Il Sapore della Sottomissione Capitolo 4 – La Dissoluzione del Sé

di
genere
dominazione

Il corpo immobilizzato sul tavolo conservava ancora l’eco del plug anale, una presenza estranea che aveva ridefinito i confini della sua anatomia. Ogni respiro faceva pulsare l’invasore di silicone contro pareti muscolari che non sapevano se stringersi o rilassarsi, creando un feedback costante di sensazioni che la tenevano ancorata a una nuova consapevolezza di sé. La mente, libera di volare in dimensioni parallele mentre la carne rimaneva prigioniera delle corde, galleggiava in quel limbo di costrizione volontaria dove aveva scelto di rinchiudersi.

Nel territorio vergine della sua sottomissione, le due anime che abitavano Giulia ripresero la loro eterna disputa. La santarellina e la lussuriosa si affrontavano in un tribunale interiore dove il verdetto era già stato pronunciato, ma dove nessuna delle due aveva ancora il coraggio di accettarlo.

Guarda in che situazione ti sei cacciata, accusava la prima con la voce affilata di sua madre, quel timbro che aveva accompagnato ogni suo senso di colpa dall’infanzia. Legata come una bestia, con un oggetto piantato nel culo, che aspetta che uno sconosciuto faccia di te quello che vuole.

In una situazione dove finalmente un uomo sta pensando solo a come farmi godere, ribatteva l’altra, la voce bassa e sciropposa di desiderio nascosto. Dedicandosi a me con tutta la sua attenzione, leggendomi come un libro che sa già a memoria.

Ma se qualcuno ci vedesse? Qui, in questa posizione… le gambe spalancate come una puttana, il sesso offerto come merce al mercato…

Non senti quanto la figa è felice in questo momento? La voce lussuriosa si fece più insistente, quasi carnale. Non vedi come pulsa, come chiede? E siamo solo all’inizio. Tutto ciò che hai sempre desiderato senza osare confessarlo sta per diventare reale.

Era proprio mentre si perdeva in quel duello interiore – la mente che dibatteva, le terminazioni nervose che vibravano di attesa – che arrivò il primo colpo. Secco, bruciante, a risvegliarla dalla trance del pensiero e riportarla alla cruda realtà della carne.

“Questo è quello largo, di pelle, io lo chiamo lo sculacciatore,” diceva con la calma di chi sapeva cosa stava facendo.

Il primo colpo la colse impreparata, non per la forza, ma per l’ampiezza. Molto diverso dall’impatto familiare della mano: una superficie di cuoio che abbracciava entrambe le natiche come un sigillo rovente. La pelle reagiva in tempo reale, sviluppando il calore come una Polaroid al contrario, dall’impatto bianco alla bruciatura che fioriva in rosso profondo.

Mentre parlava, la sua mano accarezzava le zone colpite, una carezza che amplificava il bruciore invece di placarlo, come alcool versato su una ferita aperta. Giulia sentiva con precisione millimetrica la differenza tra le aree marchiate e quelle ancora vergini, come se il dolore le avesse regalato una nuova vista a raggi X del proprio corpo.

Giulia poteva percepire con precisione la differenza tra le zone colpite e quelle risparmiate, come se il dolore le avesse regalato una nuova consapevolezza del proprio fisico.

Poi di nuovo la voce, la voce che era il filo che la teneva legata alla realtà. “Come stai? – La mano che la accarezzava, che rimetteva assieme i pezzi sparpagliati con le sue carezze e sculacciate – non hai ancora emesso un lamento, mi sa che devo aumentare l’intensità, o cambiare lo strumento.” I pensieri ricominciarono a turbinare, sempre le due metà di Giulia che combattevano, che dibattevano. Le chiappe che si contraevano, la figa che pulsava, il culo che si contraeva attorno al plug, il cervello che fibrillava. Provare qualcosa di più forte, chiedergli di andare oltre a quello che stava usando e poi? Quanto mancava? Quanto mancava per il prossimo orgasmo?

