La porta rossa

di
genere
dominazione

Erano passate un paio di settimane da quando Erika si era trasferita in quella città costiera. Con la sua recente laurea in Marketing e il forte desiderio di indipendenza dalla famiglia di ceto medio in cui era cresciuta, aveva colto al volo l'opportunità di diventare responsabile Marketing per una piccola agenzia pubblicitaria. La città le era piaciuta subito: vivace ma non troppo affollata, con la promessa di spiagge animate d'estate e del fascino melanconico del mare in tempesta durante l'inverno – perché a Erika piaceva anche il tempo uggioso, quella sensazione di essere al riparo mentre fuori infuriavano gli elementi.
Essendo l'ufficio distante circa un chilometro dall'appartamentino che aveva affittato ed in una ZTL, prese abitudine ad arrivarci a piedi, un modo come un altro per restare attiva, si disse. E così tutti i giorni, cuffiette nelle orecchie, passò lungo quella via di case vecchie e basse, squadrate e di due tre piani, tutte attaccate l'un l'altra come si usava in tempi che lei bellamente ignorava.
La giovane donna avanzò con passo deciso lungo il selciato consumato del centro storico. I tacchi batterono un ritmo sicuro sulle pietre antiche mentre si dirigeva verso l'ufficio. I capelli biondo miele ondeggiarono appena, accarezzati dalla brezza mattutina che portava con sé l'odore di caffè appena preparato dai bar che si stavano risvegliando.
Nelle orecchie, un paio di cuffie wireless la isolavano dal mondo, avvolgendola nelle note di "Material Girl" di Madonna, un classico anni '80 che rispecchiava perfettamente la sua filosofia di vita. Canticchiò sottovoce il ritornello, quasi inconsapevolmente, mentre pensava che sì, in effetti, il successo si misurava con l'impegno e con ciò che si era in grado di conquistare – proprio come lei aveva fatto, ottenendo quel lavoro prestigioso appena dopo la laurea.
Lungo quella via transitò sempre davanti ad una casa dalla porta rossa, vecchia e scrostata, incastonata come una vecchia gemma malridotta in un quadrato di polvere e calce. E lì, come sempre, al piano superiore dalla finestra aperta un ragazzo di colore fumava pacificamente alla finestra. Alto, dal viso allungato ed i capelli spazzolati, sostava spesso sul davanzale guardandola intensamente.
Erika sapeva di essere osservata ma fece sempre finta di nulla, aggiustando nervosamente la tracolla della borsa firmata e stringendo più forte il cellulare ultimo modello. "Come fanno ad avere tutti quegli smartphone se davvero sono poveri?", si chiese con un misto di sospetto e fastidio. "Perdigiorno e nullafacenti," pensò di loro, profondamente convinta che vivessero di espedienti o, peggio ancora, di quei sussidi statali che sottraevano risorse a chi, come lei, si era guadagnata tutto con sacrificio e studio.
Aveva sentito dalla parrucchiera – una fonte che considerava sorprendentemente affidabile per questioni sociali – che quella casa ospitava immigrati "irregolari" che la vecchia signora italiana aveva deciso di accogliere per qualche insensato ideale. "Quelli che vengono qui senza documenti, pretendono diritti e non vogliono integrarsi," mormorò tra sé, alzando il volume della musica come per scacciare l'irritazione.
Mentre superò il portone rosso, Erika accelerò sempre il passo, raddrizzando impercettibilmente le spalle nella sua giacca impeccabile. Le bastò un'occhiata veloce verso l'alto per incontrare gli occhi scuri del giovane. Distolse immediatamente lo sguardo, irritata da quella che interpretò come un'invadenza, una pretesa di uguaglianza che lei, nel suo intimo, non poteva concedere. Perché, in fondo, nel suo mondo ordinato e confezionato con cura, ciascuno doveva stare al proprio posto – e quel posto, per loro, non era certamente il suo elegante centro storico italiano.
Erika arrivò in ufficio puntuale, come sempre, salutando con professionale cordialità i colleghi che incrociò nell'open space. Si accomodò alla sua scrivania, sistemando la borsa nell'angolo e accendendo il computer. Il lavoro la assorbì completamente, come le piaceva: presentazioni da revisionare, brief da analizzare, strategie di comunicazione da sviluppare per un nuovo cliente del settore turistico. Le ore scivolarono via mentre lei si muoveva con sicurezza tra fogli excel e documenti di presentazione.
A fine giornata, mentre raccoglieva le sue cose, declinò l'invito dei colleghi per un aperitivo. "Magari la prossima volta," disse con un sorriso di circostanza. Non che non le piacessero, ma preferiva mantenere una certa distanza tra vita professionale e personale.
Sulla via del ritorno si fermò nella Pokeria che aveva scoperto la settimana precedente. "Una poké bowl con salmone, avocado, mango e semi di sesamo," ordinò con precisione. Il cibo “sano” era un altro modo per sentirsi in controllo, per dimostrare che la sua vita procedeva esattamente secondo i suoi piani.
Rientrata nel suo appartamentino, si liberò delle scarpe con un sospiro di sollievo e si lasciò cadere sul divano. Cenò direttamente dalla confezione, con la televisione accesa ma silenziata, mentre scorreva distrattamente il feed di Instagram. Le solite amiche del corso di laurea con i loro post: vacanze esotiche, cocktail elaborati, outfit studiati. Mise qualche like automatico, commentò un paio di foto con emoji entusiaste e passò oltre.
