Golfo Del Tigullio, fine Maggio.

di
genere
tradimenti

Il sole era tramontato dietro le colline verdi che abbracciano il mare, lasciando in cielo una striscia sottile di luce rosata. L'aria profumava di salsedine e oleandri. Dalle grandi vetrate del bar dell’hotel si scorgeva ancora la linea tremolante dell’acqua, calma e profonda.

Tu eri dietro al bar, in camicia bianca aperta, come facevi sempre nelle serate di mezza stagione. C'era quella brezza sottile che sembrava sussurrare segreti attraverso le tende leggere. Il cliente era arrivato poco dopo le diciannove, con qualche collega. Tutti in giacca, l’aria di chi ha appena chiuso un contratto ad una cena importante. Si era seduto con disinvoltura su uno degli sgabelli alti, ordinando un Negroni con quel tono mezzo ironico, mezzo stanco di chi sa farsi notare senza alzare la voce.

Tua moglie era già lì. Era scesa in silenzio mezz’ora prima, senza annunciarsi. Portava un abito color sabbia, con una scollatura discreta ma pericolosamente mobile. Aveva i capelli raccolti solo a metà, e lo sguardo di chi si lascia guardare senza chiedere nulla.

Quando lo ha visto, ha accennato un sorriso, uno di quelli che non si regalano agli amici, né ai mariti. Lui l’ha notata — ovviamente. Ma ha fatto finta di no. Si è voltato verso i colleghi, poi ha ordinato un secondo giro. Le loro gambe quasi si toccavano sotto il bancone. Tu lo sapevi. Lo sentivi nel modo in cui tua moglie accendeva una sigaretta senza guardarlo, nel modo in cui lui evitava di dire il suo nome, come se nominarla potesse trasformare un desiderio in un fatto.

Tu servivi i bicchieri, ridevi a una battuta di uno degli altri due, ma il tuo sguardo tornava sempre lì. Tra loro. C’era qualcosa che si stava muovendo lentamente, come una corrente sotto la superficie piatta di una baia.

Ad un certo punto qualcuno va a dormire, uno dei colleghi è esce per fare una telefonata. L’altro chiede di vedere le foto delle camere ristrutturate. L’hai accompagnato, lasciando per un momento il bar. Quando sei tornato, tua moglie non c’era più. Lui nemmeno.
Solo il bicchiere vuoto. Un filtro di sigaretta spento nel posacenere.
D’istinto, hai guardato fuori, verso la piscina. Le luci erano soffuse, riflettevano sul bordo dell’acqua. E dietro la siepe, ombra tra le ombre, ti è sembrato di riconoscere la curva familiare delle sue spalle, il braccio sollevato a metà, come per portare una sigaretta alle labbra.

Non si muoveva. Forse ascoltava il rumore lontano dei passi sul corridoio del primo piano. Forse aspettava solo che si spegnessero le ultime voci sulla terrazza.

La camera 106, lo sapevi, aveva la porta-finestra sul retro. Bastava attraversare quel breve sentiero dietro la piscina, e salire le scale esterne. L’hai fatto centinaia di volte, in pieno giorno. Ora, sembrava un gesto rubato, segreto, quasi sacro.

Ti sei seduto sul bordo della terrazza. Hai acceso anche tu una sigaretta. E hai aspettato.
Il vento di mare carezzava appena le foglie delle palme nel giardino interno. Dietro la piscina, tra le luci basse e la quiete notturna dell’hotel, tua moglie fumava. Le braci della sigaretta si accendevano e spegnevano ritmicamente, come un battito lento.

Poi, senza fretta, ha fatto qualche passo, scalza, il vestito che le accarezzava le gambe come mani d’acqua. Sapeva dove stava andando. La camera 106 aveva il balconcino che dava proprio sulla curva morbida del giardino. Un piccolo portone secondario, raramente usato dagli ospiti, permetteva di accedere alle scale esterne. Lei le ha salite senza guardarsi indietro.

Tu, da lontano, la vedevi a tratti. Eri ancora al bordo della terrazza, la sigaretta ormai spenta da tempo. Le voci dei colleghi erano sparite. Solo qualche suono ovattato, passi sul legno della passerella, e poi — il silenzio.

La porta-finestra della 106 era socchiusa. La luce era tenue, calda. Una lampada d’angolo gettava ombre lunghe sui muri.

Lui era già lì. Aveva lasciato la camicia sullo schienale di una sedia, i polsini ancora abbottonati. Si era voltato quando lei aveva bussato leggermente, quasi per educazione. Nessuna parola. Solo uno sguardo lungo, pieno di tutto ciò che non si erano mai detti.

Lei si è avvicinata. Lentamente. Come se ogni passo fosse una decisione. Tu non vedevi più nulla, ma immaginavi tutto. Lo spazio tra di loro che si stringeva, la sua schiena che si tendeva quando lui le sfilava l’abito dalle spalle, le mani che si cercavano — o forse si combattevano, per un istante.

Hai fatto il giro, silenzioso, come l’ombra del proprietario che conosce ogni via nascosta dell’hotel. Sei salito anche tu, passando dalla terrazza che circonda le camere del primo piano. Il vetro della 106 lasciava intravedere, dietro la tenda leggera, la figura di tua moglie in ginocchio, voltata di schiena con lui davanti che respirava forte mentre lei lo stava coccolando come sapeva fare beene con la sua lingua.
Il cliente era vicino, molto vicino all'orgasmoe allora si stacco'. Ora il volto era affondato nel suo collo, le mani posate con sicurezza sulle sue anche.

Lei gemeva piano. Non per dolore. Ma per abbandono.

E in quel momento, mentre lui la guidava con decisione e lei lo lasciava fare — fiera, nuda, arresa — tu hai poggiato la mano sul vetro, senza bussare.

