Il Gusto della Resa - Capitolo 3 – Metamorfosi notturna

di
genere
dominazione

Dago le concesse solo pochi istanti di tregua – il tempo di un respiro, di un battito – prima di guidarla dolcemente ma fermamente in ginocchio. Il corpo di Ashley rispondeva con un’acquiescenza che la sorprendeva, come se avesse sempre conosciuto questa danza e stesse solo ricordando i passi. Sentì la mano afferrarle i capelli e il cazzo ancora sporco premerle contro le labbra. “Ripuliscilo per bene,” ordinò lui, la voce deliberatamente piatta, un comando che non ammetteva discussioni.

Il cazzo semi duro le riempì la bocca senza cerimonie. Il sapore era grezzo, primordiale – sborra, figa, culo, l’essenza dei loro corpi mescolata. La mano tra i suoi capelli dettava il ritmo, spingendola a prenderlo fino in gola, quella verga calda che a ogni affondo sembrava riprendere vigore. Ashley sentiva la sua figa colare incontrollata, il suo muco caldo che le scivolava lungo le cosce fino a formare una pozza sul pavimento. Lo guardava dal basso, la bocca piena del suo cazzo, gli occhi carichi di quella strana devozione che nasce solo nella sottomissione più profonda.

Il momento si cristallizzò con la precisione di un bisturi quando lui si sfilò dalla sua bocca, ricomponendosi con una calma studiata che la fece tremare più di qualsiasi violenza. Il cazzo ancora eretto scomparve dietro la zip dei pantaloni con un gesto quasi clinico. “Non ti muovere,” ordinò, la voce bassa ma penetrante come fumo, lasciandola a quattro zampe in un limbo di attesa e desiderio.

I suoi passi si allontanarono, ogni secondo che passava una goccia di mercurio sulla sua pelle nuda. Il tintinnio metallico che annunciò il suo ritorno le provocò una contrazione involontaria del basso ventre, un riflesso pavloviano di anticipazione. Le dita di lui le sfiorarono il collo – un collare, realizzò con un sussulto interiore che le liquefece le viscere. Lo sentì allacciarlo con una sicurezza che parlava di premeditazione, ogni click della fibbia una piccola morte della sua vecchia identità. Quel semplice gesto aprì crepe profonde nella sua coscienza, fessure attraverso cui colava la sua essenza più segreta.

Qualcosa le sfiorò i capelli – un cerchietto, comprese confusamente, il suo significato ancora velato. Ma quando sentì la pressione contro il suo ano, ogni ambiguità svanì. Il plug era più grande di quello che aveva indossato lei, una presenza impossibile da ignorare. Dago lo lavorò dentro di lei con una pazienza metodica, trovandola così eccitata che il suo corpo si aprì come un fiore notturno. Una volta inserito, il peso e le dimensioni la riempirono completamente, rendendola costantemente consapevole della sua presenza, della sua sottomissione.

Una sensazione inaspettata le solleticò le cosce – qualcosa di morbido e setoso che la accarezzava a ogni minimo movimento. Le mani di Dago manipolarono quest’appendice misteriosa mentre le introduceva qualcos’altro nella figa, un’operazione quasi banale data la sua eccitazione costante. Dal momento in cui era era entrata in quella casa, il suo corpo aveva prodotto un flusso ininterrotto di umori, mantenendola perpetuamente aperta e pronta, come se ogni sua cellula avesse compreso e accettato il suo nuovo ruolo prima ancora della sua mente.

L’ultimo pezzo del puzzle cadde al suo posto quando lui agganciò un guinzaglio metallico al suo collare. “Fino a nuovo ordine, camminerai a quattro zampe. Sarai la mia cagna in calore.” La sua voce manteneva quella calma ipnotica che bypassava ogni possibilità di resistenza, scivolando direttamente nel suo subconscio come inchiostro nell’acqua.

La condusse davanti a uno specchio alto, e l’immagine che vi trovò la scosse fin nel profondo. Il cerchietto si rivelò essere un paio di orecchie, un dettaglio che in un altro contesto sarebbe potuto sembrare ridicolo, ma che ora completava la sua metamorfosi. Il collare nero con le borchie le cingeva il collo come una corona perversa. Le sue tette pendevano pesanti, i capezzoli gonfi e turgidi come non li aveva mai visti, un’offerta perpetua al piacere. Si voltò lentamente, ipnotizzata dalla propria trasformazione, e scoprì la coda – vaporosa e elegante come quella di una volpe – che emergeva dal suo culo. Un movimento istintivo la fece scodinzolare, rivelando un dettaglio finale: un’antenna rosa che spuntava dalle sue labbra bagnate.

