Corrispondenze Carnali - Capitolo 9 – Geometrie Carnali

di
genere
etero

Non riusciva a staccare gli occhi da quei due corpi femminili, così diversi eppure ugualmente magnetici: Francesca con la sua maturità scolpita dal tempo, curve che raccontavano una storia di esperienze vissuta; Roberta con la freschezza della sua femminilità, l’elasticità della carne che prometteva immediata risposta ad ogni stimolo.

Dago si avvicinava a loro, girava intorno, come uno squalo che studia le sue prede prima dell’attacco. Il suo corpo si liberava progressivamente dei vestiti che lo soffocavano. Prima la giacca, poi la camicia, infine le scarpe e le calze. Aveva bisogno di sentire il pavimento freddo sotto i piedi nudi, di sentire il contatto con qualcosa di solido, come un ballerino che cerca il contatto con il palco.

Mentre si muoveva, le studiava. Due donne. non una cosa semplice da gestire. Aveva sempre riso di fronte alla classica fantasia di tutti gli uomini di fare sesso con due donne. Ogni volta che visualizzava la scena si immaginava come l’asino di Buridano, indeciso su quale donna soddisfare prima. Nelle sue fantasie la scena si concludeva sempre con le due donne che, scoperta la reciproca complicità e complessità, abbandonavano l’uomo come un attrezzo divenuto superfluo, inutile. Per questo aveva sempre preferito una sola donna, un solo corpo da venerare con attenzione totale e indivisa, da esplorare nella sua totalità. Eppure, qui, la situazione che si era generata era diversa, molto diversa.

Francesca si nutriva delle labbra di Roberta, le dita esperte che esploravano quel corpo più giovane con l’abilità di una musicista. I suoi occhi, quegli occhi che avevano visto mondi che Dago poteva solo immaginare, restavano ancorati ai suoi, imprigionandolo in una complicità silenziosa. Non stava semplicemente dando piacere a Roberta; stava provocandolo, invitandolo ad un gioco le cui regole si intravedevano, lasciando spazio a mutevoli accordi.

Il gioco degli sguardi trasformava ogni carezza in una dichiarazione d’intenti. Francesca affondò le dita nei capelli di Roberta, tirandoli indietro per esporre la gola vulnerabile. La marchiò con morsi calibrati, abbastanza intensi da lasciare tracce temporanee, abbastanza delicati da non varcare il confine dell’autentico dolore. Ogni gemito che sfuggiva dalle labbra di Roberta era un messaggio per Dago che, piano piano, elaborava una nuova versione di piacere che passava attraverso una donna per arrivare all’altra e tornare a lui arricchito di nuovi sapori. Aveva fotografato centinaia di corpi nudi, li aveva studiati, eppure l’elettricità che emanava dall’intreccio di quei due corpi aveva qualcosa di nuovo e di sconosciuto che lo stuzzicava.

Senza pensare, la sua mano afferrò uno degli oggetti disposti con ordine meticoloso sulla parete: un cane di rattan, arma e carezza simultaneamente. La canna flessibile vibrava già tra le sue dita, come se avesse una vita propria, come se riconoscesse il corpo che stava per marcare.

Il primo colpo atterrò sul sedere perfetto di Roberta con un sibilo seguito dal suono secco del contatto con il suo corpo. Un colpo misurato, non una punizione ma un’introduzione, un biglietto da visita del dolore. Il corpo di lei sussultò, sorpreso da quella sensazione che interrompeva il flusso di piacere in cui Francesca l’aveva immersa. Il secondo colpo colpì le natiche di Francesca. Lei non sussultò; il suo corpo aveva conosciuto quel linguaggio troppe volte per esserne sorpreso. Ma i suoi occhi si illuminarono di un’intensità nuova, un riconoscimento. Le pupille dilatate parlavano un linguaggio che trascendeva le parole, una provocazione a vedere fino a dove lui sarebbe potuto arrivare. Non era una sfida, era una richiesta, la voglia di conoscere un lato di lui che aveva subodorato ma mai esplorato.

