“Un’ora nello spogliatoio – Versione estrema”
di
Angelo B
genere
saffico
Lo spogliatoio sembrava un forno.
Corpi sudati, vapore ovunque, pelle che luccicava sotto la luce fioca.
Le risate erano sparite. Rimanevano solo respiri rotti e occhi ardenti.
Laura mi spinse contro il muro bagnato delle docce.
Mi baciò senza chiedere, senza dolcezza: le sue labbra si schiantarono sulle mie, la sua lingua spinse dentro la mia bocca mentre le mani mi afferravano forte il sedere.
Mi schiacciava contro di sé come a volermi possedere, intera.
Dietro di me, Martina si inginocchiò.
Le sue mani affamate mi aprirono le cosce, le dita che già cercavano il mio sesso bagnato, ansiose.
Il suo respiro caldo contro la pelle tesa mi strappò un gemito che Laura mi soffocò nella bocca, continuando a baciarmi.
Non eravamo più sole.
Le altre ragazze si erano avvicinate, nude, scivolose, spinte dalla stessa fame.
Non c’era più vergogna, più inibizione.
Solo desiderio puro, sfrenato.
Una mi prese per i capelli e mi tirò la testa all’indietro, offrendomi il collo a baci e morsi.
Un’altra mi prese una mano e la guidò tra le sue gambe, facendomi sentire quanto era già pronta, tremante.
Martina affondò la bocca sul mio Monte di Venere, leccandomi a fondo, senza pietà.
La sua lingua ruvida, rapida, precisa, mi fece urlare, il suono coperto solo dal fragore dell’acqua.
Le dita di Laura mi penetravano senza tregua, spinte forti, profonde, ritmiche, spalancandomi tutta.
Tremavo.
Gridavo.
Venivo una, due, tre volte senza riuscire a respirare.
Ma loro non si fermavano.
Mi spinsero a terra, sdraiata sul pavimento bagnato, il viso rivolto verso l’alto.
Sopra di me, una dopo l’altra, le ragazze si avvicinarono.
Mi offrirono i loro corpi: seni tesi, capezzoli duri, cosce aperte, fianchi vibranti.
Mi passarono da una all’altra, usandomi, amandomi, dominandomi.
Leccavo, succhiavo, mi perdevo nei loro sapori: dolci, salati, selvaggi.
Sentivo dita ovunque: che mi aprivano, mi accarezzavano, mi penetravano.
Arianna si sedette sul mio viso, e senza nemmeno chiedermelo mi obbligò a leccarla, a succhiarle il piacere dal corpo.
Si contorceva sopra di me, stringendomi i capelli, mentre gemeva forte, senza paura di farsi sentire.
Quando venne, tremando e urlando, sentii altre bocche su di me: sui miei seni, sulla pancia, tra le gambe ancora aperte e impazienti.
Non era più un gioco.
Era un rito.
Un’orgia vera, primitiva, tribale.
Mi sentii al centro di un vortice di piacere, un corpo tra altri corpi, senza più confini.
Non ero più “Carolina la calciatrice”.
Ero una divinità.
Il nostro Monte di Venere.
Corpi sopra di me, sotto di me, lingue, dita, gemiti mescolati.
Sudore, saliva, piacere, acqua che scendeva ovunque.
Una, due, tre ragazze vennero su di me, spruzzando, tremando.
Io stessa venni più volte, urlando senza più vergogna.
Fino a crollare, esausta, umida, sporca di loro, fusa con loro.
Restammo così, ammucchiate nude sotto il getto dell’acqua ormai fredda, i respiri lenti, i corpi rilassati, le mani che ancora si accarezzavano piano, quasi in segno di ringraziamento.
Tra noi non servivano parole.
Ci eravamo prese, donate, fuse.
Eravamo squadra.
Eravamo amanti.
Eravamo libere.
E mai, mai nella mia vita, mi ero sentita più viva.
Corpi sudati, vapore ovunque, pelle che luccicava sotto la luce fioca.
Le risate erano sparite. Rimanevano solo respiri rotti e occhi ardenti.
Laura mi spinse contro il muro bagnato delle docce.
Mi baciò senza chiedere, senza dolcezza: le sue labbra si schiantarono sulle mie, la sua lingua spinse dentro la mia bocca mentre le mani mi afferravano forte il sedere.
Mi schiacciava contro di sé come a volermi possedere, intera.
Dietro di me, Martina si inginocchiò.
Le sue mani affamate mi aprirono le cosce, le dita che già cercavano il mio sesso bagnato, ansiose.
Il suo respiro caldo contro la pelle tesa mi strappò un gemito che Laura mi soffocò nella bocca, continuando a baciarmi.
Non eravamo più sole.
Le altre ragazze si erano avvicinate, nude, scivolose, spinte dalla stessa fame.
Non c’era più vergogna, più inibizione.
Solo desiderio puro, sfrenato.
Una mi prese per i capelli e mi tirò la testa all’indietro, offrendomi il collo a baci e morsi.
Un’altra mi prese una mano e la guidò tra le sue gambe, facendomi sentire quanto era già pronta, tremante.
Martina affondò la bocca sul mio Monte di Venere, leccandomi a fondo, senza pietà.
La sua lingua ruvida, rapida, precisa, mi fece urlare, il suono coperto solo dal fragore dell’acqua.
Le dita di Laura mi penetravano senza tregua, spinte forti, profonde, ritmiche, spalancandomi tutta.
Tremavo.
Gridavo.
Venivo una, due, tre volte senza riuscire a respirare.
Ma loro non si fermavano.
Mi spinsero a terra, sdraiata sul pavimento bagnato, il viso rivolto verso l’alto.
Sopra di me, una dopo l’altra, le ragazze si avvicinarono.
Mi offrirono i loro corpi: seni tesi, capezzoli duri, cosce aperte, fianchi vibranti.
Mi passarono da una all’altra, usandomi, amandomi, dominandomi.
Leccavo, succhiavo, mi perdevo nei loro sapori: dolci, salati, selvaggi.
Sentivo dita ovunque: che mi aprivano, mi accarezzavano, mi penetravano.
Arianna si sedette sul mio viso, e senza nemmeno chiedermelo mi obbligò a leccarla, a succhiarle il piacere dal corpo.
Si contorceva sopra di me, stringendomi i capelli, mentre gemeva forte, senza paura di farsi sentire.
Quando venne, tremando e urlando, sentii altre bocche su di me: sui miei seni, sulla pancia, tra le gambe ancora aperte e impazienti.
Non era più un gioco.
Era un rito.
Un’orgia vera, primitiva, tribale.
Mi sentii al centro di un vortice di piacere, un corpo tra altri corpi, senza più confini.
Non ero più “Carolina la calciatrice”.
Ero una divinità.
Il nostro Monte di Venere.
Corpi sopra di me, sotto di me, lingue, dita, gemiti mescolati.
Sudore, saliva, piacere, acqua che scendeva ovunque.
Una, due, tre ragazze vennero su di me, spruzzando, tremando.
Io stessa venni più volte, urlando senza più vergogna.
Fino a crollare, esausta, umida, sporca di loro, fusa con loro.
Restammo così, ammucchiate nude sotto il getto dell’acqua ormai fredda, i respiri lenti, i corpi rilassati, le mani che ancora si accarezzavano piano, quasi in segno di ringraziamento.
Tra noi non servivano parole.
Ci eravamo prese, donate, fuse.
Eravamo squadra.
Eravamo amanti.
Eravamo libere.
E mai, mai nella mia vita, mi ero sentita più viva.
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