Vacanze di natale in Scandinavia
di
GF
genere
tradimenti
Copenhagen, dicembre. Fuori la neve cadeva lenta, silenziosa, mentre il grande camino del bar dell’hotel gettava riflessi dorati sulle pareti di legno scuro. Io e mia moglie eravamo lì da due giorni, una pausa meritata prima del Natale, avvolti nella bellezza discreta di quell’albergo d’epoca, un mondo a parte dove il tempo sembrava scorrere più piano.
Lui l’avevamo notato subito. Elegante ma non appariscente, inglese, sulla quarantina, occhi chiari, barba di qualche giorno e una voce profonda che sembrava vibrare anche nei silenzi. Un ingegnere in trasferta, ci aveva detto, tra un whisky e un sorriso che durava sempre un secondo di troppo quando guardava mia moglie. Lei, divertita e forse anche un po’ lusingata, rispondeva con la stessa moneta: piccoli sorrisi, risatine lievi, quel modo tutto suo di toccarsi i capelli quando si sentiva osservata. Io facevo finta di non capire l’inglese – una scusa perfetta – e lasciavo che il gioco si spingesse ogni sera un po’ più in là.
La terza sera, l’alcol era sceso più fluido del solito. Il bar stava chiudendo quando ci siamo alzati tutti insieme, le risate lievi e lente come il passo incerto di chi non ha voglia che la notte finisca. Salivamo le scale verso il secondo piano, lo stesso corridoio, stanze vicine. Il silenzio ovattato dell’hotel sembrava custodire i nostri pensieri più che i nostri passi.
Davanti alla porta della nostra stanza, mi sono voltato verso di lui. Mia moglie mi guardava interrogativa, ma con quegli occhi lucidi che conosco bene – quegli occhi che brillano solo quando l’imprevisto la accende.
«Un ultimo bicchiere? Quello della staffa, come dite voi», ho detto, e lui ha sorriso, lento, come chi ha già capito tutto.
Entrammo nella stanza. Le luci erano basse, la moquette assorbiva ogni rumore. Versai da bere. Lui si accomodò sul divano, noi di fronte, lei ancora col cappotto sulle spalle, la pelle arrossata dal freddo. Nessuno parlava più. Solo il ticchettio lontano di un termosifone antico e il respiro sempre più lento dei tre corpi in attesa.
Lui parlava con gli occhi ormai, e mia moglie rispondeva con il corpo. Le mani che si muovevano sul calice, le labbra socchiuse, le gambe accavallate più lentamente, più audacemente. Io la guardavo. E mentre lui posava il bicchiere, mentre si alzava e le si avvicinava, io non dissi nulla. Non serviva.
E lì, con il cuore che batteva più forte del solito, compresi che quella notte non ci sarebbero stati ruoli fissi, né parole in più. Solo desiderio.
Mia moglie era ancora in piedi, appoggiata alla poltrona, quando lui si avvicinò. Non disse nulla, ma si fermò a un soffio da lei. Le loro respiri si toccavano. Lei lo guardò, poi voltò lo sguardo verso di me, in cerca di una conferma. Non parlai. Sorrisi appena, e lei capì. Lentamente, lasciò cadere il cappotto dalle spalle. Sotto, un vestito nero semplice, aderente, che conoscevo bene – morbido, sottile, come seta calda sulla pelle. Lo aveva messo per me. E ora diventava un’offerta silenziosa.
Lui le sfiorò il braccio, piano. Come si sfiora qualcosa che si desidera da tempo. La guardava come un uomo che ha immaginato cento volte quel momento e che ora lo vive con il rispetto di chi non vuole spezzare l’incantesimo.
Lei chiuse gli occhi. Le sue labbra si dischiusero appena mentre lui si chinava a baciarle il collo, lento, senza fretta. Io rimasi seduto, il bicchiere in mano, immobile. Ma il mio corpo era vivo. Ogni gesto, ogni respiro che vedevo, era mio quanto loro.
