Nebbia alla fine del giorno
di
GF
genere
gay
"Nebbia alla fine del giorno"
La nebbia cadeva pesante sulla campagna. Era autunno inoltrato, e ogni cosa sembrava stanca, sospesa tra il freddo e l’umidità. I vetri rotti della vecchia fabbrica lasciavano entrare solo una luce grigia, opaca, che si spegneva lentamente tra le travi marce e le pareti sporcate dal tempo.
Il dottor Giulio si era spinto lì per istinto. Nessun pensiero lucido. Solo un bisogno. Un richiamo antico e animalesco. Si era tolto il cappotto e lo aveva lasciato accanto a un vecchio banco da lavoro, come se stesse aspettando qualcosa, o qualcuno.
Fu allora che li vide.
Due figure all’ingresso. Alte, larghe, rozze nei gesti. Contadini, probabilmente della cascina poco distante. L’avevano seguito con lo sguardo mentre attraversava i campi nel pomeriggio, solo, elegante, fuori posto in quel paesaggio fangoso.
Uno dei due fece un passo avanti. L’altro lo seguì subito, senza dire una parola. Giulio restò fermo. Era come se il suo corpo sapesse già cosa stava per succedere. Non c’era violenza nei loro gesti, ma nemmeno dolcezza. Solo una calma ruvida, fatta di mani callose e sguardi pesanti.
Lo circondarono. Uno dietro, uno davanti. Lo spazio si chiuse. Giulio abbassò lo sguardo, quasi con deferenza. Sentì la mano del primo afferrargli il mento, sollevarlo con fermezza, obbligandolo a guardare. L’altro gli sfiorò la schiena, lenta, fino ad arrivare al fondo della camicia.
— “Ti piace perderti qui?” — chiese uno dei due, con voce roca.
— “Sei venuto per sentirti come devi...” — aggiunse l’altro, già con le mani sui fianchi di Giulio, stringendo come a volergli ricordare a chi apparteneva ora quel corpo.
La fabbrica si fece silenziosa. Solo il rumore dei respiri, delle dita che strappavano bottoni, del metallo che cigolava sotto il peso dei passi.
Lo spinsero contro un vecchio tavolo in ferro. Il freddo gli corse lungo il ventre nudo e lo fece rabbrividire. Ma non cercò di resistere. Anzi. Restò lì, in silenzio, le mani aperte sulla lamiera graffiata, pronto a lasciarsi fare. Come se quel gesto di resa fosse l’unica cosa che lo rendesse intero.
Uno dei due si chinò su di lui, il fiato caldo e acre al collo.
— “Guarda come lo vuoi… guarda come ti cede.” — disse al compagno, mentre le sue mani scorrevano lente sotto la camicia, aprendola completamente fino a lasciarla pendere, inutile.
L’altro, senza dire nulla, si inginocchiò dietro di lui. Le mani grandi gli presero i fianchi con forza. Le dita affondavano nella carne come a marchiarlo. Poi le spalancò, le natiche, con un gesto secco, deciso. Giulio ansimò. Non di dolore, ma d’attesa.
Un dito, bagnato di saliva, esplorò con lentezza quella fessura che sembrava chiamarli da quando l’avevano visto passare. Un secondo lo seguì, più insistente. Franz si aggrappò al bordo del tavolo, sentendo tutto, fino in fondo. Sentì la vergogna salire… e subito dopo l’abbandono, dolce, profondo. Sapeva di appartenere a loro, lì, in quel posto sporco, tra l’odore di ruggine e polvere.
— “Te l’abbiamo visto dal campo… quel culo. Camminavi come se lo offrissi a tutta la pianura.” — sussurrò uno, mordendogli un orecchio.
— “Adesso è nostro.” — concluse l’altro, che già stava slacciando i pantaloni.
Fu lui il primo a prenderlo. Senza fretta, ma senza delicatezza. Lo afferrò per i fianchi e lo penetrò con un colpo secco. Giulio emise un grido strozzato. Il metallo del tavolo gli graffiava il petto, ma lui non si mosse. Anzi, si curvò ancora di più, offrendosi meglio.
