Hotel Villa sul Lago Maggiore ... in Ottobre
di
GF
genere
corna
Villa ...
La suite aveva una luce morbida e dorata nel tardo pomeriggio. Dalle finestre si vedeva il lago, placido, quasi irreale. Il soppalco in legno massiccio dominava la stanza, con la scala curva che lo univa al letto a baldacchino sotto.
Mia moglie era in lingerie, le calze con la riga dietro, un vestito in seta trasparente sopra. Camminava scalza sul parquet, un bicchiere in mano. E sapeva esattamente quello che stava facendo.
Avevamo chiamato il room service per due flûte di Champagne e qualcosa di dolce. Venti minuti dopo, bussarono.
Un ragazzo giovane, forse ventidue, ventitré. Pulito, timido, impacciato ma curioso. Lo capii subito dallo sguardo: cercava di non fissarla troppo, ma il desiderio gli si leggeva in faccia.
Lei lo guardò dritto, poi mi guardò. Io sorrisi appena.
«Metta pure lì, sul tavolino.»
La voce di lei era morbida, suadente, con quell’accento rotondo e sensuale che sapeva usare solo quando giocava.
Mentre il ragazzo sistemava il vassoio, lei fece due passi indietro, salì lentamente due gradini della scala del soppalco. Il vestito scivolava appena sopra le cosce. Niente intimo. Lo sapevamo entrambi.
Il ragazzo si voltò, e il suo sguardo inciampò tra le gambe di lei. Le mani gli tremarono appena. Poi cercò di mascherarlo.
«Serve altro, signora?»
Lei sorrise. «Tu cosa ci porteresti… se potessi restare?»
Silenzio. Poi lui arrossì.
«Mi sa che per adesso... va bene così.»
Se ne andò quasi correndo. Ma sappiamo entrambi che si sarebbe ricordato per tutta la notte di quello scorcio di pelle e sguardo.
Appena chiusa la porta, mi guardò da sopra la scala.
«Hai visto come mi ha guardata?», mi chiese.
«Come se volesse inginocchiarsi e leccarti lì, sul gradino.»
Lei si toccò tra le gambe. «E se domani lo chiamassimo di nuovo? Magari con una scusa… magari mentre mi tocchi... e io non smetto nemmeno se lui entra.»
Il pomeriggio successivo, chiamammo di nuovo. Stavolta per un servizio semplice: una bottiglia d’acqua e due asciugamani extra.
Lei era già stesa sul letto, le gambe divaricate, un dito che scivolava lento tra le labbra. Io in poltrona, pantaloni aperti, già pronto.
Quando bussò, lei non si mosse.
«Vai tu. Ma non coprirmi.»
Aprii.
Il ragazzo entrò con gli occhi bassi, poi alzò lo sguardo. E la vide. Distesa. Aperta. Viva.
Arrestò il respiro per un secondo. Le mani si strinsero sul vassoio. Ma non disse nulla.
Io gli sorrisi.
«Posi pure lì. E… sì, sta vedendo quello che pensa di vedere.»
Lui non rispose. Solo un cenno.
Lei gemeva piano. «Hai voglia di restare a guardare, ragazzo? O sei uno di quelli che scappa?»
Lui indietreggiò, confuso, eccitato. Non rispose. Uscì con gli occhi pieni e la bocca tremante.
Appena la porta si chiuse, saltai su di lei.
«Brava porca mia… gli hai fatto vedere tutto. Sei la mia troia da esposizione, eh?»
Lei rideva, rideva sporca, mentre mi guidava dentro.
«Cornuto… lo sai che adesso si toccherà pensando a me, vero?»
«E io mi toccherò pensando a te che gli apri le cosce e gli dici… ‘assaggia se ne hai il coraggio’.»
Era l’ultima notte. La stanza era immersa nella luce calda delle abat-jour. Il lago fuori era scuro, silenzioso. Una bottiglia di vino rosso aperta da un’ora, il bicchiere a metà.
Lei si voltò verso di me sul letto.
«Lo voglio. Lo sai. Ma solo se mi dici tu di prenderlo.»
Io la guardai. Era bellissima. Truccata come la prima sera, in lingerie nera. Le cosce nude, aperte, pronte.
«Scrivigli. Dì che siamo soli. Che vogliamo ringraziarlo per il servizio.»
Alle 22:43 bussò.
Aprii. Era vestito semplice, un jeans, una polo. Ma negli occhi aveva quel fuoco che solo chi è stato troppo a lungo al limite conosce.
«Entra.», gli dissi. «Sei il nostro ospite… e il nostro regalo.»
Lei era sdraiata sul letto, gambe aperte, una mano tra le cosce, le dita già bagnate.
Lui fece un passo avanti. Guardava solo lei.
«Ti è piaciuto guardare…», sussurrò lei. «Adesso tocca a te. Ma voglio farlo davanti a lui. Il mio cornuto preferito. Vuoi?»
