roberta sembrava avere visto dall’estetista e che rilasciava una scossa elettrostatica sulla superficie della pelle. Le lingue di cuoio danzavano nell’aria come serpenti ammaestrati, pronti a mordere la sua carne al minimo cenno della loro padrona.
Continuarono quel gioco ancora per un po’, anche se ora che poteva vedere, quasi prevedere quello che sarebbe successo era diverso. Non meno doloroso o piacevole. Diverso. Avere ottenuto di nuovo un senso importante come la vista aveva quasi abbassato la sensibilità della pelle, del suo corpo. Gli occhi rubavano energia agli altri sensi, la mente ora divisa tra l’anticipazione visiva e la ricezione tattile. La magia dell’ignoto si era dissolta, sostituita dalla tensione dell’attesa, dal vedere la mano alzarsi prima di sentire l’impatto sulla pelle. Come guardare la tempesta formarsi prima di essere colpiti dal fulmine.
Li vide allontanarsi di nuovo, complottare e concordare qualcos’altro con sguardi complici che escludevano la sua comprensione. Posarono gli oggetti usati fino a quel momento come chirurghi che cambiano strumenti a metà operazione. Francesca tornò impugnando un grosso pennarello nero, lo stappò con un gesto teatrale mentre le labbra si piegavano in un sorriso predatorio. Un fremito percorse la pelle di Roberta quando sentì la punta fredda e umida tracciare segni sulla carne, parole che non poteva leggere ma che percepiva come marchi di possesso. Sul viso, sulle cosce, sul sedere: ogni centimetro di pelle libera dalle corde diventava pergamena per quella calligrafia di dominazione.
Il telefonino di Francesca catturò quei momenti con piccoli flash che facevano battere le palpebre di Roberta. Poi le mostrò l’opera, lo schermo come uno specchio digitale che rifletteva una verità cruda e innegabile.
Roberta, per la prima volta, poté vedere parzialmente il suo stato, la sua condizione. L’immagine le provocò un tuffo al cuore e una fiammata al basso ventre. Era quasi irriconoscibile a sé stessa, come se quella metamorfosi carnale avesse cancellato la donna che era stata fino a poche ore prima. Il viso stravolto, il trucco colato in rivoli neri come lacrime di una divinità pagana. Il corpo ricoperto di segni rossi, un arcipelago di sensazioni impresse sulla pelle. E ora, quelle scritte degradanti in italiano e inglese, parole oscene che la riducevano a puro oggetto sessuale. Eppure, nel leggerle, sentì una vampata di eccitazione più forte di qualsiasi frustata.
Dago, nel frattempo, aveva rimosso la magic wand dal suo sesso pulsante con la delicatezza di chi stacca un cerotto. I muscoli del pube di Roberta si contrassero in un lamento silenzioso, privati della vibrazione che ormai era diventata una presenza costante. Sotto di lei apparve un oggetto che aveva l’aspetto di una sella di cavallo, lucida e minacciosa nella sua semplicità. Lui la sganciò dalle catene con gesti sicuri, provocando un momentaneo sollievo ai suoi polsi indolenziti. Le dita di Dago si mossero sulle braccia di Roberta, massaggiando con cura i muscoli contratti, riattivando la circolazione nelle zone arrossate dalle polsiere. Un’attenzione quasi tenera che contrastava con quanto avrebbero fatto dopo. Francesca ne approfittò per liberarla dalla barre che la obbligava a tenere le gambe aperte.
Con decisione Dago le bloccò i polsi dietro la schiena, creando un nuovo livello di impotenza che le fece arricciare le dita dei piedi. La guidò sulla sella dall’aspetto innocuo, le cosce aperte a cavalcarla mentre qualcosa di duro premeva contro la sua fessura. Le fissò le cosce con cinghie di cuoio, immobilizzandola in quella posizione offerta, ogni muscolo esposto e vulnerabile. L’unica cosa che poteva muovere adesso era il bacino, un’illusione di controllo che ben presto avrebbe scoperto essere la sua prossima tortura.