Ogni affondo era rude, pesante. Lo sentiva spingerlo dentro con tutto il bacino, fin quasi a togliergli il fiato. Il secondo gli stava davanti, guardandolo con un ghigno. Si sbottonò lentamente e glielo porse, duro, pulsante, a pochi centimetri dalla bocca.
— “Apri. Fa’ quello che sai.” — ordinò.
Giulio obbedì. Senza esitazione. Senza pudore. Lo prese in bocca, con fame e dedizione, mentre l’altro lo prendeva da dietro con forza crescente. I due corpi lo possedevano da entrambi i lati, come se volessero fargli dimenticare chi era, e ricordargli chi doveva essere. Un servitore. Un recipiente. Qualcosa da usare, godere, consumare.
Il piacere salì, rozzo, violento, eppure assolutamente limpido. L’umiliazione divenne estasi. I gemiti si confondevano col rumore sordo dei colpi. La nebbia fuori sembrava essersi fatta più densa, più compatta, come a chiudere il mondo dentro quella fabbrica.
Quando vennero, fu con grugniti bassi e morsi sulle spalle. Lo lasciarono tremante, umido, con i segni delle loro mani impressi sulla pelle.
Rimasero solo i rumori della fabbrica: il gocciolio lontano di una vecchia conduttura, il lamento del vento tra le finestre rotte, e il battito irregolare del suo cuore. Il dottore non si mosse subito. Restò appoggiato al tavolo, la fronte sul metallo freddo, i pantaloni abbassati fino alle ginocchia, la camicia mezza aperta e impregnata di odore. Il loro. Il suo.
Era sporco. Letteralmente. Il sedere arrossato, ancora pulsante, segnato dalle mani, dai colpi, da ciò che gli avevano lasciato dentro. Sentiva i residui della loro forza colare lungo le cosce, lenti, caldi. Non fece nulla per ripulirsi. Non ancora. Se ne stava lì come un animale lasciato sfiancato dopo la monta, con il fiato ancora pesante, il collo sudato.
Si rivestì piano. Nessuna fretta. Ogni gesto era denso. La biancheria era inutilizzabile, la camicia appiccicosa. Si rimise i pantaloni come poteva, cercando di non strusciare troppo. Il sedere gli bruciava, ma non era dolore. Era memoria viva. Era ciò che voleva.
Uscì dalla fabbrica spingendo una porta arrugginita, mentre la nebbia si era fatta più fitta, quasi liquida. Le scarpe affondavano nel fango del cortile. Nessuna stella, nessuna luna. Solo quel grigio che inghiottiva tutto.
L’auto era dove l’aveva lasciata, sul ciglio della strada, mezza coperta dalle foglie. Salì e si sedette lentamente, trattenendo un gemito quando il sedile toccò la pelle viva. Lo specchietto rifletteva un volto stanco, arrossato, con tracce di saliva al bordo delle labbra e una riga di polvere sul collo.
Guidò a lungo senza accendere la radio. Il silenzio lo avvolgeva, interrotto solo dal suono ovattato dei pneumatici sull’asfalto umido. Ogni buca, ogni curva gli ricordava ciò che aveva ricevuto. Ogni scossone era un’eco dei colpi, dei sospiri, degli ordini.
Arrivò a casa che era già buio pieno. Il vialetto era deserto, il giardino immobile. Aprì la porta con mani sporche, ancora tremanti. Non accese la luce. Si tolse le scarpe nell’ingresso e lasciò i vestiti a terra uno ad uno, senza riguardo. Camminò nudo fino al bagno, ma non aprì subito l’acqua. Si guardò allo specchio. Non con vergogna. Con gratitudine. Era un uomo svuotato… eppure più pieno che mai.
Si voltò. Guardò il proprio corpo segnato. Aprì piano le natiche, osservando. Sentiva ancora la loro presenza dentro di sé. E si chiese quanto sarebbe durato quell’odore, quella sensazione… prima che la realtà tornasse a riprenderlo.
