Capitolo 5: La cagna e lo stallone

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trans

Giulia era ormai pienamente consapevole del suo corpo e della vita che si era costruita. La sua esistenza si divideva tra due mondi, entrambi incandescenti di desiderio. Al lavoro, le pause intime con Lorenzo erano diventate un rituale quotidiano. Quel porco non perdeva occasione per sbatterla al muro come una troia, le mani ruvide che le afferravano i fianchi mentre la scopava con una furia che la faceva gemere senza ritegno. Ogni giorno sceglieva un angolo diverso dell’ufficio: il bagno, con lei piegata sul lavandino e lo specchio che rifletteva i suoi occhi persi nel piacere; la scrivania, dove Lorenzo la spalancava come un libro, le gambe divaricate e i documenti che cadevano a terra; persino la scala della libreria, dove lui la prendeva da dietro, il legno che scricchiolava sotto i loro movimenti. Giulia era insaziabile, viveva il sogno: lo provocava senza sosta, indossando gonne aderenti che lasciavano poco all’immaginazione, calze velate di ogni tipo – nere, bianche, a rete – e tacchi vertiginosi, sandali aperti o scarpe con le dita in vista che facevano scattare Lorenzo al suo minimo cenno. Ogni giorno uno smalto diverso adornava le sue unghie dei piedi – rosso fuoco, nero lucido, oro scintillante – ma il viola scuro restava il suo preferito, un colore che le dava un’aura di mistero e dominio.

La sua seconda vita come VioletSoles era il complemento perfetto. L’esibizionismo puro, la platea di adoratori che la incitava a mostrarsi sempre di più, la facevano sentire donna all’ennesima potenza – una cagna in calore, affamata di attenzione, in cerca del padrone che potesse domarla. Gli introiti di OnlyFans, uniti allo stipendio da segretaria, le avevano permesso di mettere da parte una somma cospicua, e Giulia decise di investire in una passione che l’aveva accompagnata sin da bambina: l’equitazione. Trovò un centro ippico alle porte di Roma e iniziò a prendere lezioni, immergendosi in quel mondo di potenza e grazia. Cavalcare quegli stalloni enormi le accendeva pensieri di lussuria: il ritmo del galoppo, il contatto con la sella, la forza brutale delle bestie sotto di lei la eccitavano senza sosta. Per amplificare il piacere, si infilava un plug anale prima di ogni sessione, il metallo freddo che si scaldava dentro di lei, ogni colpo della cavalcatura che le mandava scariche di godimento lungo la schiena. E quando, al termine di ogni lezione, lavava e puliva il suo cavallo, i suoi occhi finivano inevitabilmente sugli enormi membri degli stalloni – pendenti, scuri, pulsanti – che le facevano venire l’acquolina in bocca, la mente persa in fantasie selvagge.

All’interno del centro ippico, uno dei collaboratori catturò presto la sua attenzione: Didier, un ragazzo ghanese di 29 anni. Alto, con un fisico scolpito che si intuiva sotto le tute da lavoro, aveva la pelle nera come l’ebano e un sorriso gentile che nascondeva una sensualità latente. Giorno dopo giorno, presero confidenza: prima un caffè insieme prima dell’allenamento, chiacchiere leggere che scaldavano l’atmosfera, poi consigli su come lavare meglio il crine del cavallo, le mani di Didier che sfioravano le sue mentre le mostrava i movimenti giusti. Un tardo pomeriggio di venerdì, con il centro ormai quasi deserto, Giulia non trovò lo shampoo per il crine sullo scaffale abituale. Sentì un rumore provenire dagli spogliatoi maschili e si diresse lì, pensando di trovarlo. “Didier, sei qui?” chiamò, fermandosi sull’uscio. Nessuna risposta, solo il suono della doccia in sottofondo. Entrò, avanzando con passo deciso. “Didier, sei qui? Mi servirebbe uno shampoo per il mio cavallo.” Dalla zona delle docce, una figura si affacciò. “Giulia, sei tu? Pensavo di essere rimasto solo,” disse Didier, la voce profonda e leggermente sorpresa. Non fece nulla per coprirsi, e quando uscì dal vapore, Giulia si trovò davanti uno spettacolo che le tolse il fiato. Il corpo statuario di Didier, lucido d’acqua, superava ogni immaginazione: muscoli definiti, spalle larghe, addominali che sembravano scolpiti nella pietra. Ma fu il suo membro a rapirle lo sguardo – lungo, spesso, nero come la notte, pendente tra le cosce come quello di uno stallone, un prodigio che non sfigurava accanto ai cavalli che lei accudiva.

Giulia rimase a bocca semiaperta, lo sguardo libidinoso che tradiva ogni pensiero. “Mi servirebbe dello… dello shampoo per il mio cazzo… cioè, volevo dire per il cazzo del mio cavallo… perdonami, per il mio cavallo. Il mio è finito…” balbettò, arrossendo mentre distoglieva gli occhi, imbarazzata ma eccitata. Didier sorrise, un lampo trionfante negli occhi. “Se vuoi, posso accontentarti per entrambe le richieste…” disse, prendendo un asciugamano e iniziando a strofinarsi quel cazzo abnorme con movimenti lenti e provocanti. “Vuoi darmi una mano? Sai, sono proprio distrutto…” Giulia, in trance da maiala, non esitò. In un attimo era davanti a lui, l’asciugamano tra le mani, e iniziò a massaggiargli il pube con una dedizione febbrile. Il membro di Didier era lucido, turgido, e cominciava a gonfiarsi, vena dopo vena, sotto le sue carezze. Le palle, grosse come kiwi maturi, pendevano pesanti, invitandola a sbucciarle e gustarle. Giulia sentiva la saliva accumularsi in bocca, deglutendo a vuoto, il desiderio che le bruciava dentro. “Sembra che ti piaccia, non vuoi assaggiarlo, puttanella?” disse Didier, la voce che passava dalla cortesia a un tono rude e dominante. Giulia lo guardò, sorpresa – lui era sempre stato educato, servizievole – ma quelle parole la accesero. “Cosa c’è? Non sei una puttanella? Ti vedo mentre cavalchi, e soprattutto mentre lavi il tuo stallone. Ora ti faccio provare lo stallone africano, puttanella in calore.” Lei annuì, un gemito che le sfuggiva solo a sentirlo parlare così, e si inginocchiò davanti a lui.