Lui annuì. Non parlava quasi, ma il corpo parlava per lui.
Si spogliò. Il membro era duro, gonfio, tremava d’ansia e desiderio.
Lei si mise a carponi sul letto, girandosi verso di me.
«Vuoi vedere come mi prende?», mi chiese.
«Sì. Ma prima... baciagli la cappella. Lentamente.»
Lei lo prese in bocca, guardandomi. Profonda. Poi si stese.
Lui si avvicinò, tremante. Si fermò un istante. Poi la penetro'.
Entrò in lei con un singhiozzo strozzato. Lei gridò piano, sorpresa dalla forza. Lui cominciò a spingerle dentro, con ritmo irregolare, affamato. Le mani le stringevano i fianchi, la tenevano stretta come se volesse annegare in lei.
Io guardavo. Mi masturbavo lentamente. Era mio il quadro. Mie le regole.
«Ti piace, porca?», le chiesi.
«Sì… sì… mi scopa forte… come un ragazzo che mi sognava da giorni…»
«E tu sei la troia dell'hotel che si fa fottere davanti al marito, eh?»
«Sì… sono la tua puttana devota… e tu sei il mio cornuto... ti amo proprio perché mi fai essere così...»
Lui accelerava. Stava per venire.
«Dillo», le urlai.
«Vieni dentro… riempimi tutta… voglio portare anche il tuo seme addosso a casa…»
E lui venne, con una sborrata potente. Forte. Tutto Dentro. Tremando. poi si abbandono' su di lei.
Lei non si mosse. Respirava pesante. Io mi avvicinai. E senza dire una parola, presi il suo posto. Duro, pronto, assetato.
La penetrai subito. Calda. Piena. Mia.
«Ora la gatta la riempio e poi la pulisco io.»
Spingevo dentro, forte, come se volessi cancellare ogni traccia, e allo stesso tempo conservarla. era veramente piena di sperma e gemeva.
«Sporcami… confondi le sborre… vieni tua un’altra volta… fino al cuore…»
E io venni. Dentro. Lentamente. In silenzio.
Poi ci sdraiammo. I tre corpi vicini, lenti, appagati. Il ragazzo si rivestì. Nessuna parola. Solo un sorriso, grato. Molto grato. Uscì.
Lei si voltò verso di me.
«Sei il mio uomo. Il mio padrone. E e io la tua troia.»
Le baciai la fronte. «tu la mia opera d’arte.»
La suite aveva una luce morbida e dorata nel tardo pomeriggio. Dalle finestre si vedeva il lago, placido, quasi irreale. Il soppalco in legno massiccio dominava la stanza, con la scala curva che lo univa al letto a baldacchino sotto.
Mia moglie era in lingerie, le calze con la riga dietro, un vestito in seta trasparente sopra. Camminava scalza sul parquet, un bicchiere in mano. E sapeva esattamente quello che stava facendo.
Avevamo chiamato il room service per due flûte di Champagne e qualcosa di dolce. Venti minuti dopo, bussarono.
Un ragazzo giovane, forse ventidue, ventitré. Pulito, timido, impacciato ma curioso. Lo capii subito dallo sguardo: cercava di non fissarla troppo, ma il desiderio gli si leggeva in faccia.
Lei lo guardò dritto, poi mi guardò. Io sorrisi appena.
«Metta pure lì, sul tavolino.»
La voce di lei era morbida, suadente, con quell’accento rotondo e sensuale che sapeva usare solo quando giocava.
Mentre il ragazzo sistemava il vassoio, lei fece due passi indietro, salì lentamente due gradini della scala del soppalco. Il vestito scivolava appena sopra le cosce. Niente intimo. Lo sapevamo entrambi.
Il ragazzo si voltò, e il suo sguardo inciampò tra le gambe di lei. Le mani gli tremarono appena. Poi cercò di mascherarlo.
«Serve altro, signora?»
Lei sorrise. «Tu cosa ci porteresti… se potessi restare?»
Silenzio. Poi lui arrossì.
«Mi sa che per adesso... va bene così.»
Se ne andò quasi correndo. Ma sappiamo entrambi che si sarebbe ricordato per tutta la notte di quello scorcio di pelle e sguardo.
Appena chiusa la porta, mi guardò da sopra la scala.
«Hai visto come mi ha guardata?», mi chiese.
«Come se volesse inginocchiarsi e leccarti lì, sul gradino.»
Lei si toccò tra le gambe. «E se domani lo chiamassimo di nuovo? Magari con una scusa… magari mentre mi tocchi... e io non smetto nemmeno se lui entra.»
Il pomeriggio successivo, chiamammo di nuovo. Stavolta per un servizio semplice: una bottiglia d’acqua e due asciugamani extra.
Lei era già stesa sul letto, le gambe divaricate, un dito che scivolava lento tra le labbra. Io in poltrona, pantaloni aperti, già pronto.
