I pompini... di classe della figlia di papà
di
Evablu
genere
prime esperienze
La mia famiglia era benestante, qualcuno diceva anche ricca: di certo non pativamo la fame. Papà aveva un'azienda ben avviata, aveva un autista che prima di portare lui in ditta lasciava me a scuola, io mi accomodavo da solo sul sedile posteriore e mi sentivo per tutto il tempo del viaggio gli occhi del guidatore addosso: era come se si chiedesse "ma è maschio o è femmina?". Naturalmente sapeva benissimo quale fosse il mio sesso biologico ma l'effeminatezza era palese, provocava confusione, disorientamento, non solo in lui. Capelli lunghi biondi, pelle bianca, occhi azzurri, nasino all'insù e un piccolo ma evidente seno: scambiarmi per una lei in effetti non era impossibile. Un giorno finimmo intrappolati nel traffico e facemmo tardi, scesi incazzatissima dall'auto, mentre quello si divideva tra scuse insistite e affettate e occhiate assassine sul mio posteriore rotondo e sculettante, corsi per le scale ma finii lo stesso all'ultimo banco. Accanto ai poco di buono della classe: tre, quattro, tutti ripetenti, tutti più grandi e completamente estranei alle lezioni.
I proletari di merda in mezzo a cui mi ritrovai erano uno belloccio, capello moro, lungo e fluente, mascella un po' squadrata, due spalle larghe da fare paura; l'altro col capello corto biondastro, spalle pure lui da palestrato, annoiato più di me per la noiosissima ora di scienze, tenuta da una prof decrepita e totalmente orba. La coesistenza con questi reietti era uno dei motivi per cui non perdonavo a papà la scelta "politica" della scuola pubblica: "E' lì che si impara a vivere", ripeteva alla nausea; e lì in effetti si imparavano anche molte altre cose, come avrei capito di lì a poco.
"Ma sei maschio o femmina?", mi chiese rudemente quello col capello fluente, dopo qualche minuto che stava lì a squadrarmi di sottecchi.
"Vieni con l'autista, si vede che tuo papà ha i dollari", disse sogghignando l'altro, quello col capello mezzo rasato.
Tacevo con alterigia ma i due non si davano per vinti. Il capello corto si accostò a me, in modo da poter sussurrare nel mio orecchio.
"Io sono Enzo, forse non ci siamo mai presentati".
Sapevo benissimo chi era; e anche l'altro, conoscevo: il capellone si chiamava Giuseppe ed era accreditato di una certa fama sulla dotazione fisica nascosta, cosa che mi turbava non poco.
"Io sono Roberto", risposi con un filo di voce. Strinsi la mano - la mia morbida, curata, le loro ruvide, popolane, ostili - a entrambi, sotto il banco. Istintivamente guardai la prof e gli altri compagni: nessuno si interessava a noi. E io non avevo proprio idea, fino a quel momento, di quante cose si potessero fare, sottobanco.
Enzo mi tenne stretta la mano più a lungo del dovuto.
"Com'è delicata", commentò portandomela sulla sua coscia. Tentai di ritrarla ma mi trattenne: era più forte. Con un movimento repentino me la trascinò sul suo pacco, tenendocela su con decisione. Dopo una breve lotta riuscii a liberarmi. Ero in imbarazzo e anche incazzata.
"Ma che vuoi?".
Sorrise: dovetti riconoscere che quando sorrideva era proprio conturbante, attraente. Feci per alzarmi e cambiare posto, ma mi sentii afferrare e bloccare una gamba da Giuseppe.
"Attento, figlio di papà - soggiunse - che nel confronto con noi poveri figli di puttana quelli come te hanno sempre da perderci. Se chiami la prof e noi dicessimo che sei stata tu a cominciare - usò volutamente il femminile - come ne usciresti?".
Erano osservazioni non campate in aria. Mi rassegnai, mentre sentivo di arrossire dalla pianta dei piedi fino alla radice dei capelli. I due bastardi mi misero ciascuno una mano sulla coscia più vicina e con grande mestiere cominciarono a carezzarmi le gambe. Dopo un po' Enzo - il più attivo - mi fece sollevare lievemente il sedere e ci mise una mano sotto.