Nel frattempo, Francesca aveva posizionato davanti a lei un’ampia poltrona. Una volta che concordarono che tutto fosse pronto, la donna prese per mano Dago, facendolo accomodare sulla poltrona. La mano di Francesca gli afferrò subito il cazzo, quasi volesse assicurarsi che fosse duro quanto lei desiderava ma, mentre lo faceva, cercava gli occhi di Roberta.
Quello sguardo diceva tutto: non era un gesto di esclusione, ma un invito a partecipare attraverso la visione, a sentire vicariamente ciò che le era negato toccare. Un gioco di potere dove la vista sostituiva il tatto.
Senza perdere il contatto visivo abbassò la testa, iniziando a gustarsi le gocce di precum che, l’eccitazione provata per tutto il tempo, avevano ricoperto il glande. E dopo quel primo assaggio, ingorda, lo succhiò tutto in bocca.
Roberta non riusciva a capire se quello che provava fosse gelosia, invidia, eccitazione, rabbia o cos’altro. Sentimenti contrastanti si scontravano dentro di lei come in una pista di autoscontri. C’era qualcosa di ipnotico nel vedere quelle labbra avvolgere il cazzo che conosceva così bene, come assistere ad un’interpretazione di una canzone familiare eseguita da un altro artista.
Mentre lottava con quelle emozioni inafferrabili, il congegno sotto di lei iniziò a vibrare. Una vibrazione sorda che non le faceva vibrare solo il sesso, ma le faceva vibrare anche il cervello. Era come sentire un basso potente attraverso tutto il corpo, ogni cellula che risuonava con quella frequenza profonda. La clitoride, già sensibilizzato dagli stimoli precedenti, captava ogni minima variazione di intensità, trasformandola in pulsazioni elettriche che risalivano verso il midollo spinale.
Poi la vide scivolare sopra Dago, sempre rivolta verso di lei, quasi a creare una connessione tra donne, uno scambio di emozioni, di pensieri e di molto altro. La figura di Francesca si stagliava contro la luce come una divinità greca, pelle alabastrina attraversata da fremiti di anticipazione. Ogni suo gesto sembrava calibrato per lo sguardo di Roberta, una performance intima studiata soltanto per lei.
Francesca si impalò sul cazzo guidandolo direttamente nel suo culo con un movimento lento e deliberato, il viso che si contraeva in una smorfia di piacere mescolati in proporzioni perfette. Si aprì, si offrì allo sguardo di Roberta che, immobilizzata, con il morso che le consentiva solo di grugnire come una bestia in calore e il cavallo vibrante sotto di lei che la stava tenendo su un limite quasi irresistibile, aveva l’impressione di impazzire in quella tortura delicata e raffinata. Una parte remota del suo cervello, quella che galleggiava sopra il caos delle sensazioni crude, iniziava a rilasciare serotonina e dopamina, trasformando la sua mente in un caleidoscopio chimico dove niente aveva più forma definita.
Francesca fece comparire la magic wand, come per magia. La posizionò sul proprio sesso con la precisione chirurgica di chi conosce perfettamente il proprio corpo, e iniziò a usarla su sé stessa. Lo strumento ronzava contro la sua carne come un calabrone elettrico. Le mani di Dago, intanto, giocavano con i suoi seni, dita che affondavano nella carne morbida pizzicavano capezzoli turgidi già pronti a esplodere di sensibilità. Poi quelle stesse mani scivolarono sui suoi fianchi, la afferrarono con la brutalità contenuta di chi sa esattamente quanto può osare, e iniziarono a guidarla sempre più furiosamente su e giù, impalandola sempre più profondamente, come sapeva bene a lei piaceva. Il corpo di Francesca oscillava tra i due poli del piacere, sospeso tra cielo e terra.