Ad ogni giro intorno alle due donne, Dago sceglieva un punto diverso da colpire. Variava l’intensità come un musicista varia le dinamiche di una composizione. Piano, forte, pianissimo, fortissimo, creando una sinfonia sui loro sederi, sulle loro chiappe, colorandoli di sfumature rosso passione. Le reazioni erano diverse come le loro personalità. Francesca accoglieva ogni colpo come un dono atteso, il respiro che si faceva più profondo, il corpo che si spingeva impercettibilmente verso la fonte del dolore invece di ritrarsi. Conosceva quel territorio, vi aveva costruito templi dove venerava le divinità del piacere e del dolore.

Per Roberta era diverso. Ogni colpo era una rivelazione, ogni bruciore una porta che si apriva su stanze che non sapeva esistessero dentro di sé. Avvolta nelle braccia esperte di Francesca, sostenuta da quel corpo che sapeva esattamente come piegarsi al dolore per trasformarlo, scopriva nuove sensazioni ed emozioni. Il calore delle zone colpite non restava confinato al punto d’impatto, ma si irradiava verso il centro della sua femminilità in onde concentriche, creando connessioni elettriche tra terminazioni nervose che non sapeva potessero comunicare.

Dago sentiva crescere dentro di sé una connessione con Francesca che trascendeva la loro storia condivisa. Non era semplicemente il passato di amante e cliente. Era qualcosa di diverso: il riconoscimento di ruoli e complicità che potevano, tramite Roberta, esplorare nuove e più complesse dinamiche.

La voce di Francesca, improvvisamente dura e perentoria, scosse gli equilibri: “Non ti azzardare a godere senza che io ti abbia dato il permesso!” Mentre lo diceva, con una mano aveva afferrato il viso di Roberta, obbligandola a guardarla negli occhi, mentre l’altra mano continuava ad avere il completo possesso della sua figa e del suo piacere.

Dago, sorridendo, si era avvicinato alle spalle di Roberta. “Francesca, solo Francesca potrà darti il permesso di godere!” Roberta sentì improvvisamente il bisogno di godere, diventare impellente, come se quei due divieti avessero amplificato il suo piacere, fino a renderlo urgente. “Prova a godere e, credimi, te ne pentirai.” Il tono di Francesca ora era molto diverso dal tono di quando erano a tavola. Le ricordava il tono della signorina Rottenmeier di Heidi, un tono che non accettava altro che l’obbedienza incondizionata.

Si sentiva fisicamente e mentalmente schiacciata tra quelle due forti personalità. Nuda, esposta, alla loro mercé ma, allo stesso tempo sentiva che non avrebbe desiderato essere in nessun altro posto. Mentre gongolava in quel pensiero, uno schiaffo non troppo forte la colpì in pieno viso. “Francesca sta aspettando che tu le dica di avere capito”. La voce pacata di Dago le stava dando le istruzioni per iniziare a vivere nella maniera corretta questa dinamica. Uno dei suoi neuroni prese nota di chiedergli successivamente come faceva a conoscere quelle regole. “Sì ho capito…” rispose con una voce flebile, mentre cercava di non venire sulla mano di Francesca che improvvisamente si mosse dandole un violento schiaffo sulla figa. “Si dice: Sì Signora, ho capito!” Un lungo silenzio, poi un altro schiaffo, più forte del primo che, per assurdo, la portò ancora più vicino all’orgasmo. “Sì… Signora… ho… capito…” rispose balbettando, cercando con tutte le sue forze di non avere un orgasmo.

Una carezza di Dago, mentre si allontanava, aveva dato a Roberta quella piccola conferma di avere fatto la cosa giusta. Poi le mani di Francesca si impossessarono di nuovo del suo corpo muovendolo come se fosse una marionetta. Si sorprese a pensare che questa cosa la stava eccitando in modo inaspettato.