Guardai verso la prof, mi sentivo mancare il respiro; non sapevo proprio che fare.
"Hai un bel culo", soggiunse Enzo nell'esplorarlo. Anche Giuseppe, dall'altro lato, mi spinse verso l'alto, cominciando a palpeggiare il gluteo che stava dal suo lato. Ero in classe, in mezzo a tutti i compagni e in due mi stavamo toccando liberamente il culo.
"Smettetela, togliete quelle mani", li implorai sottovoce. Mi terrorizzava l'idea di essere scoperta, di dover spiegare, argomentare, specie con due plebei del cazzo come quei due. Però più mi muovevo e più rischiavo il patatrac. Ma la cosa più fastidiosa era che, sotto sotto...
"Guarda guarda", disse infatti Giuseppe.
"Hai capito la signorina... ti tocchiamo il culo e ti si alza il pistolino", rimarcò Enzo, mettendo un dito sul mio uccellino che aveva avuto una indiscutibile reazione. Inequivocabile, come il linguaggio del corpo: che non mente mai.
"Siete due maiali!", protestai e feci l'unica cosa che c'era da fare.
"Professoressa!" dissi alzando il ditino. Li vidi raggelare e sprofondare sulle sedie. "Posso uscire?", completai quando quella mi degnò di uno sguardo. Al cenno affermativo del capo mi alzai e sfilai verso la porta in un battibaleno.
Fuori dalla classe, nei corridoi deserti della prima ora di lezione, cercai di riavermi, guadagnando la via dei gabinetti. Ero profondamente turbata, quei due porci plebei non solo erano riusciti a palpeggiarmi ma anche a eccitarmi. Avevo promesso a me stessa che non sarebbe successo più, che dopo Giovanni e i suoi languidi baci intimi non l'avrei mai fatto con nessuno. Mi infilai in un bagno, erano stati appena lavati e c'era odore di medicinale e di detersivo. Rimasta sola, mi carezzai il seno e mi accorsi di essere ancora duretta, lì sotto. Tirai fuori l'uccellino e...
Giusto in quel momento sentii un rumore concitato di passi, più persone stavano entrando nei bagni della scuola. Sentii anche un giro di chiave alla porta d'ingresso generale. Rabbrividii. Le porte dei gabinetti singoli furono aperte una dopo l'altra, come se chi era entrato stesse facendo una perquisizione, un rastrellamento e io non avevo messo il chiavistello, dovevo scegliere se bloccare la porta o rimettere il pisellino dentro le mutandine e così quando cercai di chiudere era già tardi. Enzo e Giuseppe si presentarono con un ghigno stampato sul volto.
"Eccoti qua", disse uno dei due.
"No, vi prego, lasciatemi in pace", protestai come una vera femminuccia. "Volete soldi? Ve li do, lasciatemi stare".
"Quelli ce li darai lo stesso, per comprare il nostro silenzio", ridacchiò Enzo. Giuseppe aveva richiuso la porta, ora eravamo in tre, in piedi, scomodi, nello stretto spazio del gabinetto singolo, col water in mezzo. Mi strinsero su due lati, sentivo i loro odori, il calore dei loro corpi forti sul mio morbido, sinuoso e sotto sotto pieno di desiderio. Ripresero il lavoro di prima, ricominciarono a spartirsi il mio culo, insinuando a turno le dita nel solco formato dai glutei, spingendole in su, a saggiare la forma del mio buchino, come per violare la mia intimità più profonda.
"Ahi - dissi sempre sottovoce - mi fate male".
Enzo smise di toccarmi di sotto, cosa che continuava a fare Giuseppe, e passò al seno: non lo avevo come le ragazze, ma anche una prima misura a quel tempo e per la nostra età confusa e soprattutto indecisa poteva bastare.
"Ti piace, piccola troia", commentò nel vedere che non provavo nemmeno a sottrarmi ai toccamenti delle minne, mentre i capezzoli si drizzavano e si indurivano in maniera evidente a causa delle sue carezze. E non solo i capezzoli.