Le sue mani percorrevano le braccia di mia moglie, poi le fianchi, poi più su, fino al bordo del vestito. E lei, in risposta, si lasciava fare, docile ma presente, partecipando a quel rituale con una calma che era pura resa.
Quando lui le sfilò il vestito, lo fece con cura. Glielo fece scivolare lungo le braccia, poi sulle anche, lasciandola in lingerie. E lì, davanti a me, lei non sembrava imbarazzata. Al contrario: era più bella che mai. Consapevole. Fiera. Come se sapesse che, in quella notte fuori dal tempo, stava vivendo qualcosa di irripetibile.
Lui si girò verso di me, per un istante. Non parlò, ma il suo sguardo chiedeva il permesso di andare oltre. Io annuii. Non era più una prova, non era più un gioco. Era un dono che le facevo. Che ci facevamo.
Quando le sue mani le aprirono il reggiseno e le labbra scesero sul suo seno, mia moglie gemette piano. Un suono appena accennato, che mi trafisse più di mille parole. Lei non mi aveva mai sembrata così viva. Così intensa. E io non l’avevo mai amata tanto come in quel momento in cui la lasciavo andare.
Mi alzai, lentamente, mi avvicinai. Lui si era inginocchiato davanti a lei, le mani lungo le sue cosce, il volto tra le sue gambe. E lei mi guardava, senza vergogna, senza esitazione, come a chiedermi di non fermarla. Di non fermarci.
Mi inginocchiai anche io, accanto a lei. Le presi la mano. Lei la strinse forte.
Lui sollevò lo sguardo, le labbra lucide, il respiro caldo. Poi ci fu solo il silenzio. Un silenzio fatto di corpi che parlano, di mani che cercano, di bocche che chiedono. Di desiderio che brucia lento, ma profondo, come la brace sotto la neve.
Quando lui si alzò dal letto, lo fece senza fretta. Si stava rivestendo, la camicia che si chiudeva con gesti lenti, il nodo della cravatta che non legò fino in fondo. Mia moglie era distesa sul fianco, il respiro ancora pesante, i fianchi segnati dai segni della notte. Le accarezzò un fianco con due dita, quasi per ringraziarla.
Poi si voltò verso di me. Un sorriso soddisfatto, rispettoso ma pieno. «You’ve got an extraordinary woman,» disse solo, poi si infilò le scarpe e, senza un'altra parola, uscì dalla stanza.
Chiusi la porta dietro di lui. La stanza sembrava trattenere l’eco del suo odore, del suo corpo. E io... io la guardai. Stesa lì, nuda, le gambe ancora aperte, le labbra dischiuse. Il desiderio che avevo represso ora mi montava dentro, più scuro, più ruvido.
Mi avvicinai. Lei mi guardò da sotto in su, con un sorriso sporco sulle labbra, sazia ma affamata di altro.
«Ti sei divertita, porca mia?», le sibilai, la voce bassa.
Lei annuì piano. «Tanto... mi hai lasciata a lui... come una troia...»
Quel tono mi accese. In un istante la afferrai per i fianchi, la voltai a pancia in giù. Non servivano preliminari. Ero già duro. Entrai in lei con forza, senza chiedere, spingendo tutto dentro in un colpo solo. Lei urlò, ma non di dolore. Di possesso.
«È mio, capito? È mio adesso», ringhiai contro la sua schiena.
«Prendimelo… fammi tua… fammi dimenticare il suo…» ansimava, il viso premuto contro il cuscino, i capelli sparsi.
La prendevo con rabbia. Con rancore. Ma anche con una fame che era solo nostra. Lei si muoveva con me, si offriva come se avesse bisogno di quella brutalità per chiudere il cerchio. Ogni spinta era una rivendicazione, ogni gemito una confessione.
«Dimmelo che sono il tuo porco», le chiesi, spingendo più a fondo.
«Sei il mio porco… il mio uomo… nessuno mi scopa come te…», ansimava, le lacrime agli occhi ma il sorriso sporco sul viso.