Compresso tra il cazzo che la inculava ed il vibratore che iper stimolava la sua clitoride. L’orgasmo si costruì come un’onda anomala, invisibile al largo ma devastante quando raggiunge la riva. Quando finalmente esplose, fu in un intenso e multiplo squirt che schizzò attraverso la stanza, arrivando a colpire ripetutamente Roberta. Gocce calde le bagnarono il viso, il petto, come una pioggia sacra di una cerimonia proibita. Roberta si sentì vacillare, quasi oltrepassare quel limite che le era stato vietato. Il suo corpo tremava sull’orlo del precipizio, ogni muscolo teso nello sforzo sovrumano di non cedere a quella tempesta di piacere che minacciava di travolgerla.
Il cavallo fu spento. Il silenzio improvviso sembrò avvolgere la stanza. Francesca, ancora scossa da spasmi residui di piacere, ebbe bisogno di qualche minuto prima di riuscire a muoversi. Il suo corpo brillava di sudore come alabastro bagnato da pioggia notturna. Scivolando via da Dago, gli sussurrò di non muoversi, un comando morbido ma definitivo. Voleva prendersi cura lei di Roberta, come un’artista che completa la propria opera.
Per prima cosa le tolse il morso. Le labbra di Roberta, liberate da quella costrizione, tremarono leggermente, riacquistando sensibilità millimetro dopo millimetro. Francesca le baciò con passione, lingua che cercava lingua in un’intimità che aveva superato ogni convenzione. “Ti ho lasciato tutta la sborra per te…” le sussurrò, un soffio caldo contro l’orecchio che fece contorcere qualcosa nel basso ventre di Roberta. Era un messaggio chiaro di rispetto per la loro relazione, la promessa che non avrebbe mai interferito veramente tra loro due.
Le sue dita esperte sganciarono poi le mollette dai capezzoli. Un dolore acuto, quasi elettrico, attraversò i seni di Roberta mentre il sangue affluiva nuovamente nelle punte sensibili. Era quasi più doloroso quel momento di liberazione che l’intera permanenza delle mollette. Il suo corpo sussultò, ogni terminazione nervosa ora ipersensibile dopo ore di stimolazioni e privazioni.
Con metodica delicatezza, Francesca continuò il rituale di liberazione: sciolse le braccia, sganciò i capelli dalla corda e, con un movimento fluido che parlava di esperienza, sfilò l’uncino dal suo corpo. Ogni vincolo che cadeva sembrava restituire a Roberta un frammento di sé, come pezzi di un puzzle che lentamente ricreava la sua identità frantumata dal piacere. La liberò dal cavallo e, per concludere, come una carezza finale, le slegò tutte le corde che avevano fasciato il suo corpo, lasciando sulla pelle il loro marchio che raccontava la storia di quella notte.
Essere di nuovo libera, nuda, fu una sensazione stranamente perturbante. Il corpo di Roberta ricordava ancora la pressione delle corde, come un arto fantasma che duole dopo l’amputazione. La sua pelle vibrava di una nuova consapevolezza, ogni centimetro risvegliato a sensazioni che prima ignorava esistessero. Francesca la baciò di nuovo, questa volta con una tenerezza quasi materna, e la prese per mano, guidandola verso la poltrona dove Dago attendeva.
Roberta era quasi sfinita, tremante come una foglia in una tempesta autunnale, ma l’idea di essere tra le braccia di Dago accese nei suoi occhi una luce che scacciava l’ombra della stanchezza. Salì a cavalcioni sopra di lui con le ultime forze. Sentì il suo membro scivolare dentro con facilità, accogliendolo come un viaggiatore che torna a casa dopo un lungo viaggio. Anche lui era al limite, il corpo teso come la corda di un violino prima dell’ultima nota.
La baciò dolcemente, stringendola a sé con un’intimità che trascendeva il semplice contatto carnale. I loro sessi, immobili uno dentro l’altro come matriosche russe, pulsavano di un desiderio condiviso, pronto a esplodere. In quel momento di sospensione, di attesa pulsante, Roberta sentì che qualcosa in lei era cambiato definitivamente, come un fiume che trova un nuovo corso dopo una piena devastante.