"Riecco il pistolino", esultò infatti Giuseppe e mi palpò il pube: mi stava proprio piacendo. Però non potevo mollare, non all'apparenza.
"Vi prego, smettetela, se entra qualcuno?".
"Tu stai zitta e non fare casino, vedi che scandalo se ti trovano qui con noi". D'improvviso sentii uno strano odore. Non so come, si erano denudati entrambi.
"Caz-zo", bofonchiai nel vedere dimensioni che mi sembrarono enormi, perlomeno rispetto a quello di Giovanni.
"Cazzi", risero sguaiatamente entrambi, sempre sottovoce.
Me li misero in mano, uno nella destra, l'altro nella sinistra e come un automa iniziai un movimento lento e regolare, menando quei due pali di carne. Giuseppe lo aveva più grosso e lungo ma anche Enzo si difendeva. Dopo un po' mi resi conto che non mi stavano affatto costringendo, li stavo masturbando in piena libertà, muovendo la mano su e giù, accarezzando la cappella e l'asta nodosa, grossa e lunga, di entrambi. E anche il mio cazzetto era sempre più partito in una convinta erezione.
"Dovresti portare il reggiseno, piccola troia", balbettò Enzo, che continuava a tastarmi il petto e non era insensibile a quelle mie carezze intime: respirava infatti con un certo affanno, mentre gli menavo quel cazzo grosso, più che lungo. E anche Giuseppe, che aveva un cazzo proprio super, ansimava. Ora si erano divisi pure il mio seno: Giuseppe a destra, Enzo a sinistra, mi palpeggiavano e pizzicavano i capezzoli. Mostravo di avere una voglia terribile, come se non avessi aspettato, dopo la primissima esperienza con Giovi, le avance di compagni più suini di lui, per dare libero sfogo alla mia troiaggine. Ma la situazione restava più che imbarazzante.
"Vai sotto", disse Giuseppe, sempre con il fiatone di chi sta correndo. Mi prese per un polso e mi tirò giù, facendomi sedere sul water.
"No, vi prego", implorai poco convinta ma mi ritrovai di fronte al ventre liscio di Giuseppe, che aveva una specie di proboscide ricurva, lunga almeno una ventina di centimetri, che fuoriusciva da un cespuglio di peli scuri.
"Succhialo, puttana con i soldi", bisbigliò piazzandomi rudemente una mano sulla nuca e spingendomi il suo uccellone in gola. Pensai di soffocare, mi aiutò a tirarlo fuori lentamente, facendo agire le labbra come una dolce ventosa sulla sua asta e subito mi ritrovai Enzo dall'altro lato.
"Anche a me, razza di troietta ricca".
"Ci scoprono!", provai a protestare.
"Zitta e fatti scopare la bocca", rispose Giuseppe.
"Porci, sudici porci - ansimai - avete due cazzi enormi" e continuai ad alternarmi nei pompini. Sì, quello di Giovi era poca roba, il confronto era impietoso.
"Brava, brava, succhia, piccola baldracca", ora non distinguevo più le voci, non capivo chi mi stesse parlando. Mi arrivavano fino in gola, sfiorandomi le tonsille e inducendomi conati di vomito, ogni tanto li tiravano fuori e mi schiaffeggiavano con i cazzi, perfettamente scappucciati, leccavo il prepuzio a entrambi, avevano un sapore quasi identico, strano, pipì e sperma, salato e dolciastro.
"Ma sei una... bagascia! Quanti ne hai fatti, pompini?".
"Ma che te ne frega, coglione", protestai con Enzo, e a proposito di coglioni - Giovanni lo aveva preteso - glieli presi nella mano fredda, facendolo sussultare ma anche esaltare.