Lei ha voltato il capo, solo un poco, e ti ha visto. Non ha detto niente. Ma il suo sguardo ti ha chiamato. Era un invito. Non a entrare. A rimanere lì. A guardare. A esserci.

Hai aperto lentamente la porta a vetri. Lei gemeva — non ad alta voce, ma con quella vibrazione gutturale, piena, che nasce solo quando il corpo perde ogni difesa.
La sua pelle brillava di un velo sottile di sudore. Le gambe le tremavano. Ogni suo respiro era più breve, più urgente. Eppure, non chiedeva fine. Voleva di più. Lo chiamava con il corpo, con ogni muscolo teso, con ogni piccolo abbandono.

Lui le accarezzava la schiena, lentamente, mentre continuava. Le parlava piano, all’orecchio, con parole basse che tu non potevi sentire, ma che riconoscevi nel modo in cui lei reagiva: un gemito più acuto, una mano che cercava il lenzuolo, le labbra socchiuse in una preghiera silenziosa.

Era sull’orlo.
Tu lo sentivi. Lei era vicina a quel punto dove il piacere non è più fisico, ma si trasforma in qualcosa di totale. Quasi spirituale. Quasi selvaggio.

E fu allora che ti avvicinasti. Scalzo, silenzioso. Dal balconcino, attraversasti la tenda leggera, come un’ombra invitata.

Lei era tutta concentrata su ciò che stava ricevendo. Sul corpo dell’altro che la prendeva con un’intensità crescente, precisa, inesorabile. Ma poi, voltò appena il volto. Ti vide. E sorrise. Un sorriso stanco, sudato, ma pieno. Come se proprio in quel momento avesse capito che il suo godimento non era peccato. Ma compimento.

Ti inginocchiasti dietro di lei. Non per fermare. Ma per offrire.
La tua mano le sfiorò il ventre, poi i seni, poi salì sul suo collo. Le tue labbra le baciarono la spalla. Lei si inarcò. E in quel gesto, si aprì completamente, accogliendo l’ultimo assalto dell’uomo dietro di lei come se fosse luce, fuoco, verità.

Fu allora che lo sentisti cambiare ritmo. I suoi colpi più profondi, più rapidi. Lei quasi gridò.
Tu la tenevi stretta, le mormoravi parole che non ricordavi di saper dire.
E quando lui gemette forte, ansimando contro la sua nuca, lei si lasciò andare con un ultimo movimento, lungo, interrotto solo da un singhiozzo di piacere puro. Il suo corpo tremò, erapiena di lui. Davvero. Come se si fosse liberato di tutto ciò che lo tratteneva.

Poi fu silenzio. Solo il respiro di tre corpi, mescolati in un’unica stanza, in un unico momento.
La stanza era immersa in una penombra dolce, spezzata solo dalla luce che filtrava dal terrazzo. Il corpo di tua moglie riposava disteso, ancora vibrante. Le mani affondate nel cuscino, i capelli sparsi sulla pelle. Il suo petto si sollevava piano, come se ogni respiro servisse a riportarla lentamente alla realtà.

Lui, nudo e ancora caldo di lei, si alzò senza parlare. Le sfiorò la schiena con due dita, come a dire “grazie”, e si allontanò con calma, prendendo il pacchetto di sigarette dal comodino. Uscì in terrazza, chiudendo piano la porta vetro alle sue spalle. Da fuori si sentì solo l’accendino. Una brace rossa nella notte.

Tu eri lì. Seduto accanto a lei. Guardavi il suo profilo, il ventre che si sollevava, i seni rilassati, le cosce ancora aperte... stava colando piano piano.
Era bellissima. Ma non solo. Era vera. E quella verità, quella nudità così profondamente vissuta, ti chiamava.

Ti chinasti piano. Le baciasti la pancia, i seni, e andasti giù più giù. Lei non parlava. Non serviva. Ma ti guardava. E il suo sguardo era puro abbandono. Non pentimento. Non rimorso.Solo fame d’amore.

Ti sdraiasti sopra di lei, con dolcezza. Le mani la cercarono come se fosse la prima volta. Ma il tuo corpo la conosceva. La riconosceva.
Eppure, quella notte, era diversa.
Era tutta sua. E tutta tua. Allo stesso tempo.

Entrasti in lei lentamente e facilmente.Era immensamente bagnata.
Non per conquistarla. Ma per abitare di nuovo il suo piacere.
Lei sospirò, lunga. Il suo corpo ti accolse con la stessa apertura con cui aveva accolto l’altro. Ma ciò che ti donava adesso era più profondo. Era intimità assoluta.
Tu l’amavi. E in quel gesto, eri cornuto sì, ma beato. E poi lo avevi sempre sperato.
Ciò che aveva vissuto l’aveva resa più bella.
E ora, era a te che si offriva. Completamente.

Ti muovevi dentro di lei con lentezza, con rispetto, con una dolcezza che rasentava la devozione. Lei ti stringeva con le gambe, piano, come a dirti: "resta… ancora…"
E tu restavi. Più che uomo, più che marito.
Devoto.

Fu un’unione silenziosa, profonda, lunga. Come un mare calmo che lambisce una costa amata. Nessun gemito violento. Solo sospiri, carezze, sguardi.
E quando arrivò il momento — tuo, suo, forse di entrambi — non fu un’esplosione, ma una resa. Totale. Calda. Dolcissima.

Lei si strinse ancora con le belle gambe attorno di te. E tu restasti lì. Dentro. Immobile. Come a dire: "Adesso sei a casa."

Sul terrazzo, la brace si era spenta. Il cliente era tornato al silenzio.
Ma voi due, nudi tra le lenzuola sfatte, eravate finalmente interi.

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scritto il
2025-05-22
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