Le presi i capelli, la tirai su, le baciai il collo mentre continuavo a spingerle dentro. E sentii che stava venendo. Lo sentii dai tremori, dai respiri spezzati.
«Vieni adesso. Vieni per me. Solo per me.»
E lei venne. Forte. Gridando il mio nome, stringendosi intorno a me come se volesse risucchiarmi dentro.
Dopo l’ultima spinta, mi accasciai su di lei. Sudati, confusi, col cuore in gola. Le baciai la nuca. Le carezzai il fianco. Lei si voltò e mi abbracciò come una bambina stanca.
«Lo rifaresti?», mi sussurrò.
Sorrisi. «Solo se dopo ti posso riprendere così.»
Lei rise, con quel riso da strega e da santa che solo lei sa fare. «Promesso. Sempre.»
E restammo lì, nudi, intrecciati, mentre fuori la neve ricominciava a cadere.
Il giorno dopo sembrava tutto tornato alla normalità. Ma non era così. Bastava un gesto, uno sguardo. Lei che si metteva il rossetto davanti allo specchio e mi guardava di lato, con un mezzo sorriso. Io che le passavo dietro mentre si piegava per prendere le scarpe, e la mano scivolava inevitabilmente a palparle il fianco, come per ricordarle a chi apparteneva.
Durante la colazione, in quell’elegante sala con vista su Nyhavn, il mondo esterno ci scivolava addosso. Ma sotto il tavolo, il suo piede cercava il mio polpaccio, poi più su.
«Hai dormito bene?», le chiesi, sorseggiando il caffè.
Lei mi guardò. «Benissimo. Svuotata… e riempita.»
Quella sera, mentre rientravamo nella stanza, appena chiusa la porta alle nostre spalle, mi prese per il bavero e mi spinse contro il muro. Il tono era cambiato: ora era lei a condurre il gioco.
«Ti è piaciuto, cornuto mio?», mi sussurrò all’orecchio, la voce bassa e impastata di malizia.
«Tanto.»
«E quando mi hai leccata dopo che lui mi aveva riempita di sperma… ti piaceva? Sentire il suo sapore nella mia gatta?»
Il mio respiro si mozzò.
Lei si leccò le labbra. «Ti eccita ancora, eh? Porco. Ti eccita pensare che hai pulito la tua mogliettina dal suo sperma inglese …»
Mi prese la mano e la infilò sotto la gonna. Niente slip. Calda, bagnata. Ancora.
«È rimasto dentro… lo senti?», sussurrò, spingendosi contro le mie dita.
Mi gettai su di lei. Stavolta non fu rabbia, né bisogno di rivalsa. Era adorazione. L’adorazione di un uomo che sa di avere accanto una donna libera, vera, carnale.
Sul letto, la portai a venire piano, con la lingua, guardandola negli occhi mentre le facevo ripetere quelle parole.
«Dimmelo ancora», le dicevo tra un bacio e l’altro.
«Cornuto… mio devoto… maiale ! Ti piace sentirti l’ultimo a pulirmi vero ?…»
E quando venne, mi strinse tra le gambe come se non volesse lasciarmi andare più.
Altri due giorni di vacanza. E ogni notte, un sussurro diverso.
La penultima sera, mentre si vestiva per uscire a cena, si chinò su di me con il vestito appena allacciato e mormorò:
«Se mi guarda ancora così, lo invito di nuovo. Ma stavolta ti voglio lì vicino, mentre mi guardi mentre gli vengo in bocca a lui…»
Io non risposi. Ma sapeva che l’idea mi aveva già sporcato l’anima.
Ultima notte a Copenaghen. Le valigie erano pronte, accostate alla parete. Il volo era al mattino, ma nessuno dei due riusciva a dormire. Lei si era messa quel completo: reggicalze nero, nulla sotto. Un rossetto scuro, cattivo, e un profumo muschiato che sapeva di promessa.
Io ero seduto sulla poltrona, in camicia aperta, già mezzo eretto solo a guardarla. Sapevo che aveva un messaggio per lui. Lo aveva scritto il pomeriggio, mentre fingeva di leggere sul divano.