"Vacca, troia" e cominciò a spingere con decisione avanti e indietro, avanti e indietro, fino a quando non sentii un primo schizzetto, doveva essere la pre-eiaculazione, aveva un sapore intenso, d'istinto mollai la presa ma mi ritrovai di fronte a Giuseppe, che aveva la cappellona turgida e scura, si affrettò a richiamare la mia testa prendendomi per i capelli e infilandomi in bocca il suo cazzone, subito sentii un fiotto caldo inondarmi il palato, istintivamente cercai di allontanarmi ma lui me lo spinse di nuovo dentro e mugolando venne con tutto lo sperma che aveva in corpo, un'infinità, costringendomi con una spinta decisa sulla nuca a prenderlo tutto in gola, a inghiottirlo e a sputarne solo una piccola parte. Un istante dopo anche Enzo mi sfondò la bocca inondandomi del suo seme. Entrambi erano riusciti a venire senza fare rumore, ora ero tutta zozza e con la faccia, la bocca, la gola, l'esofago, pieni del loro sperma, che mi aveva bagnato la camicia.
Ero veramente una troia, mi dissi tra me.
E proprio in quel momento suonò la campanella.
I proletari di merda in mezzo a cui mi ritrovai erano uno belloccio, capello moro, lungo e fluente, mascella un po' squadrata, due spalle larghe da fare paura; l'altro col capello corto biondastro, spalle pure lui da palestrato, annoiato più di me per la noiosissima ora di scienze, tenuta da una prof decrepita e totalmente orba. La coesistenza con questi reietti era uno dei motivi per cui non perdonavo a papà la scelta "politica" della scuola pubblica: "E' lì che si impara a vivere", ripeteva alla nausea; e lì in effetti si imparavano anche molte altre cose, come avrei capito di lì a poco.
"Ma sei maschio o femmina?", mi chiese rudemente quello col capello fluente, dopo qualche minuto che stava lì a squadrarmi di sottecchi.
"Vieni con l'autista, si vede che tuo papà ha i dollari", disse sogghignando l'altro, quello col capello mezzo rasato.
Tacevo con alterigia ma i due non si davano per vinti. Il capello corto si accostò a me, in modo da poter sussurrare nel mio orecchio.
"Io sono Enzo, forse non ci siamo mai presentati".
Sapevo benissimo chi era; e anche l'altro, conoscevo: il capellone si chiamava Giuseppe ed era accreditato di una certa fama sulla dotazione fisica nascosta, cosa che mi turbava non poco.
"Io sono Roberto", risposi con un filo di voce. Strinsi la mano - la mia morbida, curata, le loro ruvide, popolane, ostili - a entrambi, sotto il banco. Istintivamente guardai la prof e gli altri compagni: nessuno si interessava a noi. E io non avevo proprio idea, fino a quel momento, di quante cose si potessero fare, sottobanco.
Enzo mi tenne stretta la mano più a lungo del dovuto.
"Com'è delicata", commentò portandomela sulla sua coscia. Tentai di ritrarla ma mi trattenne: era più forte. Con un movimento repentino me la trascinò sul suo pacco, tenendocela su con decisione. Dopo una breve lotta riuscii a liberarmi. Ero in imbarazzo e anche incazzata.
"Ma che vuoi?".
Sorrise: dovetti riconoscere che quando sorrideva era proprio conturbante, attraente. Feci per alzarmi e cambiare posto, ma mi sentii afferrare e bloccare una gamba da Giuseppe.
"Attento, figlio di papà - soggiunse - che nel confronto con noi poveri figli di puttana quelli come te hanno sempre da perderci. Se chiami la prof e noi dicessimo che sei stata tu a cominciare - usò volutamente il femminile - come ne usciresti?".
Erano osservazioni non campate in aria. Mi rassegnai, mentre sentivo di arrossire dalla pianta dei piedi fino alla radice dei capelli. I due bastardi mi misero ciascuno una mano sulla coscia più vicina e con grande mestiere cominciarono a carezzarmi le gambe. Dopo un po' Enzo - il più attivo - mi fece sollevare lievemente il sedere e ci mise una mano sotto.
Guardai verso la prof, mi sentivo mancare il respiro; non sapevo proprio che fare.
"Hai un bel culo", soggiunse Enzo nell'esplorarlo. Anche Giuseppe, dall'altro lato, mi spinse verso l'alto, cominciando a palpeggiare il gluteo che stava dal suo lato. Ero in classe, in mezzo a tutti i compagni e in due mi stavamo toccando liberamente il culo.