Dopo cena, ancora sdraiata sul divano con addosso solo una t-shirt oversize, aprì Tinder e iniziò a scorrere tra i profili. Un avvocato con la barba curata e lo sguardo troppo sicuro di sé. Scartato. Un istruttore di fitness che mostrava i muscoli in ogni foto. Prevedibile. Un consulente finanziario con la faccia da scemo e la passione per i viaggi avventura. Come tutti, ormai. Scorse a sinistra decine di volte, con crescente irritazione.
"È possibile che non ci sia un uomo interessante in tutta la città?" mormorò fra sé, sentendo montare una frustrazione che andava ben oltre la semplice noia. Lanciò il cellulare sul divano e si diresse verso il bagno.
Mentre si lavava i denti, lo specchio le rimandò l'immagine di una giovane donna attraente, con gli occhi leggermente socchiusi per la stanchezza. Si sciacquò la bocca e si osservò più attentamente. Lasciò vagare lo sguardo sul proprio corpo, sulla t-shirt che le scopriva le gambe toniche. La sensazione di insoddisfazione si mescolò a un calore nascente.
Con un gesto quasi meccanico, si sfilò gli slip e lasciò scivolare la mano tra le gambe. I suoi occhi rimasero fissi sullo specchio, come a cercare in quella immagine riflessa la conferma della propria desiderabilità che il mondo esterno sembrava negarle. Le sue dita si mossero con familiarità, cercando quel piacere che nessun altro sembrava in grado di darle.
"Non ho bisogno di loro," sussurrò con un misto di rabbia e gratificazione mentre i movimenti si facevano più rapidi. Il suo respiro si accorciò, le guance si imporporarono leggermente. Per un istante, mentre raggiungeva l'apice, dimenticò la frustrazione, la solitudine, persino i pregiudizi che portava con sé come una seconda pelle. Ma fu solo un istante.
Poco dopo, già sotto le coperte, lanciò un'ultima occhiata al cellulare buttato sulla biancheria accumulata sulla sedia accanto al letto. Nessuna notifica interessante. Con un sospiro spense la luce, chiudendosi nel buio con la sensazione che, nonostante tutti i suoi sforzi per costruirsi la vita perfetta, qualcosa di essenziale le stesse sfuggendo.
Alcuni giorni dopo, nuvole grigie e minacciose si accumularono sopra la città, conferendo alle antiche vie del centro storico un'aria malinconica che ad Erika non dispiaceva affatto. Tuttavia, quel mattino la sua mente era occupata da fastidi ben più terreni mentre camminava verso l'ufficio.
"Maledizione, perché proprio oggi?" mormorò tra sé, aggiustandosi discretamente il perizoma che le procurava un fastidioso disagio ad ogni passo. "Di tutti i giorni in cui potevo indossarlo, proprio quando devo camminare un chilometro sotto la minaccia della pioggia." Si ripromise di tornare ai suoi slip di cotone più comodi, nonostante la linea invisibile sotto i pantaloni aderenti non fosse altrettanto impeccabile.
Il tacco delle sue scarpe risuonò sul selciato umido mentre si avvicinava al tratto di strada che ormai conosceva fin troppo bene. Rallentò impercettibilmente, preparandosi all'ormai consueto disagio di sentirsi osservata. Lanciò un'occhiata furtiva verso la finestra al primo piano della casa con la porta rossa scrostata. Stranamente, il davanzale era vuoto.
Un sorriso soddisfatto le increspò le labbra. "Finalmente un giorno di pace," pensò, accelerando il passo con rinnovata energia. "Magari hanno capito che stanno importunando la gente con la loro invadenza."
Aveva appena superato l'edificio quando una voce maschile risuonò alle sue spalle.
"Signora! Signora, aspeta!"
Erika si bloccò, il cuore che le balzò in gola. Si voltò lentamente, stringendo istintivamente la borsa contro il fianco. A pochi metri da lei c'era il ragazzo di colore che solitamente la osservava dalla finestra. Alto, con le spalle larghe, indossava jeans consumati e una felpa grigia. Tra le braccia reggeva una fascina di ombrelli colorati.
"Cosa vuole?" pensò, irrigidendosi mentre lui si avvicinava con passo sicuro ma non minaccioso.
"Tu lasciato questo," disse il giovane in un italiano estremamente stentato, estraendo dalla tasca della felpa un oggetto che Erika riconobbe immediatamente: il suo portafoglio in pelle color cuoio.
"Il mio portafoglio!" esclamò con genuina sorpresa, prendendo l'oggetto dalle mani del ragazzo. Lo aprì rapidamente, constatando con sollievo che conteneva ancora tutte le carte di credito e i contanti. "Dove l'ha trovato?"
"Là," spiegò lui, indicando un punto poco più indietro lungo la strada. "Tu fatto cadere. Io visto mentre uscivo casa"
Erika avvertì un calore salirle alle guance, un misto di imbarazzo e vergogna per i pensieri che aveva nutrito fino a pochi istanti prima. "Grazie... grazie davvero," mormorò, evitando il suo sguardo.
"Me chiamo Mamadou," si presentò lui con un sorriso ampio che rivelava denti perfettamente bianchi e regolari.
"Erika," rispose lei automaticamente, ancora confusa dalla situazione.
Una goccia di pioggia le colpì la fronte, seguita rapidamente da altre. Mamadou alzò lo sguardo verso il cielo e poi tornò a guardarla con un'espressione che sembrava divertita.
"Piace celo nero, piace celo nero?" chiese con un tono che suonava vagamente speranzoso, mentre sollevava uno degli ombrelli colorati che portava con sé.