Stava per formulare una domanda quando Dago, con la nonchalance di un direttore d’orchestra, attivò qualcosa sul suo telefono. La vibrazione esplose dentro di lei senza preavviso, strappandole un urlo che era metà sorpresa e metà estasi pura. Il suo corpo si contorse sotto quell’assalto inaspettato di piacere, ogni terminazione nervosa improvvisamente accesa e pulsante.

“Ora andiamo a mangiare,” annunciò lui con quella stessa voce imperturbabile, come se non stesse orchestrando la più intima delle sinfonie dentro di lei. “E tu sarai trattata come merita il tuo stato attuale.”

In quelle parole, Ashley sentì risuonare tutto il peso della sua nuova realtà. Non era più solo un gioco, una fantasia sussurrata in chat nel buio della notte. Era diventata la materializzazione vivente dei suoi desideri più profondi, e questa consapevolezza la eccitava più di qualsiasi stimolazione fisica.

La condusse in cucina con una pazienza studiata, concedendole il tempo di adattarsi al nuovo modo di muoversi – ogni passo un piccolo esercizio di umiltà, ogni movimento una lezione nella sua nuova realtà. “Cuccia qui,” mormorò, posizionandola vicino al tavolo prima di allontanarsi verso il frigorifero. L’aveva lasciata girata, negandole la vista, costringendola a esistere solo attraverso i suoni: il tintinnio di oggetti sul tavolo, il suono inconfondibile di una bottiglia posata sul legno.

La sete le graffiò la gola, un bisogno primordiale che la spinse a parlare. La risposta fu il suono metallico di una ciotola posata sul pavimento, l’acqua che catturava la luce. “Bevi pure,” disse lui, la voce un velluto che nascondeva acciaio.

Per un momento, rimase paralizzata dal conflitto tra il suo bisogno e la sua dignità residua. Le sue mani si mossero d’istinto verso la ciotola – un ultimo, futile tentativo di mantenere un brandello della sua umanità quotidiana. Il cucchiaio di legno si abbatté secco sulla sua natica, un fulmine di dolore che le strappò lacrime involontarie.

“Sei una cagna,” la sua voce era implacabile come la verità stessa. “Berrai come una cagna, mangerai come una cagna, dormirai come una cagna.” Una seconda cucchiaiata sottolineò ogni parola, marchiando l’altra natica, le lacrime ora pericolosamente vicine a traboccare. “Tutto chiaro?”

Non osò rispondere a voce. Un cenno del capo – l’ultimo gesto della Ashley che era stata – e poi si chinò sulla ciotola, la lingua che cercava l’acqua in un gesto che era sia resa che rinascita. Il suono di altri oggetti sul tavolo, una seconda ciotola accanto alla prima, il fruscio di vestiti mentre lui si liberava di scarpe e calze. Uno strattone deciso al guinzaglio la guidò sotto il tavolo, ai suoi piedi, nel suo nuovo posto nel mondo.

Erano trascorse appena due ore – un battito di ciglia nell’eternità del tempo – eppure l’esperienza l’aveva attraversata come un sussurro trasformativo, scavando gallerie nei recessi più profondi del suo essere. Non era solo il corpo ad essere stato penetrato, ma l’architettura segreta dei suoi desideri, quella mappa nascosta dell’anima dove vivono le nostre verità più indicibili.

La perdita del controllo – no, la sua cessione deliberata – aveva ridisegnato il suo mondo interiore con una precisione che le sue fantasie non avevano mai osato immaginare. Il divario tra sogno e realtà si era rivelato un abisso di proporzioni vertiginose, creando un tumulto continuo di sensazioni mai contemplate.

Non era stato semplicemente sesso. Era stata una riscrittura completa del suo essere, ogni tocco di Dago un nuovo carattere in questo alfabeto del desiderio che stava imparando a leggere. Le sue mani avevano tracciato sentieri sulla geografia del suo corpo che lei non sapeva esistessero, aprendo territori inesplorati della sua sensualità.