“Ti basta una parola per fermarci…” la voce di Francesca, calma, un sussurro, rassicurò quelle poche parti che si stavano agitando. Per quanto Dago stesse tenendo un atteggiamento particolare, che lei non aveva mai visto prima, continuava a fidarsi di lui, il suo sguardo continuava a farla sentire al sicuro

Lo vide tornare verso di lei con una striscia nera in mano, una striscia di cuoio, un collare come quello che suo padre comperava per il loro molosso. Deglutì, sicura che fosse per lei, avendo la certezza che quel gioco, se così si fosse potuto chiamare, sarebbe stato per farle esplorare mondi e sensazioni nuove.

Francesca le raccolse i capelli mentre lui le fasciava il collo con quel collare, lo stringeva, chiudeva. “Questo serve solo a farti entrare di più nel ruolo” lui la guardava dritto negli occhi, con quel sorriso sornione accennato. “Poi vale quello che ti ha detto Francesca.”

Come Dago ebbe finito la sua azione, fu la volta di Francesca che con una abilità magistrale fece scivolare corde attorno al suo corpo, prima fasciandole il petto, poi stringendo, avvolgendo i giovani grossi seni di Roberta, strizzandoli in un abbraccio completamente nuovo. Una sua amica a New York le aveva fatto vedere dei video affascinanti e aveva fatto qualche ricerca. Poi la situazione era evoluta velocemente ed era rientrata in Italia senza avere il tempo di parlarne con Dago. Era una sensazione particolare, una costrizione che quasi liberava altre frontiere.

Un passo dopo l’altro, da quando era entrata in quella stanza, Roberta aveva sentito quella parte della mente dedicata al piacere cambiare stato, forma, consistenza. Come se l’amigdala e il sistema limbico avessero percepito quello che stava succedendo e la stavano preparando rilasciando abbondanti dosi di dopamina.

Con la volontà abbassata ai minimi, si lasciò guidare da quella coppia particolare verso una strana panca. Invece di essere un classico parallelepipedo, aveva una forma triangolare con ai fianchi il posto dove appoggiare le gambe. Era una struttura in legno. Solido e scuro, costruito da un abile ebanista dato che ogni perfetto incastro era esaltato dal contrasto dei colori ed era evidente che non vi fosse un solo chiodo o vite. Dove necessario, il legno era stato ricoperto da pelle e imbottiture, per consentire quel minimo di comfort a chi era obbligato ad utilizzarlo per lungo tempo. La pelle era fissata con borchie ribattute, per evitare accidentali infortuni e, strategicamente posizionati, vi erano cinghie ed anelli, in modo che fosse facile immobilizzare la persona che avrebbe avuto il piacere di finirci sopra.

La posizionarono con cura e precisione, bloccandole le caviglie e avendo cura che la parte più stretta fosse esattamente contro la sua figa. Francesca, scivolata dietro di lei, la afferrò per i capelli, facendola raddrizzare. Leggermente arcuata, le corde strizzavano meglio i suoi seni. “Muovi i fianchi avanti e indietro.” Il tono era di quelli che non ammettono repliche. Dato che Roberta esitava a muoversi ricevette un sonoro schiaffo sul sedere. La sorpresa di quanto la mano di Francesca potesse fare male, mescolato con tutte le altre sensazioni che stava provando, le provocò una scossa che percorse tutto il corpo obbligandola ad iniziare a muoversi avanti e indietro.

La panca era stata modificata in modo che in quella zona ci fosse un tessuto particolarmente stimolante, come un vecchio asciugamano infeltrito, ruvido il giusto. Quando Roberta iniziò a muoversi era come se la sua clitoride facesse scintille contro quel tessuto. L’immagine che le si formò nella corteccia frontale era quella di un’auto di formula uno che al massimo della velocità su un rettilineo fa scintille quando il fondo tocca l’asfalto. In questo momento immaginava, desiderava fare quelle scintille, desiderava godere ma sapeva di non potere. Tutto questo, ovviamente, provocava nuove stimolazioni alla sua figa e nuove stimolazioni alla sua mente.