Erika aggrottò la fronte, cercando di decifrare quelle parole. Seguì il suo sguardo verso l'alto, osservando le nuvole scure che ora scaricavano una pioggia sempre più intensa.
"Ah, il cielo nero? Sì, in effetti mi piace il tempo uggioso, ma oggi ho dimenticato l'ombrello," ammise, mentre le prime gocce iniziavano a bagnarle i capelli e le spalle della giacca.
Mamadou le porse uno degli ombrelli, un modello economico ma funzionale di un vivace colore rosso. Erika esitò un istante, poi lo accettò mentre la pioggia si intensificava.
"Quanto ti devo?" chiese, aprendo nuovamente il portafoglio.
Mamadou scosse la testa. "No soldi. Tu portafoglio, io ombrello. Oggi piove forte."
La pioggia ora cadeva copiosa, e istintivamente Erika aprì l'ombrello sopra di sé. "Devo andare in ufficio, faccio tardi," disse, indicando la direzione. Poi, con un gesto che sorprese lei stessa, mimò con le mani: "Domani te lo riporto, promesso."
Mamadou annuì, ma il suo sorriso si allargò in modo malizioso. "Tu tornare domani? Bene, bene!" esclamò con un entusiasmo che sembrava andare oltre il semplice recupero di un ombrello.
Erika continuò a correre verso l’ufficio tenendo stretto quell'ombrello rosso, con il perizoma che continuava a darle fastidio e la sensazione inaspettata che forse i suoi pregiudizi meritassero una riconsiderazione.
Quella sera, Erika non riuscì a togliersi dalla mente l'incontro con Mamadou. Distesa sul divano, con la televisione che trasmetteva un programma a cui non prestava attenzione, continuava a rivedere il sorriso schietto del ragazzo e il suo gesto generoso. Il portafoglio conteneva non solo le sue carte di credito, ma anche circa duecento euro in contanti. Avrebbe potuto facilmente tenerlo per sé, invece aveva corso sotto la pioggia per restituirglielo.
"Forse ho giudicato troppo in fretta," mormorò tra sé, rigirando tra le dita l'ombrello blu ormai asciutto. Un senso di colpa sottile le si insinuò nella mente. Quante volte era passata davanti a quella casa, guardando con fastidio e sospetto? Quante volte aveva pensato "perdigiorno" osservando quel ragazzo alla finestra?
Con un sospiro, decise che l'indomani avrebbe restituito l'ombrello. "Partirò mezz'ora prima," si disse. "Così posso anche passare in banca prima di andare in ufficio."
La mattina seguente, Erika si preparò con maggiore cura del solito. Optò per una camicetta leggera accompagnata dall’immancabile blazer , e una gonna a tubino nera che le arrivava poco sopra il ginocchio, abbandonando i soliti pantaloni. Si fermò un attimo davanti allo specchio, chiedendosi perché si stesse preoccupando tanto del suo aspetto, ma scacciò rapidamente quel pensiero. Le mutandine di cotone, almeno, le garantivano un comfort che il giorno precedente era mancato.
"È solo per educazione," si disse mentre usciva di casa con l'ombrello blu in mano. "Gli devo un ringraziamento per il portafoglio, niente di più."
Arrivata davanti alla casa dalla porta rossa, Erika esitò un momento prima di bussare. Attese qualche secondo, ma non ci fu risposta. Bussò nuovamente, con più decisione. Ancora silenzio.
"Forse è già uscito," pensò, guardando l'orologio. Stava per appoggiare l'ombrello accanto alla porta quando notò che questa era leggermente socchiusa. La spinse appena, e la porta si aprì con un cigolio.
"C'è nessuno?" chiamò, facendo un passo esitante all'interno.
Un corridoio buio e stretto le si presentò davanti. Le pareti, un tempo bianche, erano adesso ingiallite dall'umidità e dal tempo. Una vecchia carta da parati si staccava in alcuni punti, rivelando strati di intonaco sottostante. L'aria era densa di odori sconosciuti: spezie forti, qualcosa di simile all'incenso, e sotto tutto questo, il sentore inconfondibile di un edificio antico.
Una scala di legno consumato si arrampicava verso il piano superiore. Erika rimase ferma nell'ingresso, indecisa.
"Mamadou?" chiamò ancora, ma la sua voce sembrò perdersi tra quelle pareti spesse.
Quasi senza rendersene conto, iniziò a salire le scale, che scricchiolarono sotto il suo peso. "Lo osservavo sempre affacciato alla finestra del piano di sopra," ricordò. "Deve abitare lassù."
Giunta al pianerottolo, si trovò di fronte a un corridoio con tre porte. Una era socchiusa, e da questa filtrava un debole fascio di luce. Erika si avvicinò lentamente.
"Permesso?" disse con voce appena udibile, spingendo leggermente la porta. "Sono Erika, ho riportato l'ombrel..."
Le parole le morirono in gola, e l'ombrello le scivolò dalle mani, cadendo con un tonfo sordo sul pavimento di legno.
Mamadou era in piedi al centro della stanza, illuminato dalla luce che filtrava attraverso la finestra – la stessa da cui l'aveva osservata tante volte. Indossava solo un paio di pantaloncini sportivi abbassati sui fianchi. Il suo corpo muscoloso e lucido di sudore era teso in un'immobilità perfetta, interrotta solo dal movimento ritmico della mano destra che stringeva il suo lungo cazzo eretto.
Per un istante che sembrò durare un'eternità, i due rimasero a fissarsi, entrambi paralizzati dalla sorpresa. Il volto di Mamadou, prima concentrato nel piacere solitario, si trasformò in una maschera di shock e imbarazzo.