«Se vuoi… passaci a salutare. Ultima notte. Porta il desiderio.»
Alle undici bussò.
Nessuna parola. Entrò, si tolse il cappotto. Sotto, solo una camicia sbottonata e pantaloni. Si avvicinò a lei. Le baciò la guancia, poi il collo. Come la prima volta. Ma ora non c’era tensione. Solo ritmo. Complicità.
Io rimasi seduto, a guardarli. Non avevo bisogno di altro.
Lei si inginocchiò. Lui era già duro. Glielo prese in bocca come si prende qualcosa che si desidera da giorni — con fame, con gioia. Lo guardava negli occhi mentre lo faceva, e poi voltava lo sguardo verso di me.
«Ti piace cornuto? Guardami mentre gli lecco la cappella…»
Io annuii. Mi aprii i pantaloni, iniziai a masturbarmi lento, mentre lei gemeva piano, profonda, scavando piacere da ogni centimetro di lui.
Dopo un po’ si alzò. lui era venuto. Mi venne accanto. Mi baciò. Le labbra ancora bagnate e sporche.
«Fammi tua adesso. Dopo di lui. Ancora. Sempre.»
Mi inginocchiai dietro di lei, l’afferrai con forza, la presi subito. Calda. Satura. Mia.
«Senti quanto sei fradicia e sporca? Quanto sei piena?»
«Puliscimi… fammelo uscire tutto… fammi venire con la tua lingua da cornuto devoto…»
La stesi sul letto. Le gambe aperte, le mani nelle mie. Le leccai via tutto. Lui guardava, stupito, eccitato. Io lo ignoravo. C’era solo lei.
E quando venni dentro di lei, fu dolce. Lento. Il contrario di tutto il resto. Come a dire: “Qualunque cosa succeda, torni sempre a me.”
Lei si voltò, la voce roca, gli occhi lucidi.
«Grazie. Perché mi ami così. Perché mi fai essere questa donna. La tua. E anche la loro.»
Lui si rivestì in silenzio. Ci salutò con un cenno. Uscì.
E noi… restammo abbracciati, nudi, sazi. Una coppia più unita che mai. Perché nell'abisso del desiderio, ci eravamo trovati più veri.
Lui l’avevamo notato subito. Elegante ma non appariscente, inglese, sulla quarantina, occhi chiari, barba di qualche giorno e una voce profonda che sembrava vibrare anche nei silenzi. Un ingegnere in trasferta, ci aveva detto, tra un whisky e un sorriso che durava sempre un secondo di troppo quando guardava mia moglie. Lei, divertita e forse anche un po’ lusingata, rispondeva con la stessa moneta: piccoli sorrisi, risatine lievi, quel modo tutto suo di toccarsi i capelli quando si sentiva osservata. Io facevo finta di non capire l’inglese – una scusa perfetta – e lasciavo che il gioco si spingesse ogni sera un po’ più in là.
La terza sera, l’alcol era sceso più fluido del solito. Il bar stava chiudendo quando ci siamo alzati tutti insieme, le risate lievi e lente come il passo incerto di chi non ha voglia che la notte finisca. Salivamo le scale verso il secondo piano, lo stesso corridoio, stanze vicine. Il silenzio ovattato dell’hotel sembrava custodire i nostri pensieri più che i nostri passi.
Davanti alla porta della nostra stanza, mi sono voltato verso di lui. Mia moglie mi guardava interrogativa, ma con quegli occhi lucidi che conosco bene – quegli occhi che brillano solo quando l’imprevisto la accende.
«Un ultimo bicchiere? Quello della staffa, come dite voi», ho detto, e lui ha sorriso, lento, come chi ha già capito tutto.
Entrammo nella stanza. Le luci erano basse, la moquette assorbiva ogni rumore. Versai da bere. Lui si accomodò sul divano, noi di fronte, lei ancora col cappotto sulle spalle, la pelle arrossata dal freddo. Nessuno parlava più. Solo il ticchettio lontano di un termosifone antico e il respiro sempre più lento dei tre corpi in attesa.