Improvvisamente, come se fosse stata risucchiata da una finestra spazio-temporale, i ricordi delle prime masturbazioni riaffiorarono con nitida violenza alla sua mente. Si rivide abbracciata al cuscino, e senza nemmeno sapere come e perché aveva iniziato a strofinarcisi contro. Poco dopo erano sparite le mutandine e aveva iniziato a premercisi contro con più forza, aumentando il ritmo, senza essere più in grado di fermarsi fino al raggiungimento del piacere… e anche oltre, e da quella sera il suo rapporto con il sonno e con il cuscino era cambiato.

“Non ti azzardare a godere senza il mio permesso!” La voce di Francesca la riportò violentemente alla realtà, ricordandole la situazione in cui si era infilata e i doveri che stava imparando a rispettare. Aprendo gli occhi si ritrovò Dago in piedi davanti a lei, il cazzo duro che spuntava dai pantaloni e un guinzaglio in mano. Il tempo di agganciare il moschettone e sentì la presa di Francesca mollare i suoi capelli mentre lui, perfettamente sincronizzato la tirava in avanti riempiendole la bocca con tutta la sua carne.

Quante volte lo aveva succhiato, ingoiato, spompinato, fatto sborrare ingoiando ogni goccia con immenso piacere, godendo del potere che le dava farlo godere. Tante! Ma questa volta era diversa, molto diverso c’era un’energia nuova, non era solo il piacere di farglielo, era sentire il dovere di farglielo, quasi di non avere scelta. Un abbandonarsi a qualcosa di cui a volte ci si vergogna ma che in quel momento non era più sua responsabilità. Da un luogo remoto del cervello sentì una voce che sussurrava qualcosa di confuso a proposito di essere solo un oggetto di piacere, un contenitore per la sua sborra.

Allora, in quel modo, in quel posto, con quelle persone, sentì improvvisamente che poteva abbandonare l’immagine della rispettabile manager di successo e che poteva tornare ad essere quella bambina che aveva iniziato a giocare con il cuscino e poi era passata a quel grosso orsacchiotto che le avevano regalato i nonni. Mentre si strofinava su quella strana panca, sempre più piacevolmente, mentre il cilindro di carne di Dago le riempiva bocca e gola, il ricordo delle notti che aveva passato strofinandosi su quell’orsacchiotto, avvicinandosi al piacere senza esplodere, imparando a prolungare quel piacere oltre quello che i più avrebbero potuto definire ragionevole, prese possesso della sua mente e del suo corpo iniziando a farla gemere come Dago non aveva mai sentito prima.

La mente è uno strumento fantastico e mentre Roberta viveva una serie di esperienze particolari, lei riuscì, nel tempo di una frazione di secondo, a ripercorrere la linea temporale del suo piacere. Dal cuscino all’orsetto, passando per i primi fidanzatini, i primi rapporti sessuali, il bisogno di stare in quel limbo del suo piacere, mentre si dedicava in ogni modo per dare piacere arrivando trascurando il proprio. Piano piano le cose erano cambiate, si erano trasformate, aveva quasi dimenticato quelle lunghe notti quasi insonni cullando sé stessa in un piacere che solo lei poteva darsi. Non che il sesso canonico non fosse stato piacevole per Roberta. Aveva avuto molti amanti veramente interessanti e il sesso con Dago era sempre stato oltremodo piacevole. Ma quel piacere che provava con il suo orsetto era diverso, intimo, personale, sfiancante.

Inconsapevolmente, Dago e Francesca, la stavano riportando lì, a quei ricordi, quelle sensazioni a quel piacere, cercato ma non consumato, prolungato fino ad essere quasi estenuante, senza mai esserlo veramente. Questa consapevolezza improvvisa provocò un ulteriore click nel suo cervello, nella sua amigdala.