Erika sentì il sangue affluirle alle guance, un calore improvviso che le avvampò il viso e il collo. La sua mente vacillò tra l'impulso di fuggire e l’impressione che quel grosso membro nero le aveva fatto.
"Cosa stai facendo?" Fu un sussurro che le sfuggì tremante mentre se ne stava immobile sulla soglia, con gli occhi fissi su Mamadou, che nel frattempo si era voltato lasciando ciondolare la grossa mazza verso di lei. Il cuore le batteva forte, il respiro le si faceva affannoso mentre barcollava indietro di un passo, stringendo l'ombrello che era andata a recuperare per lui.
Mamadou ridacchiò profondamente, i denti bianchi che brillavano in un sorriso disarmante. Il tipo di sorriso che le faceva rivoltare lo stomaco, persino in quel momento. "Bellah", disse, con la voce roca e un forte accento senegalese. “Tu sei in anticipo. Io mi scaldare. Tu venuta prima perché io Credo che anche tu tanta voglia!”
"No, io..." balbettò, con le guance in fiamme. Si voltò per andarsene, ma lui si mosse con una istinto predatorio che la lasciò inchiodata sul posto. "Io... ho solo portato il tuo ombrello. Tutto qui."
La sua mano le strinse il polso prima che lei potesse ritirarsi, una presa salda ma non dolorosa. La tirò delicatamente dentro la stanza, chiudendo la porta alle sue spalle con un calcio. Il suono dello scatto le fece accelerare il battito cardiaco. "Tu non andare", mormorò, l'altra mano le scivolò lungo il braccio, il suo tocco caldo ed elettrico. "Tu resta. Tu sente qua."
"Io non..." iniziò, ma le parole le si mossero in gola mentre lui le guidava la mano verso il basso, premendo le dita tremanti contro la sua durezza. Ansimò, gli occhi spalancati, la mente che le urlava di allontanarsi, ma il suo corpo la tradì, le sue dita si strinsero istintivamente intorno a lui.
“Ndyei Am", mormorò leccandosi le labbra e pregustandola centimetro per centimetro. “Tu senti me. Tu vuoi me."
"No", sussurrò, la voce appena udibile, ma era troppo tardi. Lui la stava già spingendo contro il muro, il suo corpo che la teneva ferma. Le sue labbra si schiantarono sulle sue, mettendo a tacere ogni ulteriore protesta. Il suo bacio era esigente, possessivo, e lei si ritrovò a sciogliersi in esso nonostante il panico che le divampava nel petto. Le sue mani si agitavano inutilmente tra loro, indecise tra lo spingerlo via e l'aggrapparsi a lui. La sua lingua le invase la bocca e lei emise un gemito soffocato, il suo corpo la tradì mentre il calore le si accumulava nel ventre. Lui interruppe il bacio giusto il tempo di mormorare: "Tu piace. Io so."
"Io non..." ricominciò, ma lui la interruppe con un altro bacio bruciante, le mani che scivolavano giù per afferrarle i fianchi e tirarla bruscamente contro di sé. Lo sentiva, duro e insistente, premere contro di lei, e il respiro le si fermò. La parte razionale della sua mente urlava che era sbagliato, che doveva smetterla, ma un'altra parte – una parte che nemmeno riconosceva – stava iniziando a risvegliarsi, agitandosi con un calore che non sentiva da anni.
La sua resistenza vacillò quando le sue dita trovarono l'orlo della sua gonna, scivolando sotto per sfiorarle la pelle nuda della coscia. Rabbrividì, le gambe che si aprirono istintivamente mentre lui tracciava un percorso più in alto, il suo tocco audace e impenitente. "Mamadou, aspetta..." ansimò, ma le sue parole si dissolsero in un gemito quando le sue dita trovarono il tessuto umido delle sue mutandine.
"Shh", mormorò contro le sue labbra, la mano che si muoveva con una sicurezza che la fece tremare. "Non mentire. Tuo corpo dice di sì."
Aveva ragione. Il suo corpo stava dicendo di sì, anche se la sua mente si affannava per recuperare. Voleva protestare, spingerlo via, ma le sue dita stavano già scivolando sotto il pizzo delle sue mutandine, sfiorandole le pieghe lisce, e un gemito le sgorgò dalla gola prima che potesse fermarlo. La sua risatina bassa le vibrò contro le labbra mentre iniziava a girarle intorno al clitoride, il suo tocco esasperantemente lento e deliberato.
"Tu bagnata", ringhiò, con la voce roca di soddisfazione. "Tu vuoi. Non scappare."
Voleva spingerlo via, dirgli che si sbagliava, ma le parole non le venivano, tutto le sembrava confuso . I suoi fianchi si piegarono contro la sua mano, il suo corpo la tradì mentre lui le infilava un dito dentro, poi un altro, stirandola con un delizioso bruciore che la fece sussultare. La lavorò con un ritmo che le fece girare la testa, le sue dita si arricciarono dentro di lei in un modo che le fece arricciare le dita dei piedi. Insistette con una tale foga che per un attimo ad Erika parve di vedere le stelle in quella buia stanza. Lui che insisteva sempre più a fondo, con una con due dita..
Le mani di Erika, inconsciamente, si arpionarono sulle spalle del ragazzo, stringendole forte mentre il suo corpo iniziava a tremare, il calore cresceva dentro di lei a ogni spinta delle sue dita. "Mamadou..." gemette, con la voce rotta dal piacere che iniziava a sopraffarla.
Il ragazzo si scanso Erika si appoggiò al muro, le gambe tremanti, la mente in un turbine di confusione e piacere persistente. Ma non aveva finito. Non ancora. I suoi occhi scuri si fissarono sui suoi, e un sorriso compiaciuto si illuminò sul volto dell’africano, predatorio e implacabile.