E quelle mani le sentiva ancora. Non sulla pelle – quella sensazione sarebbe stata troppo superficiale, troppo banale. Le sentiva negli spazi psicologici dove il desiderio prende forma prima di manifestarsi, in quella terra di nessuno tra pensiero e azione dove nascono le nostre voglie più profonde. Era lì che Dago aveva lasciato la sua impronta più indelebile, ridefinendo non solo ciò che il suo corpo poteva provare, ma ciò che la sua mente poteva concepire.

Il suono dei suoi pensieri venne interrotto dal tintinnio di posate contro porcellana. Dago mangiava il suo arrosto con una calma studiata, sorseggiando vino da un calice che catturava la luce, come se la sua presenza ai suoi piedi fosse la cosa più naturale del mondo. Un rumore metallico attirò la sua attenzione – un pezzo di carne nella sua ciotola, un’offerta che rappresentava l’ultimo gradino della sua discesa. Si avvicinò con cautela, combattendo l’istinto di usare le mani, sentendo ogni muscolo del suo viso contrarsi mentre abbassava la testa per afferrare il cibo con la bocca. L’umiliazione bruciava calda quanto l’eccitazione che le bagnava le cosce.

Il boccone successivo arrivò direttamente dalle sue dita – un gesto che mescolava intimità e degradazione in un cocktail inebriante. Ashley lo prese con delicatezza calcolata, attenta a non sfiorare quella pelle che ora sembrava emanare un potere magnetico. Ma al boccone seguente, qualcosa si spezzò dentro di lei. Si ritrovò a baciare quelle dita con una devozione che la spaventò e eccitò in egual misura, e prima che potesse razionalizzare le sue azioni, il suo viso – no, il suo muso, si corresse mentalmente – era premuto contro i suoi piedi. La sua lingua si mosse d’istinto, tracciando percorsi di adorazione sulla sua pelle. Le sue anche si muovevano involontariamente a ogni passaggio della lingua, facendo ondeggiare la coda in un ritmo ipnotico, mentre ogni leccata diventava una confessione di sottomissione che le faceva pulsare il sesso. Era come se il suo corpo avesse sviluppato un proprio linguaggio di devozione, ogni movimento un’offerta di sé stessa.

Le permise questa forma di adorazione per quello che sembrò un’eternità compressa in pochi minuti. Poi il suono della zip che si abbassava risuonò come un tuono nel silenzio della cucina, e tirando il guinzaglio la guidò verso il suo cazzo con la stessa inevitabilità della marea che segue la luna. Lo accolse nella bocca con un’avidità che la sorprese – lei, Ashley, la professionista rispettata, ora in ginocchio sotto un tavolo, che succhiava il cazzo di un uomo come se ne dipendesse la sua esistenza. Iniziò a muovere la lingua con l’abilità che aveva perfezionato anni prima, un talento che era stato fonte di orgoglio adolescenziale. Ma il suo comando la gelò: “Lo devi tenere solo in bocca, tutto in bocca!” I suoi occhi si spalancarono in protesta muta, la bocca troppo piena per obiettare. Era una tortura raffinata – sentire la sua carne pulsare contro la lingua e dover resistere all’impulso di dargli piacere, di dimostrare la sua bravura. Lo sentì indurirsi ulteriormente, crescere nella sua bocca, e questa sensazione di essere usata come un semplice contenitore di carne calda le provocò un’ondata di umori tra le cosce che la fece tremare.

In quel momento, come orchestrato da un dio sadico, l’uovo vibrante nella sua figa si risvegliò alla vita. Gli impulsi iniziarono forti e brevi, come scosse elettriche di piacere, per poi evolversi in sequenze sempre diverse, una sinfonia di vibrazioni che riverberavano attraverso il plug nel suo culo. La combinazione di sensazioni – il suo status degradato di cagna ai piedi del padrone, il cazzo che le riempiva la bocca senza permetterle di dimostrare la sua abilità, le vibrazioni che la torturavano senza pietà – la trasportò in uno stato alterato di coscienza. I suoi mugolii, più animali che umani, erano il lamento di una creatura intrappolata tra un piacere insopportabile e un orgasmo proibito. La realtà iniziò a sfumare ai bordi, come un acquerello sotto la pioggia. Si sentiva dissolversi, trascendere i confini del suo stesso corpo, entrando in uno spazio mentale dove non esistevano più pensieri ma solo pure sensazioni. Il suo essere si ridusse a un nucleo di desiderio liquido che colava sul pavimento in una pozza sempre più ampia, mentre la sua coscienza fluttuava in uno stato alterato dove tempo e identità perdevano significato. Era come se avesse varcato una soglia invisibile, entrando in una dimensione dove esisteva solo come ricettacolo di piacere, come conduttore di sensazioni pure. Il mondo esterno – la cucina, il tavolo, persino la sua identità quotidiana – si dissolse in un vortice di sensazioni primitive, finché, con una sincronizzazione quasi mistica, lui si ritirò dalla sua bocca e l’uovo si spense. Il ritorno improvviso alla realtà la lasciò tremante e vuota, il suo corpo e la sua mente implorando silenziosamente di essere trascinati di nuovo in quello stato di estasi trascendente.