I colpi successivi arrivarono in un crescendo studiato, come se stesse cercando la calibrazione perfetta, esplorando metodicamente la sua soglia del dolore fino a trovarla, superarla, trasformarla. Questa volta non si fermò a quattro. Un velo di paura iniziò a formarsi nell’angolo più remoto della sua mente, ma i colpi incalzanti non le diedero il tempo di nutrirla. Paradossalmente, l’aumentare della forza e della frequenza generava in lei una nuova sensazione. Il dolore trasmutava in un benessere che non aveva mai concepito possibile.

Come poteva il suo cervello tradurre quella violenza in estasi? Era come se qualcuno le avesse riscritto il sistema operativo: il dolore non era più dolore, era diventato un dialetto sconosciuto che il suo corpo parlava fluentemente senza che la mente l’avesse mai imparato.

Quando dopo una quindicina di colpi, ciascuno più intenso del precedente, Dago si fermò, le gambe di Giulia tremavano come se stesse vivendo un orgasmo. Si morse il labbro inferiore per impedire a quella sensazione di concretizzarsi.

La pelle reagiva come materia viva sotto l’anatomia del dolore. Prima liscia e pallida come cera vergine, poi calda al tocco, infine rovente e sensibile come membrane di tamburo tese oltre il limite. Ogni colpo ridisegnava la geografia delle sue natiche, qui un’isola di calore pulsante, là una penisola di rossore che si irradiava verso l’interno delle cosce.

Era anatomia riscritta a colpi di cuoio. Il primo impatto accendeva la pelle come fiammifero sulla scatola, il secondo la trasformava in braci, il terzo in carbone che cova sotto la cenere. La superficie si saturava di calore fino a diventare ipersensibile: persino l’aria che la sfiorava si trasformava in carezza dolorosa.

Poteva sentire la progressione del rossore senza vederla, dalla scottatura superficiale al bruciore profondo che parlava direttamente ai nervi. La pelle si gonfiava impercettibilmente, tesa come pelle di tamburo pronta a risuonare al minimo tocco. Era come se il suo culo fosse diventato un organo sensoriale autonomo, capace di tradurre violenza in musica.

Quindi questo è quello che nascondevo, pensò, mentre un’altra onda di calore si irradiava dalle natiche verso il centro di lei. Una vita di educazione cattolica polverizzati da un pezzo di cuoio. Sua madre aveva tentato di anestetizzare questi circuiti con rosari e sensi di colpa, ma eccoli qui, vivi, affamati, pronti a tradurre sofferenza in godimento con una chimica perversa che nessun catechismo aveva mai menzionato.

Il calore generato dalla striscia di pelle rigida si era diffuso dentro di lei come un incendio sotterraneo, risvegliando territori sconosciuti.

La santarellina e la peccatrice ripresero il loro dibattito interiore, voci contrastanti nella sua mente. La prima implorava di fermarsi, di conservare quell’ultimo frammento di dignità. La seconda la seduceva verso l’abisso, supplicando di abbandonarsi completamente a queste sensazioni proibite.

Il colpo successivo la raggiunse dove non osava immaginare. Un’improvvisa percussione dal basso, direttamente sul sesso grondante. La sorprese bloccandole il respiro, il battito cardiaco. Fu il colpo seguente a riavviare entrambi, strappandole dalle labbra un gemito che oscillava tra dolore e appagamento come un pendolo impazzito. Un colpo chirurgicamente preciso, direttamente sulla clitoride esposta. Poi un altro. E un altro ancora.

Lui orchestrava dolore e piacere con la maestria di un direttore d’orchestra, modulando intensità e tempo come note su uno spartito carnale. Giulia ne contò cinque in rapida successione, ciascuno un piccolo shock elettrico che si propagava dal suo centro fino alle estremità.