Senza preavviso, le tirò via il blazer lanciandolo sul pavimento e con le mani ruvide ma decise, le strappò un po la camicetta esponendole il seno. “Questa camicia, costa duecento euro!” imprecò Erica ma finì per gemere quando di forza l’uomo le strizzò le sue tette, una seconda abbondante che veniva accolta quasi interamente dalle sue mani. “Cosa frega a te, ci sono cose migliori di vestiti” disse schiacciandola ancora contro il muro e mordicchiandola sul collo mentre spremeva i suoi meloncini. Erika non riusciva più a pensare, era andata li solo per ricambiare una gentilezza, ma ora quell’uomo la stava abusando, e lei se lo stava lasciando fare. Avrebbe fatto tardi per il lavoro. Il suo prezioso lavoro. Eppure non riusciva ad urlare, non riusciva a scansarlo, sentiva sempre più l’attrazione per quel petto nudo, il suo odore forte e quel cazzone umidiccio che si stava sfregando contro la sua coscia.
D’improvviso Erika si senti spinta in ginocchio, il freddo pavimento di legno le mordeva la pelle. Le dita di Mamadou si intrecciarono nei suoi capelli biondo miele, tirandole indietro la testa finché non fu costretta ad alzare lo sguardo verso di lui. Il suo membro, ancora duro e luccicante, aleggiava a pochi centimetri dal suo viso.