Quando bussò, lei non si mosse.
«Vai tu. Ma non coprirmi.»
Aprii.
Il ragazzo entrò con gli occhi bassi, poi alzò lo sguardo. E la vide. Distesa. Aperta. Viva.
Arrestò il respiro per un secondo. Le mani si strinsero sul vassoio. Ma non disse nulla.
Io gli sorrisi.
«Posi pure lì. E… sì, sta vedendo quello che pensa di vedere.»
Lui non rispose. Solo un cenno.
Lei gemeva piano. «Hai voglia di restare a guardare, ragazzo? O sei uno di quelli che scappa?»
Lui indietreggiò, confuso, eccitato. Non rispose. Uscì con gli occhi pieni e la bocca tremante.
Appena la porta si chiuse, saltai su di lei.
«Brava porca mia… gli hai fatto vedere tutto. Sei la mia troia da esposizione, eh?»
Lei rideva, rideva sporca, mentre mi guidava dentro.
«Cornuto… lo sai che adesso si toccherà pensando a me, vero?»
«E io mi toccherò pensando a te che gli apri le cosce e gli dici… ‘assaggia se ne hai il coraggio’.»
Era l’ultima notte. La stanza era immersa nella luce calda delle abat-jour. Il lago fuori era scuro, silenzioso. Una bottiglia di vino rosso aperta da un’ora, il bicchiere a metà.
Lei si voltò verso di me sul letto.
«Lo voglio. Lo sai. Ma solo se mi dici tu di prenderlo.»
Io la guardai. Era bellissima. Truccata come la prima sera, in lingerie nera. Le cosce nude, aperte, pronte.
«Scrivigli. Dì che siamo soli. Che vogliamo ringraziarlo per il servizio.»
Alle 22:43 bussò.
Aprii. Era vestito semplice, un jeans, una polo. Ma negli occhi aveva quel fuoco che solo chi è stato troppo a lungo al limite conosce.
«Entra.», gli dissi. «Sei il nostro ospite… e il nostro regalo.»
Lei era sdraiata sul letto, gambe aperte, una mano tra le cosce, le dita già bagnate.
Lui fece un passo avanti. Guardava solo lei.
«Ti è piaciuto guardare…», sussurrò lei. «Adesso tocca a te. Ma voglio farlo davanti a lui. Il mio cornuto preferito. Vuoi?»
Lui annuì. Non parlava quasi, ma il corpo parlava per lui.
Si spogliò. Il membro era duro, gonfio, tremava d’ansia e desiderio.
Lei si mise a carponi sul letto, girandosi verso di me.
«Vuoi vedere come mi prende?», mi chiese.
«Sì. Ma prima... baciagli la cappella. Lentamente.»
Lei lo prese in bocca, guardandomi. Profonda. Poi si stese.
Lui si avvicinò, tremante. Si fermò un istante. Poi la penetro'.
Entrò in lei con un singhiozzo strozzato. Lei gridò piano, sorpresa dalla forza. Lui cominciò a spingerle dentro, con ritmo irregolare, affamato. Le mani le stringevano i fianchi, la tenevano stretta come se volesse annegare in lei.
Io guardavo. Mi masturbavo lentamente. Era mio il quadro. Mie le regole.
«Ti piace, porca?», le chiesi.
«Sì… sì… mi scopa forte… come un ragazzo che mi sognava da giorni…»
«E tu sei la troia dell'hotel che si fa fottere davanti al marito, eh?»
«Sì… sono la tua puttana devota… e tu sei il mio cornuto... ti amo proprio perché mi fai essere così...»
Lui accelerava. Stava per venire.
«Dillo», le urlai.
«Vieni dentro… riempimi tutta… voglio portare anche il tuo seme addosso a casa…»
E lui venne, con una sborrata potente. Forte. Tutto Dentro. Tremando. poi si abbandono' su di lei.
Lei non si mosse. Respirava pesante. Io mi avvicinai. E senza dire una parola, presi il suo posto. Duro, pronto, assetato.
La penetrai subito. Calda. Piena. Mia.
«Ora la gatta la riempio e poi la pulisco io.»
Spingevo dentro, forte, come se volessi cancellare ogni traccia, e allo stesso tempo conservarla. era veramente piena di sperma e gemeva.
«Sporcami… confondi le sborre… vieni tua un’altra volta… fino al cuore…»
E io venni. Dentro. Lentamente. In silenzio.
Poi ci sdraiammo. I tre corpi vicini, lenti, appagati. Il ragazzo si rivestì. Nessuna parola. Solo un sorriso, grato. Molto grato. Uscì.
Lei si voltò verso di me.
«Sei il mio uomo. Il mio padrone. E e io la tua troia.»
Le baciai la fronte. «tu la mia opera d’arte.»
2
9
voti
voti
valutazione
5.9
5.9
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Vacanze di natale in Scandinavia
Commenti dei lettori al racconto erotico