Poi, quando il suo fisico iniziava appena ad anticipare il ritmo, lui cambiava improvvisamente bersaglio. L’interno coscia sinistro. L’altro interno coscia. Una danza imprevedibile che la teneva sospesa tra anticipazione e sorpresa. I glutei nuovamente, con colpi decisamente più vigorosi che la facevano sobbalzare contro le corde. Poi ancora il sesso, percussioni secche e precise che innescavano contrazioni involontarie

E poi, nel momento in cui il suo corpo si era completamente arreso a quella orchestra di dolore, il silenzio. I colpi cessavano come erano iniziati – senza preavviso.

La sua carne rispondeva a tale combinazione di dolore e piacere come uno strumento musicale sotto le mani di un virtuoso percussionista, vibrando di note che non sapeva di poter emettere. Sull’interno coscia, scoprì un nuovo registro di sensazioni: un dolore più acuto sebbene i colpi fossero meno potenti, come se la colpita zona ospitasse terminazioni nervose progettate specificamente per quella tortura.

Come un maestro del godimento, variava i ritmi dei colpi, l’intensità e la frequenza, negandole deliberatamente qualsiasi prevedibilità che potesse offrirle rifugio. In quel caos sensoriale, la coscienza di Giulia si sdoppiò, galleggiando sopra la scena. Osservava quel corpo, il suo corpo, stranamente estraneo, trasformato in un altare di appagamento proibito, un tempio pagano di sensualità dove ogni colpo era un’offerta agli dèi dimenticati della lussuria.

La nuova consapevolezza di sé riempì il ventre di Giulia di un piacere che non aveva mai concepito possibile, una soddisfazione che oltrepassava i confini dell’orgasmo per diventare qualcosa di più vasto, più profondo, una rivelazione carnale.

Poi, improvvisamente, i colpi cessarono. La mano di Dago si posò sul suo sesso come un sigillo caldo, scivolando poi sulle natiche arrossate in un movimento uniforme prima di risalire lungo la colonna vertebrale, dichiarando in quel modo il possesso di ogni parte di lei.

“Come stai?” chiese di nuovo, la stessa voce, l’unica cosa che ancora la teneva ancorata alla realtà.

Quell’attenzione incessante al suo appagamento, alle sue emozioni, la avvolgeva come un bozzolo protettivo. Per la prima volta nella sua vita adulta, Giulia si sentiva realmente vista, non solo guardata. Ruotò il capo cercandolo con gli occhi, occhi in cui brillava una luce nuova, piena di una nuova consapevolezza.

Quando il suo sguardo incontrò i suoi occhi, di quel particolare verde-marrone che sembravano penetrare oltre la sua carne fino a leggere desideri mai confessati, non poté trattenere un sorriso che veniva da un luogo arcaico della sua coscienza.

“Ho voglia di godere… ho bisogno di godere… Ti prego…” Le parole le uscirono con una voce che faticava a riconoscere come propria. Più grave, più urgente, priva di tutte le sovrastrutture di controllo che l’avevano imbrigliata per quarant’anni. In quella supplica vibrava una determinazione selvaggia che non aveva mai osato esprimere prima. Poi, con disarmante sincerità, aggiunse: “Devo anche fare la pipì…

Le ultime parole gli strapparono un sorriso. “Ovviamente nessuno ti ha mai fatto godere con la vescica piena…”

Le sue parole aprirono nuovi spiragli nella sua consapevolezza, fessure di luce in stanze che non sapeva esistessero dentro di sé. Quest’uomo sembrava conoscere il percorso dei suoi piaceri più segreti che lei stessa non aveva mai esplorato.

Sentì la mano ripercorrere la sua schiena, un’esplorazione metodica e possessiva. Poi le dita scivolarono in basso, accarezzando, premendo, sfregandosi contro il suo sesso in un movimento che sembrava voler reclamare ogni millimetro della sua carne. Il pollice s’insinuò dentro di lei con un’autorità che non ammetteva resistenza, riempiendola, muovendosi con un ritmo che parlava direttamente al suo utero. Le altre dita avvolgevano la sua vulva, giocando con la clitoride come un musicista che conosce alla perfezione lo strumento.