“Succhia ora", ordinò, con voce bassa e gutturale, il suo italiano stentato le fece sussultare. La sua presa si fece più stretta, non lasciando spazio a un rifiuto. "Ora."

Il cuore di Erika le martellava nel petto, la mente le urlava di resistere, ma il corpo la tradiva. La sua vista, quel profumo acido ed intenso che la ubriacava, la sua dominanza grezza che irradiava da ogni suo movimento, la paralizzarono come una vergine in croce. Come sotto un crudele incantesimo la sua bocca, le sue labbra si dischiusero come una conchiglia mentre lui si avvicinava a lei.

Nel momento in cui la punta del suo pene le sfiorò le labbra, sentì un'ondata di qualcosa che non riusciva a definire: vergogna, paura e un bisogno struggente, tutto in una volta. Lui si spinse in avanti e lei lo accolse, inizialmente con la lingua incerta. Mamadou ringhiò, i fianchi che si muovevano a scatti, spingendosi più a fondo nella sua bocca.

“Così Dona sì", gracchiò, con la voce roca per il piacere. “Tu Prende tutto. Sì"

Erika si sentì soffocare mentre lui spingeva più a fondo, la gola che le si stringeva. Le lacrime le salirono agli occhi, ma lui non cedette. Le sue mani le cullavano la testa, controllando il ritmo, il suo pene che scivolava dentro e fuori dalla sua bocca con un ritmo che la lasciava stordita. Poteva sentire il suo calore, la sua immensa stazza, ed era travolgente.

Ma poi qualcosa cambiò. L'imbarazzo, la resistenza, iniziarono a sciogliersi, sostituiti da una strana, quasi primordiale soddisfazione. Si ritrovò a obbedire, la lingua che gli turbinava intorno, le labbra che si serravano sempre più mentre lui gemeva sopra di lei. Il suono del suo piacere – crudo e senza filtri – le fece vibrare il corpo.

Mamadou, vedendo la sua sottomissione, emise una risatina cupa. "Ti piace, vero? Te piace succhiare grosso ucelo nero. Te piace celo nero”

Strinse sempre più a fondo e con tale foga, che ormai non faceva più alcuna resistenza. Le narici erano piene dell’odore dell’uomo, il suo sguardò ormai in estasi, inchiodati com’erano ai bianchi occhi ed ai bianchi denti del ragazzo che la osservava compiaciuto in qualità di suo maschio e dominatore. Erika pensò che presto sarebbe venuto e lei si sarebbe liberata di questo fardello folle. Il sapore acre nella sua bocca, i suoi istinti e tutta la paura accumulata non le concessero di riflettere su qualcosa che a mente fredda l’avrebbe inorridita: Quel ragazzo che aveva considerato inutile perdigiorno ed inferiore le stava per scaricare il suo bianco sperma nella sua gola.

Eppure d’un tratto si trovò staccata da quel lungo cazzo nero che stava pompando di gusto. Alcuni Rigori di saliva, attaccate al cazzo di Mamadou filarono come fili di ragno dalla sua bocca mentre altri le colarono lungo il mento unendosi al mascara sbavato.

Mamadou si era scostato con il suo membro viscido e caldo, così ben accolto dalla bocca della sua nuova troia italiana. Si guardarono per un istante. Così Erika capì che non era solo la sua calda bocca che desiderava.
Con uno strattone improvviso, la tirò in piedi, le mani già intente a finirle di strappare la camicetta. I bottoni volarono per la stanza mentre lui la apriva, scoprendo il suo reggiseno di soffice pizzo bianco già abbassato dall’intrusione precedente nei suoi seni ma che strappo violentemente con entrambe le mani. Non si fermò lì. Le sue mani erano ovunque – sul suo seno, sui suoi fianchi, sul suo sedere – mentre la spogliava nuda: la gonna sbottonata che le scivolò lungo le cosce; le mutandine che fecero la stessa fine del reggiseno, lasciandola tremante e scoperta.

La girò di forza, spingendola di nuovo contro il muro. Erika si preparò, le mani piatte contro la superficie fredda, mentre lui si posizionava dietro di lei. D’improvviso lo sentì – duro, pulsante – strusciarle dapprima sul suo cubetto e poi contro la sua patatina socchiusa. Il sangue le si gelò nelle vene “Cosa intendi fare..no fermo!” Le urlò tremante.
Lui si schiacciò ancora di più su di lei leccandole il collo e sussurrandole all’orecchio “Io un anno no donna. Io tanta voglia. Guardato te tante volte e tu piaciuta tanto, io sognare di scopare te e io ora posso entrare dentro te, troia”

Aspetta... no!" ansimò, ma le sue proteste furono inutili. Lo sentì premere contro di sé, la punta tozza del suo pene che le spingeva dentro, ed emise un grido strozzato. "Mamadou, non possiamo... senza protezione…" cercò di dimenarsi.

“No protezione, io vuole sentire bene fica”, mormorò, le mani che le sei avvinghiarono ai fianchi.

Non ebbe il tempo di alcuna ulteriore protesta, lui la penetrò, il suo pene s’incastrò in lei così forte che il grido riverberò fin fuori dalla strada. Non aspettò che si adattasse, i suoi fianchi la colpirono con una forza che la lasciò senza fiato. Le sue dita artigliarono il muro mentre lui la penetrava, il suo ritmo incessante, il suo dominio assoluto.

