Capraia

Scritto da , il 2020-12-20, genere saffico

Cazzo di isola assurda.
Senza spiagge, strade tutte in salita, un paesetto fatto di casette di pietra, i pochi negozi tutti stipati al porticciolo,ma chiamarli negozi è un azzardo sconsiderato.
Due piccoli bar che campano con gli equipaggi delle poche barche attraccate e stipate lungo i tre pontili galleggianti, durante i mesi estivi.
Qualcuno si muove su gozzi da pesca, tornando con cassette di pesce, la nave cisterna che porta l’acqua da Livorno, il traghettino che naviga solo quando il mare non è troppo agitato.
Mi sono trasferita qui, ho affittato una casupola in cima al paesetto,un lavoro in un acquacoltura, ero stufa della vita metropolitana, ho qualche soldo da parte, ho lasciato una vita che ormai odiavo.
Nessun legame sentimentale importante, l’ultima storia seria finita male, effetti personali lanciati dalla finestra, una nottata passata sullo zerbino davanti alla porta in mutande e reggiseno, a gelare per il freddo, dopo essere stata sorpresa con una mulatta che mi leccava la fica, e buttata fuori di casa.
Senza rimpianti e nessuna gloria, una sorta di clausura meditata,alla ricerca della pace dei sensi, lontana da qualunque tentazione, solo la voglia della redenzione, dopo quindici anni dissoluti, passati a tradire e mentire, tra nottate folli, a districarsi tra vassoi pieni di cocaina, modelle magre e sempre pronte a qualunque cosa, locali con le luci soffuse, serate con i dj più in voga, lunghe corse nella notte alla guida della Porsche decapottabile.
Ora la mia vita è monastica, vado a letto presto, mi sveglio all’alba, scendo al porto, e con il gommone, faccio il piccolo tragitto che mi separa dalle gabbie dove ci sono i pesci, verso il mangime, catturo qualche esemplare, faccio le analisi, a secondo dei risultati decido i quantitativi di farmaci da mischiare al mangiare per il giorno dopo.
Mi sono reinventata questo lavoro, anche grazie ad una mia conoscenza e alla laurea in biologia mai utilizzata, quasi nessuno è disposto a questo genere di sacrifici, anche se dopo, quando ti ci abitui, da una potenziale espiazione, questa vita diventa appagante, il mare ti entra dentro, dimentichi il futile e l’inutile che prima, nella metropoli alla moda ti avevano accompagnato.
Gli amici ora sono i vecchi pescatori, i pochi stanziali che resistono anche durante l’inverno, nessuno mi infastidisce, nessuna donna che mi faccia perdere la ragione.
Siamo in quei giorni di settembre che avvicinano l’autunno, il mare è caldo, quasi sempre calmo, sempre più pesci si affollano intorno alle gabbie, attirati da tutto quel mangiare che inevitabilmente gli allevati in cattività non riescono a smaltire.
I miei amici pescatori si aggirano con le loro barche nei paraggi, tornano con le cassette piene, i tre o quattro ristorantini che rifocillano i turisti fanno porzioni esagerate, sembra quasi che sia arrivato il paese del bengodi a renderci felici e appagati.
Almeno dieci vasche piene di spigole belle grasse nel pomeriggio sono partite, le massaie di mezza Italia avranno il loro bel pesce da mettere nel forno, per la gioia dei mariti, che non hanno mai visto il mare.
Me ne sto seduta al tavolino di plastica rossa, ho il porticciolo a qualche metro, alcune barche dondolano pigre, ancora non ho tolto la divisa da allevatrice di spigole e orate.
Il negroni tergiversa nel bicchiere tra il ghiaccio, con il suo colore arancione scuro, la fetta di arancia infilata in tralice, sgranocchio le patatine, penso che stasera mi ubriacherò per poi andare a letto poco dopo il tramonto del sole.
Un cormorano si posa sulla falchetta di un gozzo azzurro, e mi osserva, spera che come fanno i turisti che arrivano con il traghetto, gli lanci qualche cibaria, magari il guscio di un gamberone, una cena di lusso senza dover faticare.
Il rumore di un piccolo fuoribordo al di là del molo del traghetto mi distrae, vedo il sottile albero in carbonio nero far capolino dietro alla massicciata di cemento, poi appare il mini transat, al timone una figura bionda, intabarrata in una cerata gialla e rossa.
Osservo il suo lento incedere, passa oltre i pontili galleggianti, e dirige proprio nella mia direzione, di fronte a me c’è un piccolo spazio libero, ha deciso che ormeggerà in questa fessura, è il vantaggio di andare in giro con un barchino di sei metri.