Mentre la mano destra di Dago colonizzava il suo sesso, la sinistra le avvolse la gola in una presa decisa ma calibrata. Non stringeva, prometteva. Le dita si posizionavano sui punti esatti dove bastava una pressione millimetrica per trasformare l’aria in lusso, il respiro in privilegio revocabile. Era un collare di carne e ossa che le ricordava ad ogni inspirazione chi decidesse se potesse continuare a respirare.

La gola si contraeva involontariamente sotto quella presenza, la deglutizione che diventava un atto cosciente, volontario. Ogni volta che ingoiava saliva sentiva le dita muoversi appena, calibrando la presa, promemoria costante che la sua autonomia respiratoria esisteva solo per sua concessione.

Era dominazione pura distillata in cinque punti di contatto. Non aveva bisogno di stringere per possederla, bastava che lei sapesse che poteva farlo. Il potere si alimentava di possibilità, non di azione, e quella mano sulla gola era l’incarnazione perfetta del controllo che si nutre di potenziale.

Non stringeva abbastanza da soffocarla, eppure bastava a ricordarle che il suo respiro esisteva ora per suo permesso. La sensazione di essere completamente in balia di quell’uomo, il suo organismo ridotto a territorio di conquista, era esattamente ciò che aveva segretamente implorato.

“Voglio vedere quanto resisti prima di supplicarmi di venire,” sussurrò lui.

La mano sul collo strinse impercettibilmente, mentre il pollice si piegava all’interno di lei, premendo con precisione contro l’osso pubico, creando una contropressione perfetta rispetto alle tre dita che massaggiavano la sua clitoride dall’esterno. “La senti la vescica che preme?” Gli bisbigliò all’orecchio, voce di serpente, promessa infida che le ricordava l’impulso primario, amplificandolo.

Ecco cosa stava facendo. Non era crudeltà fine a sé stessa – era tecnica pura. La vescica piena che premeva contro gli organi interni, amplificando ogni sensazione come una cassa di risonanza naturale. Giulia non aveva mai immaginato che il corpo potesse funzionare così, che ogni parte fosse collegata alle altre in modi che solo un esperto conosceva.

C’era qualcosa di ipnotico nel sentirsi usata come uno strumento musicale di cui lui conosceva ogni corda, ogni tasto. La pressione interna non era più fastidio, era diventata parte dell’orchestra, una nota bassa che rendeva più acute tutte le altre.

Mi sta suonando, realizzò mentre le dita continuavano la loro danza implacabile. Conosce il mio corpo meglio di quanto lo conosca io. Era eccitante e terrificante insieme, scoprire di essere più complessa di quanto avesse mai immaginato, di avere meccanismi interni che aspettavano solo le mani giuste per essere attivati.

Le sue parole la obbligarono a riconnettersi con le nuove sensazioni che il suo corpo le trasmetteva. La pressione interna si intensificava ad ogni spinta del pollice, creando un feedback perverso tra necessità fisiologica e piacere. Non era solo il bisogno di urinare, era diventato parte dell’architettura del godimento, una nota bassa e costante che amplificava ogni altra sensazione come un amplificatore naturale.

Ogni movimento del suo pollice piegato premeva contro la parete vescicale, generando onde di pressione che si irradiavano attraverso il bacino come cerchi nell’acqua. La vescica diventava un secondo cuore che batteva al ritmo delle sue spinte, pompando urgenza attraverso terminazioni nervose che non distinguevano più tra bisogno e desiderio.