“Oh si, tu fantastica, brava ragazza", grugnì, le mani che le abbandonarono i fianchi per afferrarle i capelli, costringendola a inarcare la schiena. "Prendi tutto."

Il volto di Erika si contorse appiattito al muro, le lacrime ben presto sostituite da gemiti incontrollabili, gli occhi talmente all’insù da mostrare solo la sclera bianca. Il suo corpo si muoveva con il suo, i fianchi che incontravano le sue spinte mentre il piacere cresceva dentro di lei. Sentì disfarsi completamente, preda di quell’uomo selvaggio e bestiale che si stava facendo desiderare così intensamente.

"Sei così stretta", ringhiò, le mani che continuava a stringerle i fianchi con tanta forza da iniziare lasciarle dei lividi.
"Ne vuoi di più?" la schernì, con voce cupa e provocatoria. "Vuoi più forte?"
"Sì..." ansimò, la parola le scivolò fuori prima che potesse fermarla.
"Bene", ringhiò, sbattendola dentro con forza rinnovata, il ritmo che si faceva quasi punitivo. Il suo corpo era in fiamme, ogni nervo infiammato di piacere. Percepì presto quel nodoso cazzo diventare un tutt’uno con la sua fica, sfondarla colpo dopo colpo e la sua bocca gemere sempre più intensa, incapace di riconoscere che quell’uomo la stava scopando come mai nessuno dei suoi impacciati ex-ragazzi aveva fatto. Le stava dando quello che stava svogliatamente cercando, bloccata dal suo perbenismo e dalla sua noiosa routine.

Ma anche questa volta Mamadou non aveva ancora finito lei. Si ritrasse bruscamente, lasciandola ansimare, prima di trascinarla verso il letto in soggiorno. La gettò sul materasso, il suo corpo sobbalzò mentre lui le si arrampicava sopra.

Questa volta, la prese nella posizione del missionario, i suoi occhi scuri fissi nei suoi mentre si immergeva di nuovo in lei. Le sue mani le bloccarono sopra la testa, il suo peso la spingeva contro il materasso mezzo scassato mentre la scopava con una ferocia che la faceva tremare.

“Guarda me", le ordinò con voce roca. "Vedi chi ti fotte. Vedi Mamadou."

Erika incontrò il suo sguardo, gli occhi spalancati, il respiro affannoso. Non riusciva a distogliere lo sguardo, non riusciva a sfuggire all'intensità del suo sguardo. Era come se lui la stesse reclamando, la stesse marchiando, in un modo che andava oltre il fisico.

Il suo corpo la tradì di nuovo, le gambe gli si avvolsero intorno alla vita, trascinandolo più a fondo mentre l'orgasmo aumentava. Era vicina, così vicina, e lui lo sapeva. ""Mamadou, io... io sto per..."
"Venire", ordinò lui, con voce roca e inflessibile. "Venire con me."

Il comando fu sufficiente a farla cadere. La sua schiena si inarcò dal letto mentre veniva, il suo corpo si contorceva intorno a lui. Mamadou emise un gemito primordiale, i fianchi sussultavano mentre la seguiva, il suo pene pulsò e riversò tutto se stesso dentro la calda vagina della donna, lunghi e grandi fiotti invisibili strisciarono dentro di lei, riempiendola del seme del forte ragazzo che le aveva donato un orgasmo incredibile.

Crollarono l’uno sull’altra. L’uomo s’appoggiò al caldo seno della donna mentre lei riprendeva fiato, il viso paonazzo e macchiato da tutto il trucco che si era sfatto.
Per un attimo rimasero lì, aggrovigliati, l'aria densa del profumo di quella passione animalesca che li aveva posseduti.

Ma poi lui si mosse di nuovo, si sfilò e si srotolò via da lei. Erika rimase lì, il corpo inerte, la mente dapprima annebbiata dal piacere e dalla confusione che iniziava a processare e realizzare cosa era successo . Lo guardò mentre si alzava, il pene ancora viscido, e si dirigeva verso il tavolo dove le sigarette lo aspettavano.

Ne accese una, tirando una lunga boccata prima di voltarsi di nuovo verso di lei. I suoi occhi vagarono sul corpo nudo e tremante della donna, e un sorrisetto gli si disegnò sulle labbra.

"Stai bene", disse semplicemente, con la voce intrisa di soddisfazione. Le diede una pacca giocosa sul sedere prima di girarsi e scomparire nell'altra stanza, lasciandola sola con i suoi pensieri.

Erika rimase lì per quella che le sembrò un'eternità, il corpo dolorante, la mente che correva. Poteva ancora sentirlo – il suo pene, le sue mani, il suo dominio – e questo la lasciò senza fiato. Ognuno di quegli istanti le si fissò in mente come una diapositiva generandogli sentimenti contrastanti. Lentamente, si tirò su, le gambe le tremavano mentre si alzava.