La sua figa iniziava a lasciare una bava filosa sulla panca. Mentre il cazzo di Dago le martellava la gola, piccoli gemiti strozzati le uscivano dalla bocca fino a quando Francesca, ritornò a fare parte del gioco. Aveva preso uno dei frustini da cavallerizza, testandolo e scegliendo quello più flessibile, pungente, e aveva iniziato a colpire le terga di Roberta.

Il cazzo di Dago in bocca, la figa che strusciava allegramente, il culo torturato dal frustino. Le stimolazioni che arrivavano al suo cervello, diverse tra loro per sensazione e direzione, le causavano un senso di vertigine piacevole, quasi l’effetto di una canna.

Poi tutto d’un tratto le rimase solo la figa da strusciare. Si sentì persa per quei pochi secondi che i due ci impiegarono a cambiarsi di posto. Invece della bocca piena della carne di Dago si ritrovò a dover ubbidientemente leccare la figa di Francesca, che le afferrava saldamente per i capelli e la guidava dove desiderava. Una parte del cervello di Roberta era schiava di lei, del suo sapore, dei suoi occhi.

Un’altra parte del suo cervello cercava Dago, scioccamente aspettava che prendesse qualche nuovo attrezzo per colorare le sue chiappe di nuove sensazioni. Invece sentì le mani forti e decise dell’uomo afferrarla per i fianchi, tirarla indietro di quel poco che bastava a fare sporgere il culo, senza farle perdere il contatto con l’attrezzo e…

Qualcosa di caldo premeva prepotentemente contro il suo sfintere, contro il suo buco del culo. Di sicuro non era vergine, non era mai stata particolarmente reticente nel concedersi in quel modo, lo stesso Dago ne aveva goduto svariate volte. Ci teneva solo a precisare che per renderlo piacevole bisognava arrivarci nel modo giusto. Almeno, per lei questo era importante. Vi erano state volte in cui aveva rifiutato, volte in cui aveva concesso e volte in cui aveva provato piacere o addirittura goduto. Dipendeva dall’abilità del partner di creare l’atmosfera.

Quella sera, nel momento stesso in cui aveva sentito il glande di Dago premere contro il culo avrebbe voluto gridare “Sfondami!” Aveva sentito l’ennesimo click nel cervello e, per assurdo, ne aveva sentito il bisogno, tanto che si era spinta verso quella carne turgida, mugolando mentre la sua bocca era premuta contro la figa di Francesca, supplicandolo di scoparla come mai aveva fatto prima.

Le sue suppliche vennero soddisfatte. Una spinta, decisa, violenta, fece affondare tutto il cazzo dentro di lei. Il colpo era stato talmente deciso che aveva avuto l’impressione di sentirlo fino in gola. Il piacere era stato tale che il corpo aveva iniziato a tremare e se non fosse stato per la voce di Francesca che continuava ad urlare di non godere, probabilmente sarebbe venuta seduta stante.

In tutta quella cacofonia di emozioni e sensazioni, una piccola parte di sé riusciva a restare cosciente in maniera misteriosa. Mentre Dago arretrava per caricare un nuovo assalto al suo culo e al suo piacere, quella parte di Roberta analizzò quella sensazione strana, nuova, o almeno mai ascoltata prima. Era come un bisogno di pisciare ma, nello stesso tempo, non era un bisogno di pisciare.

Da una parte c’erano le mani di Francesca che la afferravano per i capelli, guidandola a soddisfare i propri piaceri, riempiendole la faccia dei suoi umori, facendole colare il trucco in una maschera che la rendeva irriconoscibile. Sì forse come quando rubava i trucchi alla nonna e si pasticciava la faccia. Quel gancio di nuovo con la sua infanzia la riportò a ricordare e vivere quel piacere quasi dimenticato.