Era anatomia applicata con precisione chirurgica. Lui aveva trasformato il suo corpo in uno strumento a corda, dove ogni organo interno contribuiva alla sinfonia. La vescica piena faceva da cassa di risonanza, amplificando le vibrazioni che partivano dal clitoride e le rilanciava verso l’utero in un circolo virtuoso di pressione e rilascio che la faceva tremare dalle fondamenta.

Il bisogno di urinare si fondeva con l’eccitazione in un amalgama di sensazioni che non era più in grado di separare. Dove finiva l’urgenza e dove iniziava il godimento? I confini si dissolvevano mentre i due impulsi si alimentavano a vicenda in un circolo perverso di necessità.

Ogni movimento del pollice dentro di lei spingeva contro la vescica piena, mescolando disperazione e piacere in un cocktail inebriante che le annebbiava i pensieri. La pienezza interna amplificava ogni sensazione, come se la pressione avesse risvegliato terminazioni nervose sconosciute. Il climax si accumulava in onde sempre più intense, ma la necessità fisiologica ne impediva il rilascio, tenendola sospesa in un limbo di tensione insopportabile.

“Ti prego…” una flebile supplica le sfuggì dalla gola semi-serrata. “Ti prego, lasciami godere…” La seconda preghiera emerse più forte, più simile a un gemito animalesco che a parole articolate. “Ti prego… ti prego… ti prego…”

Quella voce, rauca, spezzata, disperata, era davvero la sua? La donna che aveva imparato a dire “per favore” sussurrando, che chiedeva scusa anche per esistere, ora supplicava come una cagna in calore. E la cosa più sconvolgente non era il tono animalesco che le usciva dalla gola, ma il fatto che ogni “ti prego” la faceva sentire più libera.

Marco non aveva mai sentito quella voce. Nessuno l’aveva mai sentita, nemmeno lei. Era la voce di una creatura che viveva sepolta sotto strati di educazione e buone maniere, e che ora emergeva dalle viscere con la forza di un geyser. Non era vergogna quello che provava – era riconoscimento. Come quando ti guardi allo specchio dopo anni e finalmente vedi chi sei davvero.

Ecco chi sono, pensò mentre aspettava la sua risposta. Una che implora. Una che ha fame. Una che non ha paura di mostrare i denti.

Lui, con tutti i sensi sintonizzati su di lei, sapeva che poteva resistere ancora. Contò mentalmente altri quindici secondi mentre lei continuava a mugolare la sua litania di supplica, ogni “ti prego” più disperato del precedente. Contemporaneamente aveva fatto scivolare l’altra mano sotto di lei, massaggiandole la pancia, stimolandole ulteriormente l’urgenza della minzione che giocava con il plug che invadeva sempre più la parte di lei finora inviolata. E tutto questo causava un corto circuito di emozioni e sensazioni che rendeva sempre più difficile cercare di gestire il controllo.

“Ora!” Tre lettere, una parola, un comando. “Ora dammi quell’orgasmo.” Le dita aumentarono forza e velocità. Il braccio gli doleva per lo sforzo, ma non aveva alcuna intenzione di concedersi tregua. Non dovette ripetere l’ordine. Giulia obbediva, esplodendo in un orgasmo che la combinazione di stimolazione prolungata e vescica piena trasformava in un’esperienza totale, debordante. Un’ondata dopo l’altra, il piacere la sommergeva, forse uno, forse due orgasmi, l’intensità e la durata non permettevano più di distinguere dove finisse uno e iniziasse l’altro.

Senza concederle più di qualche secondo di tregua, sentì le dita di Dago concentrare ogni sforzo sul suo clitoride, sfregandolo con un’irruenza primitiva che il tocco delicato di Marco non le aveva mai fatto conoscere. “Ancora, non pensare che mi accontenti, dammene un altro…”

I portoni del godimento, ormai spalancati, non offrivano più resistenza. Quel massaggio rude sulla clitoride, al limite del dolore, le strappava orgasmi come confessioni sotto tortura. Il suo corpo obbediva all’imposizione di godimento come un animale addestrato che risponde al comando del padrone. La lussuriosa ormai sovrastava completamente la santarellina, relegandola in un angolo remoto della sua coscienza mentre la parte fisica si abbandonava alla cascata di sensazioni. Riuscì a contarne tre, tre orgasmi clitoridei, intensi, consecutivi, che la lasciarono tremante come una foglia in una tempesta d’autunno. Il plug si muoveva, accentuando, evidenziando le contrazioni del suo ano.