I suoi vestiti erano sparsi per la stanza, la camicetta strappata ed inutilizzabile, le mutandine introvabili. Raccolse quello che poté, vestendosi in fretta, con le mani tremanti mentre si abbottonava la gonna e si infilava le scarpe.

L'appartamento era silenzioso, a parte il debole suono di Mamadou che canticchiava nel bagno. Lanciò un'occhiata verso la porta, con il cuore che le batteva forte, prima di afferrare la borsa e sgattaiolare lungo le scale e fuori da quella maledetta porta rossa.

L'aria fresca la colpì come uno schiaffo, ma non si fermò. Erika corse a ritroso lungo la via che aveva percorso. Era partita con mezz’ora d’anticipo ora era ben tre quarti d’ora in ritardo rispetto all’orario di lavoro. Ma ora del lavoro non le importava. Voleva andare a casa, farsi una doccia e mettersi sotto alle coperte. Avrebbe detto ai colleghi che si era sentita poco bene. L’immagine del portone continuò a tormentarla, per tutta la giornata, assieme agli occhi predatori e sognanti di Mamadou.

Nelle settimane successive, Erika modificò la sua routine mattutina. Aveva scoperto un percorso alternativo che, sebbene più lungo, le permetteva di evitare completamente la strada con la casa dalla porta rossa. Si concesse anche il lusso di usare l'auto per andare al lavoro, violando così il suo principio di vita sana, con la scusa di alcuni appuntamenti esterni con clienti.
Eppure, per quanto tentasse di cancellare quel pomeriggio dalla memoria, il corpo di Erika sembrava determinato a ricordarglielo. Le sensazioni fisiche persistevano, riemergendo nei momenti più inopportuni – durante una presentazione, mentre pranzava con i colleghi, o nel silenzio della notte, quando le sue dita cercavano inconsciamente di replicare il piacere che aveva scoperto tra le braccia di Mamadou.
Erano passate quasi tre settimane da quell'incontro quando, durante una riunione strategica, Erika sentì una strana sensazione. Stava discutendo dell'andamento della campagna pubblicitaria con Lorenzo, il responsabile creativo, quando un'ondata improvvisa di calore le attraversò il corpo, seguita da una nausea violenta e imprevista.
"...e quindi penso che dovremmo puntare su un'immagine più incisiva per il nostro cli..,” stava dicendo Lorenzo quando notò il cambiamento nel volto di Erika. "Stai bene? Sei diventata pallida all'improvviso."
Erika si alzò di scatto, rovesciando il bicchiere d'acqua sulla scrivania. "Scusami, devo..." Non riuscì a completare la frase. Coprendosi la bocca con una mano, uscì di corsa dalla sala riunioni, dirigendosi verso il bagno delle donne.
Si precipitò in uno dei cubicoli appena in tempo, mentre il contenuto del suo stomaco si riversava nel water. Si inginocchiò sul pavimento freddo, il corpo scosso da conati che sembravano non voler finire. Quando finalmente si fermarono, rimase lì, tremante, con la fronte imperlata di sudore.
"Dev'essere un'intossicazione alimentare," si disse, asciugandosi la bocca con un fazzoletto. Ma una vocina nella sua testa, quella che aveva imparato ad ignorare fin troppo bene, sussurrava un'altra possibilità, molto più inquietante.
Contò mentalmente i giorni, poi li ricontò. Il suo ciclo, sempre puntuale come un orologio svizzero, aveva un ritardo di dieci giorni. Dieci giorni che aveva attribuito allo stress, ai cambiamenti della sua nuova vita, a qualsiasi cosa che non fosse la verità che ora le si parava davanti, innegabile come quel sapore amaro che le riempiva la bocca.
Erika si rialzò lentamente, le gambe ancora instabili, e si diresse verso il lavandino. Osservò il suo riflesso nello specchio: gli occhi spaventati, il rossetto sbavato, i capelli perfetti ora in disordine. Non riconosceva quella donna che la fissava.
Con mani tremanti, prese il telefono dalla tasca della giacca e aprì il calendario. Contò nuovamente, sperando in un errore, in una svista. Ma i numeri non mentivano.
Era successo una sola volta. Una volta sola, in un pomeriggio che ora sembrava appartenere a un'altra vita, in una stanza sopra una casa con una porta rossa scrostata.
Mentre fissava il suo riflesso, Erika non poteva sapere quanto profondamente quella porta rossa avrebbe segnato la sua esistenza, né immaginare che, molto presto, avrebbe dovuto varcarla nuovamente.
scritto il
2025-04-29
2 . 9 K
visite
2 4
voti
valutazione
7.7
il tuo voto

Continua a leggere racconti dello stesso autore

Segnala abuso in questo racconto erotico

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.