Francesca comparve dietro di loro, con un nuovo accessorio: indossava uno strap on! La sagoma scura del fallo artificiale si stagliava contro la sua pelle pallida come un’arma.
Con la grazia predatoria di una pantera, si avvicinò alle due figure intrecciate. Le scivolò dentro il buco rimasto libero, un’invasione lenta e inesorabile che completava il circolo. Roberta era veramente al limite. Il gemito prolungato che le uscì dalla gola ne era la prova: un suono gutturale che, risaliva dagli abissi dell’inconscio, attraversava la carne vibrante e emergeva nell’aria come la confessione ultima della sua resa.
“Ora puoi godere, piccola troietta…” L’ordine di Francesca, sussurrato con voce roca di desiderio, cadde su Roberta come l’assoluzione dopo una lunga penitenza. Quelle parole scatenarono la belva che si contorceva sotto la pelle, liberandola dalla sua gabbia dorata.
Roberta iniziò a muoversi, furiosa, cavalcando entrambi i falli con la foga selvaggia di chi si è trattenuto troppo a lungo. Il cazzo di carne di Dago pulsava dentro la sua figa, quello di silicone di Francesca le riempiva il culo. Due presenze solide che cancellarono ogni pensiero, ogni identità, ogni cosa che non fosse pura sensazione.
Fu come l’esplosione del big bang. Il tempo si dilatava, i secondi divennero ore, le ore divennero istanti. I suoni si ovattavano, trasformandosi in una sinfonia distorta e irriconoscibile. Corpo e mente si dividevano, sparati in dimensioni diverse, lontane ed opposte. La Roberta razionale, la donna in controllo, l’executive di successo, si dissolse come cenere al vento, lasciando solo una creatura di carne e nervi che godeva senza vergogna.
Dago esplose rapidamente dentro di lei, un vulcano incapace di trattenersi oltre. Ma sepolto dal corpo delle due donne, da lì non poteva scappare. Il suo cazzo continuava a pulsare dentro Roberta, intrappolato nella morsa calda della sua vagina, costretto a sentire ogni spasmo, ogni contrazione.
L’orgasmo di Roberta fu tanto intenso che sembrava strapparle l’anima dal corpo, onde di piacere che la sommergevano come un mare in tempesta. La sua figa si contrasse violentemente attorno al cazzo di Dago, i muscoli interni che tremavano, pulsavano, succhiavano ogni goccia di sperma dalle sue palle. Quella sinfonia di carne provocò un nuovo orgasmo a Francesca, che si riversò in gemiti gutturali contro la nuca di Roberta.
Roberta era stata tenuta sul limite per così tanto tempo, così crudelmente vicina al precipizio senza poter saltare che, quando finalmente le fu permesso di farlo, perse il controllo del corpo. Non era più lei a decidere, ma una forza che la abitava, un demone di piacere ne aveva preso il controllo. Continuò a muoversi come una posseduta, avendo orgasmi multipli che si accavallavano come onde su una spiaggia, finché il suo corpo iniziò a tremare incontrollato, spasmi che parlavano di un’estasi che sfiorava la sofferenza.
Francesca, con la saggezza di chi ha visto molte volte questo abbandono totale, si staccò delicatamente dal corpo tremante di Roberta. Comparve poco dopo con una calda coperta, soffice come un abbraccio materno. Avvolse Dago e Roberta con premura, lasciandoli lì, tranquilli, a cercare di riprendersi, i corpi intrecciati in un groviglio di arti esausti.
Lei si allontanò silenziosa, aveva bisogno di bere qualcosa, di stare sola e rimettere ordine alle sue emozioni e ai suoi pensieri.
www.dagoheron.it
3
voti
voti
valutazione
5.7
5.7
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Corrispondenze Carnali - Capitolo 9 – Geometrie Carnali
Commenti dei lettori al racconto erotico