Ma sapeva già che, dentro, qualcosa non si sarebbe mai più lavato via.
La nebbia cadeva pesante sulla campagna. Era autunno inoltrato, e ogni cosa sembrava stanca, sospesa tra il freddo e l’umidità. I vetri rotti della vecchia fabbrica lasciavano entrare solo una luce grigia, opaca, che si spegneva lentamente tra le travi marce e le pareti sporcate dal tempo.
Il dottor Giulio si era spinto lì per istinto. Nessun pensiero lucido. Solo un bisogno. Un richiamo antico e animalesco. Si era tolto il cappotto e lo aveva lasciato accanto a un vecchio banco da lavoro, come se stesse aspettando qualcosa, o qualcuno.
Fu allora che li vide.
Due figure all’ingresso. Alte, larghe, rozze nei gesti. Contadini, probabilmente della cascina poco distante. L’avevano seguito con lo sguardo mentre attraversava i campi nel pomeriggio, solo, elegante, fuori posto in quel paesaggio fangoso.
Uno dei due fece un passo avanti. L’altro lo seguì subito, senza dire una parola. Giulio restò fermo. Era come se il suo corpo sapesse già cosa stava per succedere. Non c’era violenza nei loro gesti, ma nemmeno dolcezza. Solo una calma ruvida, fatta di mani callose e sguardi pesanti.
Lo circondarono. Uno dietro, uno davanti. Lo spazio si chiuse. Giulio abbassò lo sguardo, quasi con deferenza. Sentì la mano del primo afferrargli il mento, sollevarlo con fermezza, obbligandolo a guardare. L’altro gli sfiorò la schiena, lenta, fino ad arrivare al fondo della camicia.
— “Ti piace perderti qui?” — chiese uno dei due, con voce roca.
— “Sei venuto per sentirti come devi...” — aggiunse l’altro, già con le mani sui fianchi di Giulio, stringendo come a volergli ricordare a chi apparteneva ora quel corpo.
La fabbrica si fece silenziosa. Solo il rumore dei respiri, delle dita che strappavano bottoni, del metallo che cigolava sotto il peso dei passi.
Lo spinsero contro un vecchio tavolo in ferro. Il freddo gli corse lungo il ventre nudo e lo fece rabbrividire. Ma non cercò di resistere. Anzi. Restò lì, in silenzio, le mani aperte sulla lamiera graffiata, pronto a lasciarsi fare. Come se quel gesto di resa fosse l’unica cosa che lo rendesse intero.
Uno dei due si chinò su di lui, il fiato caldo e acre al collo.
— “Guarda come lo vuoi… guarda come ti cede.” — disse al compagno, mentre le sue mani scorrevano lente sotto la camicia, aprendola completamente fino a lasciarla pendere, inutile.
L’altro, senza dire nulla, si inginocchiò dietro di lui. Le mani grandi gli presero i fianchi con forza. Le dita affondavano nella carne come a marchiarlo. Poi le spalancò, le natiche, con un gesto secco, deciso. Giulio ansimò. Non di dolore, ma d’attesa.
Un dito, bagnato di saliva, esplorò con lentezza quella fessura che sembrava chiamarli da quando l’avevano visto passare. Un secondo lo seguì, più insistente. Franz si aggrappò al bordo del tavolo, sentendo tutto, fino in fondo. Sentì la vergogna salire… e subito dopo l’abbandono, dolce, profondo. Sapeva di appartenere a loro, lì, in quel posto sporco, tra l’odore di ruggine e polvere.
— “Te l’abbiamo visto dal campo… quel culo. Camminavi come se lo offrissi a tutta la pianura.” — sussurrò uno, mordendogli un orecchio.
— “Adesso è nostro.” — concluse l’altro, che già stava slacciando i pantaloni.
Fu lui il primo a prenderlo. Senza fretta, ma senza delicatezza. Lo afferrò per i fianchi e lo penetrò con un colpo secco. Giulio emise un grido strozzato. Il metallo del tavolo gli graffiava il petto, ma lui non si mosse. Anzi, si curvò ancora di più, offrendosi meglio.