Lui parlava con gli occhi ormai, e mia moglie rispondeva con il corpo. Le mani che si muovevano sul calice, le labbra socchiuse, le gambe accavallate più lentamente, più audacemente. Io la guardavo. E mentre lui posava il bicchiere, mentre si alzava e le si avvicinava, io non dissi nulla. Non serviva.
E lì, con il cuore che batteva più forte del solito, compresi che quella notte non ci sarebbero stati ruoli fissi, né parole in più. Solo desiderio.
Mia moglie era ancora in piedi, appoggiata alla poltrona, quando lui si avvicinò. Non disse nulla, ma si fermò a un soffio da lei. Le loro respiri si toccavano. Lei lo guardò, poi voltò lo sguardo verso di me, in cerca di una conferma. Non parlai. Sorrisi appena, e lei capì. Lentamente, lasciò cadere il cappotto dalle spalle. Sotto, un vestito nero semplice, aderente, che conoscevo bene – morbido, sottile, come seta calda sulla pelle. Lo aveva messo per me. E ora diventava un’offerta silenziosa.
Lui le sfiorò il braccio, piano. Come si sfiora qualcosa che si desidera da tempo. La guardava come un uomo che ha immaginato cento volte quel momento e che ora lo vive con il rispetto di chi non vuole spezzare l’incantesimo.
Lei chiuse gli occhi. Le sue labbra si dischiusero appena mentre lui si chinava a baciarle il collo, lento, senza fretta. Io rimasi seduto, il bicchiere in mano, immobile. Ma il mio corpo era vivo. Ogni gesto, ogni respiro che vedevo, era mio quanto loro.
Le sue mani percorrevano le braccia di mia moglie, poi le fianchi, poi più su, fino al bordo del vestito. E lei, in risposta, si lasciava fare, docile ma presente, partecipando a quel rituale con una calma che era pura resa.
Quando lui le sfilò il vestito, lo fece con cura. Glielo fece scivolare lungo le braccia, poi sulle anche, lasciandola in lingerie. E lì, davanti a me, lei non sembrava imbarazzata. Al contrario: era più bella che mai. Consapevole. Fiera. Come se sapesse che, in quella notte fuori dal tempo, stava vivendo qualcosa di irripetibile.
Lui si girò verso di me, per un istante. Non parlò, ma il suo sguardo chiedeva il permesso di andare oltre. Io annuii. Non era più una prova, non era più un gioco. Era un dono che le facevo. Che ci facevamo.
Quando le sue mani le aprirono il reggiseno e le labbra scesero sul suo seno, mia moglie gemette piano. Un suono appena accennato, che mi trafisse più di mille parole. Lei non mi aveva mai sembrata così viva. Così intensa. E io non l’avevo mai amata tanto come in quel momento in cui la lasciavo andare.
Mi alzai, lentamente, mi avvicinai. Lui si era inginocchiato davanti a lei, le mani lungo le sue cosce, il volto tra le sue gambe. E lei mi guardava, senza vergogna, senza esitazione, come a chiedermi di non fermarla. Di non fermarci.
Mi inginocchiai anche io, accanto a lei. Le presi la mano. Lei la strinse forte.
Lui sollevò lo sguardo, le labbra lucide, il respiro caldo. Poi ci fu solo il silenzio. Un silenzio fatto di corpi che parlano, di mani che cercano, di bocche che chiedono. Di desiderio che brucia lento, ma profondo, come la brace sotto la neve.
Quando lui si alzò dal letto, lo fece senza fretta. Si stava rivestendo, la camicia che si chiudeva con gesti lenti, il nodo della cravatta che non legò fino in fondo. Mia moglie era distesa sul fianco, il respiro ancora pesante, i fianchi segnati dai segni della notte. Le accarezzò un fianco con due dita, quasi per ringraziarla.
Poi si voltò verso di me. Un sorriso soddisfatto, rispettoso ma pieno. «You’ve got an extraordinary woman,» disse solo, poi si infilò le scarpe e, senza un'altra parola, uscì dalla stanza.