Le gambe oscillavano tra la mollezza e convulsioni incontrollate. Scariche elettriche post-orgasmiche percorrevano ogni nervo dal cuoio capelluto alle dita dei piedi. Le sue labbra tentavano di articolare parole, ma producevano solo suoni primordiali, frammenti di imprecazioni, sillabe sconnesse che non appartenevano a nessuna lingua conosciuta.

Fece un passo indietro. La osservava, respirava profondamente, imponendosi un controllo che costava uno sforzo visibile. In altre circostanze avrebbe già liberato la propria erezione, oramai dolorosa, per affondarla in uno di quei buchi che lo chiamavano con il canto di sirene. “Respira… mantieni il controllo… respira…” si ripeteva mentalmente come un mantra.

Simultaneamente ammirava lo spettacolo che aveva creato. Quel corpo in preda a convulsioni orgasmiche, quella figa che continuava a gocciolare umori che bagnavano le cosce e il pavimento. Il plug si muoveva al ritmo del suo desiderio, evidenziando le contrazioni del suo ano che sembravano chiedere di più. Parafrasando Michelangelo, avrebbe voluto urlarle “Perché non squirti?”, ma sapeva di avere ancora tempo e qualche asso nella manica.

Inspirò un’ultima volta, profondamente, poi prese il suo strumento di tortura preferito: la magic wand. Giulia vagava tra galassie di sensazioni, persa in spazi siderali di godimento, inconsapevole che lui avesse smesso di toccarla da minuti. Forse, nel frattempo, aveva vissuto un altro orgasmo spontaneo. No, lui se ne sarebbe accorto.

Accese il vibratore, portandolo direttamente alla seconda velocità, e lo appoggiò con decisione direttamente sulla clitoride ipersensibile. La reazione di Giulia fu un urlo che era una miscela di sorpresa e piacere in proporzioni impossibili da distinguere, si inarcava, bloccata dalle corde come un animale in trappola. “Io non…. Io…. Io…” Le parole le morivano in gola mentre un altro orgasmo, ancora più devastante, le strappava le ultime vestigia di controllo. Questa volta, piccoli schizzi di liquido trasparente testimoniavano la profondità della sua resa.

“Ancora…” ordinò lui, aumentando l’intensità di un livello. La clitoride di Giulia oscillava tra insensibilità e dolore acuto, ma la potenza del vibratore ignorava ogni resistenza, imponendo un nuovo picco di climax. “Godoooo… cazzo… godoooooo…” La lussuriosa aveva preso definitivamente il sopravvento, la sua voce roca e animalesca che riecheggiava nella stanza mentre la santarellina, ormai muta, assisteva impotente alla propria disfatta.

Mentre la pietà avrebbe suggerito di fermarsi, lui annusava l’insaziabilità che pervadeva quella mente perversa, nascosta in quel fisico che sembrava nato per godere. Era questo riconoscimento, di trovarsi davanti a una creatura affamata quanto lui, che lo spingeva oltre ogni ragionevole limite.

Dago esisteva ora in uno stato alterato di coscienza, quella rarissima condizione che alcuni chiamano “top space”. Ad ogni orgasmo di Giulia aumentava la pressione e l’intensità dello strumento, accompagnandola verso vette sempre più impossibili, finché l’ultimo orgasmo esplose con tale violenza che il gemito finale si trasformò in un singhiozzo straziato. L’ondata orgasmica la devastò con tale intensità che i muscoli più profondi si ribellarono, scagliando via il plug come un corpo estraneo in una tempesta di carne.