"Smettetela, togliete quelle mani", li implorai sottovoce. Mi terrorizzava l'idea di essere scoperta, di dover spiegare, argomentare, specie con due plebei del cazzo come quei due. Però più mi muovevo e più rischiavo il patatrac. Ma la cosa più fastidiosa era che, sotto sotto...
"Guarda guarda", disse infatti Giuseppe.
"Hai capito la signorina... ti tocchiamo il culo e ti si alza il pistolino", rimarcò Enzo, mettendo un dito sul mio uccellino che aveva avuto una indiscutibile reazione. Inequivocabile, come il linguaggio del corpo: che non mente mai.
"Siete due maiali!", protestai e feci l'unica cosa che c'era da fare.
"Professoressa!" dissi alzando il ditino. Li vidi raggelare e sprofondare sulle sedie. "Posso uscire?", completai quando quella mi degnò di uno sguardo. Al cenno affermativo del capo mi alzai e sfilai verso la porta in un battibaleno.
Fuori dalla classe, nei corridoi deserti della prima ora di lezione, cercai di riavermi, guadagnando la via dei gabinetti. Ero profondamente turbata, quei due porci plebei non solo erano riusciti a palpeggiarmi ma anche a eccitarmi. Avevo promesso a me stessa che non sarebbe successo più, che dopo Giovanni e i suoi languidi baci intimi non l'avrei mai fatto con nessuno. Mi infilai in un bagno, erano stati appena lavati e c'era odore di medicinale e di detersivo. Rimasta sola, mi carezzai il seno e mi accorsi di essere ancora duretta, lì sotto. Tirai fuori l'uccellino e...
Giusto in quel momento sentii un rumore concitato di passi, più persone stavano entrando nei bagni della scuola. Sentii anche un giro di chiave alla porta d'ingresso generale. Rabbrividii. Le porte dei gabinetti singoli furono aperte una dopo l'altra, come se chi era entrato stesse facendo una perquisizione, un rastrellamento e io non avevo messo il chiavistello, dovevo scegliere se bloccare la porta o rimettere il pisellino dentro le mutandine e così quando cercai di chiudere era già tardi. Enzo e Giuseppe si presentarono con un ghigno stampato sul volto.
"Eccoti qua", disse uno dei due.
"No, vi prego, lasciatemi in pace", protestai come una vera femminuccia. "Volete soldi? Ve li do, lasciatemi stare".
"Quelli ce li darai lo stesso, per comprare il nostro silenzio", ridacchiò Enzo. Giuseppe aveva richiuso la porta, ora eravamo in tre, in piedi, scomodi, nello stretto spazio del gabinetto singolo, col water in mezzo. Mi strinsero su due lati, sentivo i loro odori, il calore dei loro corpi forti sul mio morbido, sinuoso e sotto sotto pieno di desiderio. Ripresero il lavoro di prima, ricominciarono a spartirsi il mio culo, insinuando a turno le dita nel solco formato dai glutei, spingendole in su, a saggiare la forma del mio buchino, come per violare la mia intimità più profonda.
"Ahi - dissi sempre sottovoce - mi fate male".
Enzo smise di toccarmi di sotto, cosa che continuava a fare Giuseppe, e passò al seno: non lo avevo come le ragazze, ma anche una prima misura a quel tempo e per la nostra età confusa e soprattutto indecisa poteva bastare.
"Ti piace, piccola troia", commentò nel vedere che non provavo nemmeno a sottrarmi ai toccamenti delle minne, mentre i capezzoli si drizzavano e si indurivano in maniera evidente a causa delle sue carezze. E non solo i capezzoli.
"Riecco il pistolino", esultò infatti Giuseppe e mi palpò il pube: mi stava proprio piacendo. Però non potevo mollare, non all'apparenza.
"Vi prego, smettetela, se entra qualcuno?".
"Tu stai zitta e non fare casino, vedi che scandalo se ti trovano qui con noi". D'improvviso sentii uno strano odore. Non so come, si erano denudati entrambi.
"Caz-zo", bofonchiai nel vedere dimensioni che mi sembrarono enormi, perlomeno rispetto a quello di Giovanni.
"Cazzi", risero sguaiatamente entrambi, sempre sottovoce.