Si ritrovò a emergere da sotto il tavolo con la grazia incerta di una creatura appena nata in questo nuovo mondo. “Devo fare la pipì,” sussurrò, la voce fragile come cristallo sottile, timorosa di spezzare quell’atmosfera rarefatta in cui fluttuava ancora la sua coscienza. Dago la studiò per qualche istante, i suoi occhi che brillavano di un’intelligenza predatoria che le fece contrarre il basso ventre.

La sua mente, ancora aggrappata ai brandelli della sua vita precedente, si aspettava di essere accompagnata in bagno, di recuperare almeno in questo gesto un briciolo della sua umanità. Invece, il guinzaglio la guidò verso una porta della cucina che si apriva sul giardino notturno. L’aria fresca le accarezzò la pelle nuda come un amante indiscreto, facendola rabbrividire di vulnerabilità.

“Su da brava… falla…” La voce di Dago era morbida ma implacabile come velluto d’acciaio.

Ashley alzò lo sguardo verso di lui, gli occhi colmi di una supplica muta. Si sentiva paralizzata tra due realtà: il bisogno primordiale del suo corpo e il muro di condizionamenti sociali che ancora resisteva nella sua mente. La necessità di liberarsi lottava contro l’umiliazione di dover esporre questa sua intimità sotto il cielo aperto, sotto il suo sguardo penetrante.

“Il massimo che ti concedo,” continuò lui, la voce che assumeva sfumature più scure, “è di accucciarti come se fossi su una turca. Ma se vuoi pisciare” – una pausa carica di elettricità – “pisci qui, adesso…”

La minaccia velata in quelle ultime parole fu la chiave che aprì l’ultima porta della sua resistenza. Si accucciò, le guance che bruciavano di vergogna mentre il suo corpo si arrendeva alla necessità. Il suono del suo getto contro l’erba sembrava assordante nel silenzio del giardino, ma ciò che la sconvolse fu lo sguardo di Dago – un mix di piacere sadico e tenerezza possessiva che la fece sentire simultaneamente degradata e preziosa.

Mentre il suo corpo si liberava, qualcosa si liberò anche nella sua mente – un’accettazione più profonda del suo nuovo ruolo, come se questo atto così primordiale fosse un rituale di iniziazione. Osservò una goccia di rugiada brillare su un filo d’erba accanto a lei, e in quel minuscolo specchio d’acqua vide riflessa una verità che la fece tremare: stava trovando libertà nella sua sottomissione, pace nella sua degradazione.

Non soddisfatto di questa prima umiliazione trasformativa, Dago la guidò in una passeggiata per il giardino. Ma ciò che era iniziato come un’ulteriore mortificazione – essere nuda, con un plug a forma di coda che sporgeva dal suo culo, condotta al guinzaglio come un animale – si trasformò gradualmente in qualcosa di inaspettatamente intimo. La notte avvolgeva la sua nudità come un mantello di velluto nero, e il ritmo dei loro passi assumeva una qualità quasi meditativa. Si sorprese a godere di questa strana forma di connessione – lei, la cagna fedele, lui, il padrone attento – come se avessero trovato un nuovo linguaggio di intimità che trascendeva le parole.

I suoi fianchi si muovevano con un ondeggiamento più naturale ora, facendo dondolare la coda in un ritmo che non era più interamente per il suo beneficio. Qualcosa di molto antico si era risvegliato in lei, qualcosa che trovava gioia in questa forma di esistenza più semplice, più animale. Il collare intorno al collo non sembrava più un simbolo di restrizione, ma un’ancora che la teneva salda a questa nuova realtà dove i confini tra umiliazione e liberazione, tra degradazione ed elevazione, si dissolvevano l’uno nell’altro come note di una complessa composizione musicale – toni contrastanti che, anziché scontrarsi, creavano armonie inaspettate nella partitura del suo desiderio.