Quello fu il momento preciso in cui capì di aver attraversato una soglia da cui non si torna. Non era più padrona nemmeno dei muscoli più intimi, quelli che aveva sempre creduto sotto il suo controllo assoluto. Il suo corpo aveva appena preso una decisione autonoma, espellendo quell’oggetto con una violenza che la lasciò senza fiato.

Era come guardare un’estranea al lavoro. Questa creatura che si contorceva sul tavolo, che perdeva fluidi e controllo con la stessa naturalezza con cui respirava, non poteva essere lei. Eppure, era proprio lei, anzi, era finalmente lei. Quella che era sempre esistita sotto la superficie, repressa e nascosta, ora emergeva con la forza di un’eruzione vulcanica.

Non c’è più niente di me che lui non controlli, pensò, e invece di terrore provò una liberazione vertiginosa. Era stata sollevata dal peso di essere responsabile di sé stessa. Ogni muscolo, ogni riflesso, ogni gemito – tutto apparteneva ormai a lui. E cazzo, quanto era bello non dover più fingere di essere forte.

Rimase in piedi a guardarla, in uno stato di trance. La wand che vibrava impazzita nella sua mano, il petto che si sollevava rivelando il suo stesso affanno, nulla di paragonabile allo stato in cui versava Giulia. Lei tremava in preda a convulsioni autonome, micro-orgasmi che continuavano a propagarsi come scosse di assestamento dopo un terremoto. Le contrazioni ritmiche della vagina e dell’ano, visibili persino dall’esterno, stimolavano incessantemente terminazioni nervose ormai sovraccariche, generando nuove onde di godimento in un circolo apparentemente infinito.

Socchiuse gli occhi e respirò. Quattro tempi per inspirare, due tempi di pausa, otto tempi per espirare, due tempi di pausa. Aveva promesso, doveva mantenere il controllo. Il cuore gli martellava nel cervello come valvole impazzite di un motore al massimo dei giri. L’erezione compressa nei pantaloni diventava sempre più dolorosa, ma… aveva dato la sua parola. Iniziava a sentire, a riconoscere, le sensazioni che provava da adolescente, dopo ore di baci e carezze, senza dare sfogo al bisogno sessuale. Un gran dolore di palle, come se te le avessero prese a calci. Sarebbe stato così facile tirarlo fuori e affondare in uno qualsiasi di quei buchi offerti, con lei completamente inerme e abbandonata. Ma no, aveva promesso. Non avrebbe tradito lei, né la propria parola, né l’uomo che voleva essere.

Quattro tempi per inspirare, due tempi di pausa, otto tempi per espirare, due tempi di pausa. Nonostante l’eccitazione non diminuisse, il controllo tornava gradualmente. Quattro tempi per inspirare, due tempi di pausa, otto tempi per espirare, due tempi di pausa. Il battito rallentava, permettendogli di avvicinarsi nuovamente a lei, di accarezzare quel corpo devastato dal piacere, di ristabilire quel contatto essenziale.

“Sei ancora qui con noi?” La sua voce era tornata calma, bassa, controllata – un faro nella tempesta emotiva in cui Giulia ancora annaspava. “Era questo quello che mi avevi chiesto, o mi sbaglio?” Le sue mani ricominciarono ad accarezzarla, creando ponti di connessione che la tempesta di orgasmi aveva tentato di distruggere. La mano percorreva la sua schiena con tocco leggero ma deciso, che sembrava avere poteri taumaturgici.

Gradualmente, anche il respiro di Giulia iniziò a cambiare ritmo. Le gambe, i muscoli, smettevano di contrarsi involontariamente, come se il corpo stesse rientrando in possesso di sé stesso. Solo la vagina continuava a pulsare autonomamente, vivendo di vita propria.