Me li misero in mano, uno nella destra, l'altro nella sinistra e come un automa iniziai un movimento lento e regolare, menando quei due pali di carne. Giuseppe lo aveva più grosso e lungo ma anche Enzo si difendeva. Dopo un po' mi resi conto che non mi stavano affatto costringendo, li stavo masturbando in piena libertà, muovendo la mano su e giù, accarezzando la cappella e l'asta nodosa, grossa e lunga, di entrambi. E anche il mio cazzetto era sempre più partito in una convinta erezione.
"Dovresti portare il reggiseno, piccola troia", balbettò Enzo, che continuava a tastarmi il petto e non era insensibile a quelle mie carezze intime: respirava infatti con un certo affanno, mentre gli menavo quel cazzo grosso, più che lungo. E anche Giuseppe, che aveva un cazzo proprio super, ansimava. Ora si erano divisi pure il mio seno: Giuseppe a destra, Enzo a sinistra, mi palpeggiavano e pizzicavano i capezzoli. Mostravo di avere una voglia terribile, come se non avessi aspettato, dopo la primissima esperienza con Giovi, le avance di compagni più suini di lui, per dare libero sfogo alla mia troiaggine. Ma la situazione restava più che imbarazzante.
"Vai sotto", disse Giuseppe, sempre con il fiatone di chi sta correndo. Mi prese per un polso e mi tirò giù, facendomi sedere sul water.
"No, vi prego", implorai poco convinta ma mi ritrovai di fronte al ventre liscio di Giuseppe, che aveva una specie di proboscide ricurva, lunga almeno una ventina di centimetri, che fuoriusciva da un cespuglio di peli scuri.
"Succhialo, puttana con i soldi", bisbigliò piazzandomi rudemente una mano sulla nuca e spingendomi il suo uccellone in gola. Pensai di soffocare, mi aiutò a tirarlo fuori lentamente, facendo agire le labbra come una dolce ventosa sulla sua asta e subito mi ritrovai Enzo dall'altro lato.
"Anche a me, razza di troietta ricca".
"Ci scoprono!", provai a protestare.
"Zitta e fatti scopare la bocca", rispose Giuseppe.
"Porci, sudici porci - ansimai - avete due cazzi enormi" e continuai ad alternarmi nei pompini. Sì, quello di Giovi era poca roba, il confronto era impietoso.
"Brava, brava, succhia, piccola baldracca", ora non distinguevo più le voci, non capivo chi mi stesse parlando. Mi arrivavano fino in gola, sfiorandomi le tonsille e inducendomi conati di vomito, ogni tanto li tiravano fuori e mi schiaffeggiavano con i cazzi, perfettamente scappucciati, leccavo il prepuzio a entrambi, avevano un sapore quasi identico, strano, pipì e sperma, salato e dolciastro.
"Ma sei una... bagascia! Quanti ne hai fatti, pompini?".
"Ma che te ne frega, coglione", protestai con Enzo, e a proposito di coglioni - Giovanni lo aveva preteso - glieli presi nella mano fredda, facendolo sussultare ma anche esaltare.
"Vacca, troia" e cominciò a spingere con decisione avanti e indietro, avanti e indietro, fino a quando non sentii un primo schizzetto, doveva essere la pre-eiaculazione, aveva un sapore intenso, d'istinto mollai la presa ma mi ritrovai di fronte a Giuseppe, che aveva la cappellona turgida e scura, si affrettò a richiamare la mia testa prendendomi per i capelli e infilandomi in bocca il suo cazzone, subito sentii un fiotto caldo inondarmi il palato, istintivamente cercai di allontanarmi ma lui me lo spinse di nuovo dentro e mugolando venne con tutto lo sperma che aveva in corpo, un'infinità, costringendomi con una spinta decisa sulla nuca a prenderlo tutto in gola, a inghiottirlo e a sputarne solo una piccola parte. Un istante dopo anche Enzo mi sfondò la bocca inondandomi del suo seme. Entrambi erano riusciti a venire senza fare rumore, ora ero tutta zozza e con la faccia, la bocca, la gola, l'esofago, pieni del loro sperma, che mi aveva bagnato la camicia.
Ero veramente una troia, mi dissi tra me.
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