Chiusi la porta dietro di lui. La stanza sembrava trattenere l’eco del suo odore, del suo corpo. E io... io la guardai. Stesa lì, nuda, le gambe ancora aperte, le labbra dischiuse. Il desiderio che avevo represso ora mi montava dentro, più scuro, più ruvido.
Mi avvicinai. Lei mi guardò da sotto in su, con un sorriso sporco sulle labbra, sazia ma affamata di altro.
«Ti sei divertita, porca mia?», le sibilai, la voce bassa.
Lei annuì piano. «Tanto... mi hai lasciata a lui... come una troia...»
Quel tono mi accese. In un istante la afferrai per i fianchi, la voltai a pancia in giù. Non servivano preliminari. Ero già duro. Entrai in lei con forza, senza chiedere, spingendo tutto dentro in un colpo solo. Lei urlò, ma non di dolore. Di possesso.
«È mio, capito? È mio adesso», ringhiai contro la sua schiena.
«Prendimelo… fammi tua… fammi dimenticare il suo…» ansimava, il viso premuto contro il cuscino, i capelli sparsi.
La prendevo con rabbia. Con rancore. Ma anche con una fame che era solo nostra. Lei si muoveva con me, si offriva come se avesse bisogno di quella brutalità per chiudere il cerchio. Ogni spinta era una rivendicazione, ogni gemito una confessione.
«Dimmelo che sono il tuo porco», le chiesi, spingendo più a fondo.
«Sei il mio porco… il mio uomo… nessuno mi scopa come te…», ansimava, le lacrime agli occhi ma il sorriso sporco sul viso.
Le presi i capelli, la tirai su, le baciai il collo mentre continuavo a spingerle dentro. E sentii che stava venendo. Lo sentii dai tremori, dai respiri spezzati.
«Vieni adesso. Vieni per me. Solo per me.»
E lei venne. Forte. Gridando il mio nome, stringendosi intorno a me come se volesse risucchiarmi dentro.
Dopo l’ultima spinta, mi accasciai su di lei. Sudati, confusi, col cuore in gola. Le baciai la nuca. Le carezzai il fianco. Lei si voltò e mi abbracciò come una bambina stanca.
«Lo rifaresti?», mi sussurrò.
Sorrisi. «Solo se dopo ti posso riprendere così.»
Lei rise, con quel riso da strega e da santa che solo lei sa fare. «Promesso. Sempre.»
E restammo lì, nudi, intrecciati, mentre fuori la neve ricominciava a cadere.
Il giorno dopo sembrava tutto tornato alla normalità. Ma non era così. Bastava un gesto, uno sguardo. Lei che si metteva il rossetto davanti allo specchio e mi guardava di lato, con un mezzo sorriso. Io che le passavo dietro mentre si piegava per prendere le scarpe, e la mano scivolava inevitabilmente a palparle il fianco, come per ricordarle a chi apparteneva.
Durante la colazione, in quell’elegante sala con vista su Nyhavn, il mondo esterno ci scivolava addosso. Ma sotto il tavolo, il suo piede cercava il mio polpaccio, poi più su.
«Hai dormito bene?», le chiesi, sorseggiando il caffè.
Lei mi guardò. «Benissimo. Svuotata… e riempita.»
Quella sera, mentre rientravamo nella stanza, appena chiusa la porta alle nostre spalle, mi prese per il bavero e mi spinse contro il muro. Il tono era cambiato: ora era lei a condurre il gioco.
«Ti è piaciuto, cornuto mio?», mi sussurrò all’orecchio, la voce bassa e impastata di malizia.
«Tanto.»
«E quando mi hai leccata dopo che lui mi aveva riempita di sperma… ti piaceva? Sentire il suo sapore nella mia gatta?»
Il mio respiro si mozzò.