Dall’altra le mani di Dago che afferravano i fianchi, la sculacciavano con foga, mentre continuava a stantuffarle il culo. Il ritmo, l’intensità, che continuava a variare, con quella maestria che lei aveva imparato a conoscere bene, molto bene. Ma questa sera c’era qualcosa in più. C’erano le voci di Dago e Francesca che parlavano, comunicavano, che la rendevano ancora una volta di più un oggetto di piacere.

E poi c’era lui, quel coso, quella panca, quella ruvidezza che la sua figa non poteva fare a meno di continuare a cercare, c’era quel piacere che arrivava nel suo corpo, nel suo cervello da così tante direzioni e in così tanti modi diversi che aveva la continua sensazione di andare e tornare da dimensioni diverse o di avere degli svenimenti quando il piacere raggiungeva vette che le sembrava di non poter gestire.

Il corpo di Roberta iniziò ad essere pervaso da brividi, contrazioni, quasi avesse delle convulsioni. Entrambi reagirono immediatamente, anche in quello sincronizzati, liberandola dalla panca e portandola rapidamente sul grande letto a baldacchino, entrambi prendendosene cura, accarezzandola, chiamandola per nome, aspettando che tornasse da quel posto dove il piacere l’aveva spedita.

Piano piano Roberta iniziò a dare segni di ripresa. Qualche parola grugnita. Il movimento di mani, braccia, gambe. Muoversi tra loro due, cercando un contatto fisico diverso, quasi avesse bisogno di ritrovare sensazioni fisiche che, anche in alcuni casi di meditazione profonda si perdono. Poi le prime parole: “Voi due… mi dovete qualche centinaio di orgasmi…” la voce di Roberta era quasi irriconoscibile, profonda, come se venisse veramente da un’altra dimensione.

Alla parola ‘orgasmi’ il suo corpo ricominciò a tremare e Dago dovette stringerla forte a sé. “Non pensare di cavartela così facilmente, devi sempre aspettare il permesso di Francesca per godere.” Solo allora aprì gli occhi, una fessura sufficiente a cercare l’altra donna, la sua carnefice. Francesca guardava Roberta con quella sicurezza e serenità che le davano la sua posizione. Sapeva di avere il supporto e la complicità di Dago in quella situazione, in quella dinamica, e voleva godersi ogni stilla che quel momento poteva regalarle.

Roberta, con l’inconsapevolezza e indisciplina di chi si approccia per la prima volta a queste pratiche, voleva, desiderava, sentiva il bisogno solo di godere. Il resto, probabilmente, lo avrebbe imparato con il tempo. Francesca lesse tutto questo nel suo sguardo e le rispose con semplicità: “Potrai godere quanto vuoi, solo dopo che… IO… avrò goduto…”

Uno scambio di sguardi e Dago si posizionò meglio al centro del letto tirandosi Roberta con sé. Contemporaneamente Francesca guidava Roberta sopra il cazzo di Dago. Impugnare quella carne dura e vibrante e guidarla dentro la figa aperta e fradicia di Roberta ebbe un effetto oltremodo stimolante sul suo corpo e le sue fantasie.

Guidò i fianchi di Roberta a cavalcare il cazzo di Dago mentre lei accarezzava, schiaffeggiava, baciava, leccava il culo di Roberta che, di nuovo, per resistere a tutte quelle stimolazioni, aveva ricominciato a viaggiare tra diverse dimensioni. Ogni tanto la obbligava a sfilarsi e mentre la coccolava con la sua mano e le sue dita si saziava succhiando e ripulendo il cazzo dai suoi umori.

Questo gioco iniziava a diventare difficile da resistere anche per Dago. Francesca allora si mise a cavallo del viso dell’uomo, rivolta verso Roberta. Dago sapeva esattamente come e dove leccare Francesca che, in quella posizione, prese il comando delle operazioni. “Solo dopo che io godo… tu puoi godere…” la frase fu interrotta dal dito di Dago che le riempiva il culo mentre la leccava.