Il ritorno attraverso la porta principale aveva il sapore di una provocazione deliberata. L’oscurità della notte non bastava a placare il brivido elettrico di essere esposta, nuda e al guinzaglio, al potenziale sguardo di un passante. Ogni passo era un’affermazione della sua nuova condizione, ogni movimento un ricordo della sua metamorfosi.

Rientrati, Ashley sentì un vuoto inaspettato aprirsi nel petto. Nonostante la brutalità con cui l’aveva posseduta – o forse proprio per quella – una parte di lei anelava a un momento di dolcezza, a quell’intimità che solo la notte sa regalare. Immaginava già il calore del suo corpo accanto al suo, il conforto delle sue braccia, l’odore della sua pelle sul cuscino, quei piccoli gesti di tenerezza che avrebbero bilanciato la violenza del loro piacere.

Invece, Dago la condusse verso una cuccia per cani di taglia grande, lussuosa nella sua studiata umiliazione. Il colpo fu più devastante di qualsiasi degradazione fisica. Non era il giaciglio in sé a ferirla, ma la negazione di quella connessione che il suo corpo e la sua anima bramavano con uguale intensità. Si era offerta come schiava di piacere, sì, ma nel suo cuore aveva sperato in quei momenti rubati alla brutalità: una carezza nel sonno, un abbraccio involontario, il privilegio di addormentarsi cullata dal suo respiro. Questa distanza emotiva la devastava più di qualsiasi atto di sottomissione fisica.

Persa in questo vortice di emozioni contrastanti, non colse i suoni dei vestiti che cadevano, del corpo nudo che si avvicinava. La prima consapevolezza fu la coda sollevata bruscamente, poi il vuoto improvviso quando lui le strappò l’uovo dalla figa grondante. Un vuoto che durò solo un istante, prima che il suo cazzo la riempisse con una brutalità che le strappò un gemito animalesco dalla gola.

Il plug nel culo restringeva ogni spazio disponibile, trasformando la sua figa in una morsa di carne viva che registrava ogni dettaglio del cazzo che la possedeva – le vene pulsanti, il calore, la durezza implacabile che raggiungeva luoghi dentro di lei che credeva inesplorati. La sua mente scivolò di nuovo in quello spazio alterato di pura sensazione animale, dove il piacere e il dolore danzavano come lupi sotto la luna.

L’interruzione arrivò come un fulmine a ciel sereno. Quando Dago estrasse il plug con brusca impazienza, un dolore acuto le attraversò il corpo come una scarica elettrica, strappandole un gemito sorpreso. Ma non ebbe nemmeno il tempo di elaborare quella sensazione che lui era già dentro di lei, il suo cazzo che le riempiva il culo con una brutalità che trasformò il dolore in qualcosa di ancestrale. Un ululato le sfuggì dalla gola – non più di sofferenza ma di puro piacere bestiale, il grido di una creatura che finalmente abbraccia la sua vera natura. Le sue mani le afferrarono i seni come artigli possessivi, marchiandola come proprietà, mentre la sua voce – un ringhio basso e possessivo che le vibrò fin dentro le ossa – le bruciava nell’orecchio: “A questa cagna piace tanto essere scopata nel culo…”

Non era una domanda. Era una verità primordiale incisa nel suo DNA più profondo. “Sì, sono la tua cagna, usami…” La sua risposta era un grugnito, un’ammissione bestiale della sua nuova natura.

Lui la prese come un animale selvaggio prende la sua preda – senza grazia, senza considerazione, pensando solo al proprio piacere primitivo. I suoi grugniti si mescolavano ai gemiti di lei in una sinfonia bestiale. Non ci sarebbe voluto molto prima che il suo sperma le inondasse le viscere, marcandola dall’interno come sua proprietà.

I muscoli di Dago si tesero come corde d’acciaio, i suoi lombi che spingevano con una ferocia preistorica, ogni affondo più selvaggio del precedente. I suoi grugniti si trasformarono in ruggiti mentre il suo corpo rispondeva a un richiamo ancestrale, possedendola con una brutalità che trascendeva ogni forma di controllo civile. Il suo orgasmo esplose dentro di lei come una tempesta, ogni spinta un tuono di piacere che rivendicava il suo possesso.