Da lontano, come attraverso un lungo tunnel, sentì la propria voce emergere. “Non so più cosa sono… non so più chi sono…” Faticava a riconoscere quelle parole tremanti come proprie.

Era come se qualcuno avesse cancellato il file principale del suo sistema operativo, lasciando solo frammenti di codice sparsi. La Giulia che era entrata in quell’appartamento – quella creatura grigia che compilava fogli Excel e stirava camicie con la precisione di un automa – era morta orgasmo dopo orgasmo, sostituita da questa cosa pulsante che non sapeva più dove finiva il piacere e dove iniziava l’identità.

Non era spaventoso come aveva immaginato, questo naufragio del sé. Era più simile a quando togli un vestito troppo stretto dopo averlo portato per anni: all’inizio ti senti nuda e vulnerabile, poi realizzi che puoi finalmente respirare. Aveva vissute quattro decadi dentro una corazza di aspettative, e ora che se l’era tolta non sapeva più dove fosse la carne e dove il metallo.

Chi cazzo sono adesso? La domanda non le provocava panico, le provocava curiosità. Come un’archeologa che scava tra le rovine di una civiltà perduta, poteva iniziare a ricostruire sé stessa pezzo per pezzo, ma questa volta scegliendo lei quali frammenti conservare e quali buttare nella spazzatura della storia.

Era il tipo di libertà che ti paralizza e ti libera nello stesso istante. Terrificante e bellissima come il primo respiro dopo essere quasi annegata.

Si ascoltava, abbandonata contro il legno massiccio, consapevole che senza le corde sarebbe crollata a terra come una marionetta con i fili tagliati. Si sentiva svuotata e colmata allo stesso tempo, come se qualcosa fosse stato estratto da lei solo per essere sostituito con qualcosa di nuovo, di sconosciuto.

Provò a ricostruire mentalmente la sequenza di eventi, ma il tempo aveva perso ogni linearità. Non riusciva più a determinare quanto fosse trascorso dall’inizio di quel rituale di appagamento. Tentò di contare gli orgasmi vissuti, ma la sua mente poteva offrire solo una risposta: tanti. Troppi per essere numerati, troppi per essere contenuti nella memoria di quella donna che era stata prima di salire quelle scale, prima di oltrepassare quella soglia.

Lo percepì muoversi dietro di lei. Il suo passo era diverso ora, più controllato ma anche più predatorio, come se stesse cercando il momento perfetto per sferrare un attacco decisivo. Mentre tentava di immaginare cosa avesse ancora in serbo per lei, cercò di ricordare quali oggetti avesse già usato e quali giacessero ancora intatti sul tavolo.

Intanto nella sua mente riprese il dibattito tra le due personalità. L’educanda terrorizzata dalla libertà e la donna insaziabile nata quel pomeriggio. Da un lato, la vergogna bruciante per aver provato tanto piacere, per averlo implorato, per essersi offerta come un oggetto nelle mani di uno sconosciuto. Dall’altro, la curiosità vorace di scoprire cos’altro potesse riservarle quell’uomo, fin dove potesse spingersi il suo corpo nel territorio inesplorato del godimento.

Mentre questi pensieri si rincorrevano, lo sentì di nuovo muoversi per la stanza, preparare la prossima mossa.

Un fruscio sordo, come di qualcosa di morbido che scivolava su una superficie. Non il suono netto degli strumenti metallici, ma qualcosa di organico, quasi vivo. Giulia percepì il rumore di un oggetto che veniva sollevato dal tavolo, manipolato con cura, studiato prima dell’uso.

Poi il silenzio. Quel vuoto carico di promesse che precedeva sempre le sue mosse più devastanti. Il suo corpo si preparava istintivamente, ogni terminazione nervosa in allerta, sapendo che qualunque cosa stesse per arrivare l’avrebbe spinta oltre i confini che credeva di conoscere.
scritto il
2025-10-06
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