Tutti erano allo stremo della resistenza, ci volle poco perché la reazione a catena si scatenasse. I baci tra Francesca e Roberta, combinati con la lingua e le dita di Dago che esploravano i suoi anfratti, fecero arrivare abbastanza rapidamente Francesca all’orgasmo. Mentre godeva sulla bocca di Dago concesse a Roberta di venire. Ora da così tanto tempo sul ciglio del piacere che iniziò ad inondare il cazzo di Dago di una quantità di liquidi sconosciuti, mentre gemeva mormorando parole e frasi in una lingua oscura, impossibilitata a fermarsi, avendone inconsapevolmente anche un secondo o forse un terzo. Dago, in balia degli orgasmi delle due donne, esplodeva dentro Roberta, mentre continuava a leccare Francesca.

Piano piano, come assemblandosi attraverso un richiamo magnetico, i tre corpi si ricongiunsero. Dago al centro, Roberta alla sua sinistra, Francesca alla sua destra. Tre corpi intrecciati, ancora grondanti di sudore e umori, ancora vibranti delle scosse telluriche di piacere che li avevano attraversati e travolti.

Roberta fluttuava in quello stato etereo che non aveva parole per definire. Un terreno di confine dove l’io si dissolve senza scomparire del tutto. La vergogna che l’aveva accompagnata per tutta la vita come un’ombra fedele si era trasmutata in una libertà primordiale. Essere ridotta a oggetto, a puro strumento di piacere, l’aveva paradossalmente liberata dalle catene che nemmeno sapeva di portare.

Il suo corpo era ancora presente, ma la sua mente vagava in territori inesplorati, dove ogni sensazione arrivava amplificata, distorta, magnificata. Sentiva le dita di Dago sulla sua pelle come scie di fuoco, la presenza di Francesca come qualcosa che alterava la gravità stessa. La pelle ormai non era più un confine tra interno ed esterno, ma una membrana porosa attraverso cui il piacere entrava e usciva senza più controllo.

“Stai viaggiando,” mormorò Francesca, gli occhi che tradivano una comprensione viscerale di quel territorio, quasi una invidia per non riuscire più a provare quello stupore e quel piacere che ora provava Roberta. “È il subspace. Alcuni lo chiamano piccola morte. Altri rinascita.” Le sue dita accarezzarono il corpo di Roberta, caldo, pulsante, bramoso ancora di altro piacere, altre esperienze. “La prima volta non si dimentica.”

Dago la osservava con attenzione clinica mescolata a fame rinnovata. Riconosceva quella fuga dall’identità, quel territorio sospeso in cui la carne si trasforma in puro ricettacolo di sensazioni. “Rimani con noi,” le sussurrò nell’orecchio, parole che erano tanto un comando quanto una preghiera. “C’è ancora tanto da esplorare.”

I corpi ancora tremavano di echi residui, ma già si formavano nuove costellazioni di desiderio tra loro. Dago afferrò un capezzolo di Roberta tra indice e pollice, una pressione calcolata che la strappò momentaneamente da quella beatitudine limbica. Il dolore, preciso e chirurgico, serviva da ancora. Un richiamo al presente.

“Sei pronta a continuare?” chiese Francesca, già consapevole della risposta. Il corpo di Roberta era più eloquente di qualsiasi parola, più sincero di qualsiasi confessione. La sua figa, ancora umida e gonfia, pulsava visibilmente. I segni sulla sua pelle stavano sbiadendo in macchie rosate, pronte ad essere rinnovate, rinfrescate, reinventate.

Roberta aprì gli occhi, e quando parlò, la sua voce sembrava provenire non dalla gola ma da qualche caverna profonda dentro di lei, un luogo che solo ora iniziava ad esplorare.

“Usatemi,” disse semplicemente. Quella parola, che fino a poche ore prima le sarebbe sembrata degradante, ora le sembrava la più autentica espressione di sé. La parola che l’avrebbe liberata.

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scritto il
2025-06-16
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