Fu quella sensazione – il calore esplosivo del suo seme che la riempiva, la pura brutalità animale con cui l’aveva reclamata – a far crollare le ultime barriere di Ashley. Il suo corpo si contorse in un’estasi bestiale, ogni muscolo teso nell’arco del piacere mentre i suoi umori schizzavano come una fontana perversa, marcando il territorio sotto di lei. Lui continuò a spingere, assicurandosi che ogni goccia del suo seme la marchiasse dall’interno, prima di sigillare il suo buco con il plug – imprigionando quel marchio liquido di proprietà nelle sue profondità.

La sua metamorfosi era completa. La donna sofisticata, la professionista rispettata si era dissolta come nebbia al sole, lasciando emergere una creatura che era emanazione delle sue fantasie- una bestia in calore, una cagna da monta che trovava la sua verità più profonda nell’abbandono totale al piacere. E il pensiero che la faceva tremare fin nel midollo era quanto visceralmente, irrevocabilmente, questa trasformazione la completasse, come se ogni momento della sua vita precedente fosse stato solo un preludio a questa rivelazione carnale.

“Ora che hai avuto la tua buona notte…” iniziò lui, ma non riuscì a finire. Ashley si era già girata, i suoi occhi accesi di una luce quasi febbrile, supplichevoli ma determinati. Come guidata da un istinto più profondo della ragione, iniziò a leccare e pulire il suo cazzo, esattamente come lui le aveva ordinato in precedenza. Era un gesto di devozione primitiva, un rituale di sottomissione che andava oltre il semplice ordine ricevuto – era il suo modo di completare il cerchio, di suggellare questa nuova verità inscritta nella sua carne.

Lui le permise questo atto di adorazione per qualche momento, osservandola mentre trasformava un compito in un’arte. Poi, quasi a ricordarle il suo posto, la afferrò per i capelli e la strappò da quella bocca che era diventata un antro di perdizione – un santuario profano dove desiderio e devozione si fondevano in qualcosa di molto simile ad un rio pagano preistorico.

“A letto adesso,” la sua voce era tornata quella del controllore paziente, “cerca di dormire bene, domani ti aspetta una giornata faticosa…”

La luce scivolò via gradualmente mentre Dago manipolava il dimmer, come se stesse orchestrando con cura anche questa transizione – l’ultima metamorfosi della giornata, dal piacere al riposo. Il buio avvolse la stanza come velluto liquido, lasciando solo il contorno delle forme, i confini sfumati tra realtà e sogno.

Ashley si avvicinò alla cuccia con un misto di trepidazione e curiosità, il corpo ancora vibrante degli echi del piacere. Il timore del freddo era solo un pretesto – la vera paura era quella di perdere la connessione con lui, come se la distanza fisica potesse dissolvere l’incantesimo che li aveva uniti. Ma la cuccia si rivelò sorprendentemente accogliente, come un nido preparato con cura premeditata.

Stava già scivolando verso il sonno, il corpo pesante di soddisfazione, quando la voce di Dago emerse dal buio come fumo. “Quanti…?”

La domanda galleggiò nell’oscurità per un momento prima che lei la afferrasse. “Quanti cosa?” La sua voce era piccola, quasi timida, come se temesse di rompere la quiete che li avvolgeva.

“Quanti orgasmi hai avuto?” La domanda non era solo curiosità – era un inventario, un conteggio di conquiste, forse una misurazione per ciò che doveva ancora venire.

Ashley cercò di raccogliere i frammenti della sua memoria, di contare i momenti in cui il piacere l’aveva sommersa completamente. “Tre… credo…” esitò, consapevole dell’inadeguatezza della sua risposta. “In alcuni momenti mi son persa…” Come spiegare quegli istanti in cui la sua coscienza si era dissolta completamente nel piacere?

“Domani sarà diverso,” la promessa nella sua voce era come miele scuro, denso di possibilità inespresse. “Dormi, avrai bisogno di energie.”

Chiuse gli occhi, lasciando che il sorriso che le incurvava le labbra raccontasse una storia che le parole non potevano contenere. Era un sorriso che parlava di scoperte inattese, di limiti superati, di una libertà trovata paradossalmente nella sottomissione più completa. Mentre scivolava nel sonno, quel sorriso persisteva – l’ultima traccia visibile della donna sofisticata che era stata, che si fondeva dolcemente con la creatura di puro istinto che stava diventando.
scritto il
2025-07-21
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