Lei si leccò le labbra. «Ti eccita ancora, eh? Porco. Ti eccita pensare che hai pulito la tua mogliettina dal suo sperma inglese …»
Mi prese la mano e la infilò sotto la gonna. Niente slip. Calda, bagnata. Ancora.
«È rimasto dentro… lo senti?», sussurrò, spingendosi contro le mie dita.
Mi gettai su di lei. Stavolta non fu rabbia, né bisogno di rivalsa. Era adorazione. L’adorazione di un uomo che sa di avere accanto una donna libera, vera, carnale.
Sul letto, la portai a venire piano, con la lingua, guardandola negli occhi mentre le facevo ripetere quelle parole.
«Dimmelo ancora», le dicevo tra un bacio e l’altro.
«Cornuto… mio devoto… maiale ! Ti piace sentirti l’ultimo a pulirmi vero ?…»
E quando venne, mi strinse tra le gambe come se non volesse lasciarmi andare più.
Altri due giorni di vacanza. E ogni notte, un sussurro diverso.
La penultima sera, mentre si vestiva per uscire a cena, si chinò su di me con il vestito appena allacciato e mormorò:
«Se mi guarda ancora così, lo invito di nuovo. Ma stavolta ti voglio lì vicino, mentre mi guardi mentre gli vengo in bocca a lui…»
Io non risposi. Ma sapeva che l’idea mi aveva già sporcato l’anima.
Ultima notte a Copenaghen. Le valigie erano pronte, accostate alla parete. Il volo era al mattino, ma nessuno dei due riusciva a dormire. Lei si era messa quel completo: reggicalze nero, nulla sotto. Un rossetto scuro, cattivo, e un profumo muschiato che sapeva di promessa.
Io ero seduto sulla poltrona, in camicia aperta, già mezzo eretto solo a guardarla. Sapevo che aveva un messaggio per lui. Lo aveva scritto il pomeriggio, mentre fingeva di leggere sul divano.
«Se vuoi… passaci a salutare. Ultima notte. Porta il desiderio.»
Alle undici bussò.
Nessuna parola. Entrò, si tolse il cappotto. Sotto, solo una camicia sbottonata e pantaloni. Si avvicinò a lei. Le baciò la guancia, poi il collo. Come la prima volta. Ma ora non c’era tensione. Solo ritmo. Complicità.
Io rimasi seduto, a guardarli. Non avevo bisogno di altro.
Lei si inginocchiò. Lui era già duro. Glielo prese in bocca come si prende qualcosa che si desidera da giorni — con fame, con gioia. Lo guardava negli occhi mentre lo faceva, e poi voltava lo sguardo verso di me.
«Ti piace cornuto? Guardami mentre gli lecco la cappella…»
Io annuii. Mi aprii i pantaloni, iniziai a masturbarmi lento, mentre lei gemeva piano, profonda, scavando piacere da ogni centimetro di lui.
Dopo un po’ si alzò. lui era venuto. Mi venne accanto. Mi baciò. Le labbra ancora bagnate e sporche.
«Fammi tua adesso. Dopo di lui. Ancora. Sempre.»
Mi inginocchiai dietro di lei, l’afferrai con forza, la presi subito. Calda. Satura. Mia.
«Senti quanto sei fradicia e sporca? Quanto sei piena?»
«Puliscimi… fammelo uscire tutto… fammi venire con la tua lingua da cornuto devoto…»
La stesi sul letto. Le gambe aperte, le mani nelle mie. Le leccai via tutto. Lui guardava, stupito, eccitato. Io lo ignoravo. C’era solo lei.
E quando venni dentro di lei, fu dolce. Lento. Il contrario di tutto il resto. Come a dire: “Qualunque cosa succeda, torni sempre a me.”
Lei si voltò, la voce roca, gli occhi lucidi.
«Grazie. Perché mi ami così. Perché mi fai essere questa donna. La tua. E anche la loro.»
Lui si rivestì in silenzio. Ci salutò con un cenno. Uscì.
E noi… restammo abbracciati, nudi, sazi. Una coppia più unita che mai. Perché nell'abisso del desiderio, ci eravamo trovati più veri.
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