Ogni affondo era rude, pesante. Lo sentiva spingerlo dentro con tutto il bacino, fin quasi a togliergli il fiato. Il secondo gli stava davanti, guardandolo con un ghigno. Si sbottonò lentamente e glielo porse, duro, pulsante, a pochi centimetri dalla bocca.
— “Apri. Fa’ quello che sai.” — ordinò.
Giulio obbedì. Senza esitazione. Senza pudore. Lo prese in bocca, con fame e dedizione, mentre l’altro lo prendeva da dietro con forza crescente. I due corpi lo possedevano da entrambi i lati, come se volessero fargli dimenticare chi era, e ricordargli chi doveva essere. Un servitore. Un recipiente. Qualcosa da usare, godere, consumare.
Il piacere salì, rozzo, violento, eppure assolutamente limpido. L’umiliazione divenne estasi. I gemiti si confondevano col rumore sordo dei colpi. La nebbia fuori sembrava essersi fatta più densa, più compatta, come a chiudere il mondo dentro quella fabbrica.
Quando vennero, fu con grugniti bassi e morsi sulle spalle. Lo lasciarono tremante, umido, con i segni delle loro mani impressi sulla pelle.
Rimasero solo i rumori della fabbrica: il gocciolio lontano di una vecchia conduttura, il lamento del vento tra le finestre rotte, e il battito irregolare del suo cuore. Il dottore non si mosse subito. Restò appoggiato al tavolo, la fronte sul metallo freddo, i pantaloni abbassati fino alle ginocchia, la camicia mezza aperta e impregnata di odore. Il loro. Il suo.
Era sporco. Letteralmente. Il sedere arrossato, ancora pulsante, segnato dalle mani, dai colpi, da ciò che gli avevano lasciato dentro. Sentiva i residui della loro forza colare lungo le cosce, lenti, caldi. Non fece nulla per ripulirsi. Non ancora. Se ne stava lì come un animale lasciato sfiancato dopo la monta, con il fiato ancora pesante, il collo sudato.
Si rivestì piano. Nessuna fretta. Ogni gesto era denso. La biancheria era inutilizzabile, la camicia appiccicosa. Si rimise i pantaloni come poteva, cercando di non strusciare troppo. Il sedere gli bruciava, ma non era dolore. Era memoria viva. Era ciò che voleva.
Uscì dalla fabbrica spingendo una porta arrugginita, mentre la nebbia si era fatta più fitta, quasi liquida. Le scarpe affondavano nel fango del cortile. Nessuna stella, nessuna luna. Solo quel grigio che inghiottiva tutto.
L’auto era dove l’aveva lasciata, sul ciglio della strada, mezza coperta dalle foglie. Salì e si sedette lentamente, trattenendo un gemito quando il sedile toccò la pelle viva. Lo specchietto rifletteva un volto stanco, arrossato, con tracce di saliva al bordo delle labbra e una riga di polvere sul collo.
Guidò a lungo senza accendere la radio. Il silenzio lo avvolgeva, interrotto solo dal suono ovattato dei pneumatici sull’asfalto umido. Ogni buca, ogni curva gli ricordava ciò che aveva ricevuto. Ogni scossone era un’eco dei colpi, dei sospiri, degli ordini.
Arrivò a casa che era già buio pieno. Il vialetto era deserto, il giardino immobile. Aprì la porta con mani sporche, ancora tremanti. Non accese la luce. Si tolse le scarpe nell’ingresso e lasciò i vestiti a terra uno ad uno, senza riguardo. Camminò nudo fino al bagno, ma non aprì subito l’acqua. Si guardò allo specchio. Non con vergogna. Con gratitudine. Era un uomo svuotato… eppure più pieno che mai.
Si voltò. Guardò il proprio corpo segnato. Aprì piano le natiche, osservando. Sentiva ancora la loro presenza dentro di sé. E si chiese quanto sarebbe durato quell’odore, quella sensazione… prima che la realtà tornasse a riprenderlo.
Ma sapeva già che, dentro, qualcosa non si sarebbe mai più lavato via.
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