Entra di prua, con il poco abbrivio si ferma ad palmo dalla banchina, lancia una cima da ormeggio, come ogni buon marinaio, mi alzo e l’afferro, ci sono un paio di anelli ancorati al cemento,
“vuoi fare il doppino?”
Mi guarda e mi sorride,
“va bene domani farò prima a salpare”
Lo dice con uno spiccato accento francese,mi sembrava troppo strano che fosse un italiana.
“c’è la trappa della barca della capitaneria, se vuoi la puoi usare, hanno la barca in rimessaggio, non ti preoccupare”
Non mi risponde, mi rimetto a sedere, la osservo mentre sistema il barchino per la notte, tutte operazioni eseguite a memoria, sfila la randa e la ripone in sacco, lo stesso fa con il fiocco, li infila in un gavone, come facciano a rimediare tutto lo spazio sufficiente in sei metri scarsi, per permettersi di traversare l’atlantico per me resta un mistero.
Sempre senza dire nulla, salta sulla banchina e si avvicina al mio tavolino, apre la cerata e l’arrotola fino ai fianchi, sotto ha una maglietta di cotone bianco, appaiono due braccia muscolose, le spalle formate, un seno quasi piatto, l’abbronzatura marcata, che fa da contrasto con i capelli chiari e gli occhi azzurro oltremare.
“bevi qualcosa con me?”
L’accento francese mi stordisce, per la prima volta dopo due anni, ho di fronte a me una donna che mi sta per far girare la testa, mettere la vagina in subbuglio, le viscere pulsare.
“siedi che vediamo cosa è ancora in grado di fare a quest’ora il barista”.
“ti piace il negroni?”
Mi fa cenno di si con il capo, come per ogni buon marinaio, nessun alcolico è spaventoso.
Mi giro e grido,
“Canzio brutto grullo, facci altri due negroni!”
“Agli ordini madame!!”
Lo stronzo ha già visto ogni cosa.
Restiamo in silenzio per un altro poco, ci godiamo la luce del sole che rosseggia nella piccola baia, le pietre del castello in cima al promontorio sembrano infuocate.
“ecco i negroni, e due vassoi di acciughe fritte e calamari in guazzetto, questi li offre la casa”.
Mi fa occhietto lo stronzo, i miei amici qui, sanno che con gli uomini non ci vado, della mia passione per le donne, una delle cause della rovina della mia vita passata.
“Mi chiamo Sigoulene, e sono bretone, faccio la navigatrice solitaria su questi gusci di noce”.
Me lo dice probabilmente per evitare le solite domande di rito, con un sorriso soddisfatto, attende la risposta,
“Mi chiamo Adele, sono italiana e faccio la biologa, allevo spigole e orate in quelle vasche che hai costeggiato appena fuori dal porto”.
Ridiamo all’unisono, iniziamo a conversare, chiacchiere da donne, donne di mare.
Ha un compagno anche lui navigatore, sta facendo la rotta del rhum, una traversata in solitaria dell’atlantico, una specie di banco di prova per il giro del mondo che inizierà tra qualche mese, e a cui si è iscritto.
Lei si sta preparando per il prossimo anno, in cui farà la mini transat, partenza dal nord della Francia e arrivo in Guadaloupe, quattromila miglia di traversata su quel guscio di vetroresina che vedo ormeggiato di fronte a me.
Si vedono ogni tanto quando possono, mi fa vedere dallo smart phone una foto del suo uomo, un lupo di mare con la barba scura, i capelli arruffati, la pelle cotta dal sole.
Le racconto per sommi capi la mia vita, gli anni passati a Milano, nel mondo della moda, poi tramite un amico, lo riscoprire la laurea in biologia mai utilizzata, e questa specie di clausura, il matrimonio con le orate e il mare.
Mi chiede dove potersi lavare.
Il marina ormai ha chiuso, lei suppongo che sia etero, l’idea di portarmela a letto è molto remota, ma anche solo stare per qualche ora con una donna che mi piace, è irresistibile.
“prendi un po’ di cose per la notte e per la serata, verrai da me, ti offro una cena di pesce in uno dei migliori ristoranti del Mediterraneo”.
Siamo entrambe satolle e mezze ubriache, dopo un altro giro di negroni, abbiamo affrontato la lunga salita che ci ha portate a casa, docciate e cambiate, pochi passi e siamo arrivate da Lorenzo, dove il pesce salta direttamente dal mare, dentro alle padelle della madre, regina incontrastata del fornello e non solo.
Ci siamo scolate due bottiglie di un bianco senza etichetta, che uno zio di Lorenzo riesce a tirare fuori da un improbabile vigneto in mezzo ai sassi e alle capre.