Prese quel ben di Dio tra le mani, la lingua che scorreva lungo l’asta, troppo lunga per entrarle tutta in bocca. La leccò lateralmente, su e giù, seguendo ogni vena pulsante, poi si dedicò alle palle, succhiandole una alla volta, ma neanche quelle entravano nella sua bocca minuta. Era una cagna in calore, e mentre lo lavorava con devozione, sentì un orgasmo spontaneo esploderle nelle mutandine, il plug anale che amplificava ogni sensazione. Didier, in preda al piacere, le ordinò: “Fammi vedere cosa hai lì sotto.” La sollevò di peso, le mani forti che la stringevano, e con un gesto brutale le strappò i pantaloni da equitazione, dividendoli in due. Le mutandine di seta erano zuppe, un lago di umori che tradiva la sua eccitazione. “Guarda la mia puttana come è bagnata!” ringhiò Didier, avvicinandosi e mordendo la seta per strapparla via con i denti. Quando si trovò davanti il membro di Giulia, rimase per un attimo stupito – piacevolmente stupito. “Oh, una sorpresina,” disse, prima di chinarsi a leccare tutto ciò che aveva di fronte. Ripulì gli umori di lei con la lingua, assaporando ogni goccia, poi si dedicò al buco del culo. Trovò il plug anale, lo afferrò con i denti e lo sfilò di forza, strappandole un grido di dolore misto a godimento. Il buco dilatato pulsava davanti a lui, e Didier lo lubrificò con la lingua, infilandola dentro con una voracità animalesca, grugnendo mentre la preparava.

Giulia, in preda alla foga, lo supplicò: “Ti prego, riempimi fino in fondo.” Didier la fissò, un sopracciglio alzato. “Non manca qualcosa dopo quel ‘ti prego’, puttanella?” Lei capì e si piegò al suo gioco: “Ti prego, padrone, sfondami fino a sfinirmi, non resisto.” “Adesso va meglio, troietta,” rispose lui, trionfante. Le afferrò i fianchi e infilò il cazzo con un colpo secco, entrando solo a metà – era troppo grosso per andare oltre al primo impatto. Poi iniziò a scoparla con una foga brutale, grugnendo come un animale, insultandola senza sosta. “Prendi tutto, puttana,” ringhiava, spingendo più a fondo, il membro che la apriva come mai prima. La prese prima alla missionaria, sul pavimento freddo degli spogliatoi, le gambe di lei spalancate mentre lui affondava, i colpi che le scuotevano il corpo e le strappavano gemiti rochi. Poi la girò a pecora, il viso di Giulia premuto contro il pavimento, le mani che cercavano appiglio mentre Didier la montava con una potenza selvaggia, il suono della carne che sbatteva contro la carne che riempiva la stanza. Lei godeva come mai in vita sua, tre orgasmi che si susseguivano uno dopo l’altro, il plug dimenticato sostituito da quel cazzo che la riempiva fino al limite, il membro di lei che schizzava sul pavimento a ogni spinta.

Didier non si fermò lì. La trascinò sotto la doccia, l’acqua calda che scorreva su di loro, e la usò come una spugna. “Tieni fuori la lingua,” le ordinò, afferrandole la testa con una mano mentre con l’altra si strofinava il corpo contro di lei. Le passò la faccia sul petto, i muscoli tesi che le sfregavano le labbra, poi sotto le ascelle, il sapore salato che le inondava la bocca. Arrivato alle palle, gliele fece succhiare di nuovo, spingendole contro il viso mentre l’acqua le colava addosso. Sul culo si soffermò per dieci minuti, strofinandole la faccia tra le natiche nere e sode, il buco che premeva contro la sua lingua mentre lei lo leccava con devozione, il sapore muschiato che la mandava in estasi. “Lecca i piedi, troia,” ordinò infine, sedendosi sul bordo della doccia. Giulia obbedì, un oggetto nelle sue mani: prese un dito alla volta, succhiandolo con cura, la lingua che scivolava tra le dita, poi passò alle suole ruvide e ai talloni, assaporando ogni centimetro con una dedizione totale.

Per finire, Didier si alzò, il cazzo ancora semiduro, e le pisciò addosso. Due litri di liquido caldo e dorato la inondarono, colpendole il viso, il petto, scorrendo tra i suoi capelli mentre lei teneva la bocca aperta, bevendone quanto poteva, sfinita e sporca sul pavimento della doccia. Era il momento migliore della sua vita, un’estasi che la lasciava tremante, il corpo e l’anima finalmente appagati dalla bestialità di quello stallone africano.
scritto il
2025-03-21
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