Gli ultimi discorsi sono stati molto sconclusionati, risate senza motivo, Sigoulene deve aver compreso che la mia rovina sono state le troppe donne , le droghe , la vita dissoluta e senza prospettive.
Lei è una bretone tutto di un pezzo, nata sul ponte di una barca a vela, l’unico obiettivo quello di solcare gli oceani, entrambe ci siamo prese una pausa dalle nostre vite monacali, lei per scelta, io per disperazione.
Rientriamo un po’ barcollanti ogni tanto lei straparla in francese, e poi ride, le rispondo senza ben comprendere, le dico che i miei pesci domattina forse faranno a meno di me, lei mi guarda con uno sguardo pieno di complicità, il transat è ben ormeggiato, si lascia cadere nel divano letto che le ho preparato nel piccolo salottino, la guardo con l’occhio voglioso e rammaricato, salgo la scaletta che mi porta nella mia stanza e crollo nel mio lettone.
Dopo qualche minuto mi risveglio, mi spoglio, dormo sempre nuda, e mi infilo sotto alla copertina di pile, godo della freschezza del lenzuolo, la mente corre alla mia ospite, ho scordato l’ultima volta che mi sono toccata, l’immagine di lei nuda mi riempie la mente, sento che presto le mani si dirigeranno verso le zone del piacere.
Improvvisamente un ombra, accompagnata dal rumore di piedi nudi che saltano sul pavimento di legno mi sorprende, si materializza nella figura di Sigoulene, completamente nuda, che con un balzo agile e leggero alza la coperta e si infila nel letto al mio fianco.
Restiamo per qualche istante immobili, sento il battito cardiaco che improvvisamente si è fatto accelerato, una delle sue mani callose, mi si appoggia sul ventre, lo sfiora e lo percorre, prima verso l’alto e poi verso il basso, sta per succedere quello che non avrei mai immaginato, un regalo improvviso della sorte, una donna nel letto, una donna di cui mi potrei anche per sempre innamorare.
Le nostre bocche si incollano in un istante lungo un ora, sento la sua peluria soffice contro la mia coscia, le piccolissime mammelle sotto alle mani, i muscoli sodi delle natiche, le braccia forti che mi stringono, i ruvidi calli che mi strofinano la pelle, esplodo l’orgasmo che ho trattenuto per due anni, la gola mi si chiude mentre le mordo la lingua, che ho risucchiato dentro alla bocca, mi sembra di soffocare, la sento sussultare, strizzate in un abbraccio selvaggio per il resto della nottata.
E’ mezzogiorno quando ci risediamo al tavolino rosso, di fronte al mini transat ormeggiato.
Guardo Canzio che mi osserva con sguardo sornione, sembra dire,“lo sapevo che te la saresti scopata”,
è la parte del suo pensiero che mi sta comunicando.
“portaci due cappuccini e due cornetti alla crema grullo!”
“agli ordini signora!”
“sperando che i pesci non muoiano di fame!”
So già che questa storia si protrarrà per tutto l’inverno,” quella volta che Adele si è trombata la navigatrice solitaria”.
Sigoulene mi sorride, e con la sua erre moscia mi dice,
“lo dovrai sopportare per parecchio mi sa”.
“eh tu invece te ne vai, nessuno ti prenderà per i fondelli perché ti sei fatta l’allevatrice di pesci”
Ridiamo.
Canzio mette più della solita cura nella preparazione del cappuccino, persino i cornetti sembrano più buoni.
Mangiamo e sorseggiamo in silenzio ,entrambe stiamo per tornare alla nostra vita normale.
Mentre prepara la barca per salpare raggiungo il mio gommone, ci metto un attimo a mollare gli ormeggi, giro la chiave e i due fuoribordo Yamaha borbottano pigramente, attendo paziente che anche lei si stacchi dalla banchina.
C’è un po’ di arietta, con il piccolo fuoribordo lentamente si allontana, la vedo trafficare nel gavone, in un attimo ha estratto la randa, la infila nel carrello lungo l’albero, si appende alla drizza e la fa salire fino in testa.
Quando sta per uscire dal porto do un po’ di manetta, i due motori mi fanno schizzare veloce, la raggiungo e l’affianco, ha spento il motore e lo ha tirato fuori dall’acqua, con due altri gesti rapidi e precisi infila il fiocco nello strallo e lo solleva.
Corre al timone mette il barchino al vento, che immediatamente prende velocità e si dirige al largo.
La seguo per un po’, ci diciamo addio con lo sguardo, e viro il gommone verso i miei pesci affamati.

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