Lo specchio di Vlicha (cap.3 di 3)

Scritto da , il 2011-09-25, genere sentimentali

Lei si alza e mi abbraccia, ed io la stringo a me, e nuove sensazioni mi ritornano alla mente, cancellando come d’incanto il tempo trascorso.
E’ calda e morbida, tra le mie braccia.
Ed è viva, come sono vivo io.
Non parliamo, Dimitra ed io.
Non possiamo parlare, perché io sono tornato dal futuro e sto abbracciando un passato lontano, e le parole dette sarebbero il presente, e il presente per noi non esiste più.
Ma i nostri corpi comunicano meravigliosamente, oltrepassando i decenni e le stagioni, comunicandosi sentimenti che non hanno età, non hanno tempo, e che sono eterni.

Le prendo il viso tra le mani e scruto quel miracolo negli occhi scuri e profondi, cercando una spiegazione che lei non può darmi.
Perché non c’è una spiegazione a quello che sta accadendo.
Non ci può essere una spiegazione logica, a meno che non ci si rifugi nel comodo pensiero che tutto sia un sogno, un delirio della mia senilità.
Ma Dimitra è troppo reale, e non appartiene al mondo dei sogni.
Come viva e reale è la brezza di mare che mi scompiglia i capelli, come reale è il rumore delle onde che mi accarezza le orecchie, come intenso è il profumo del mare che riempie il mio olfatto.
Ora come allora.
E nulla sembra essere cambiato.

Dimitra mi guarda, gli occhi che ridono felici, e mi porge una bianca conchiglia, striata di semicerchi viola.
Me la appoggia sul palmo della mano, meraviglioso regalo portato dal mare: ed io stringo la conchiglia nel pugno, sentendo i suoi bordi penetrarmi nella carne e dandomi la sensazione, quasi dolorosa, di come io sia vivo in quei momenti.
Metto la conchiglia nella tasca dei pantaloni, prezioso ricordo di una sera fantastica sospesa nel tempo.

Accosto le mie labbra alle sue, e le avverto morbide e profumate.
Le sento dischiudersi ed accogliere la mia lingua, in un tenero e dolce abbraccio.
Il tempo ora non ha più senso. perché in quegli istanti il tempo non esiste più.
Ci siamo solo noi due, esattamente come una vita fa.
Le accarezzo un seno, la mia mano separata dalla sua pelle dalla stoffa del suo immacolato vestito estivo.
Sento l’urgenza di perdermi in lei perché so, non chiedetemi per quale strana ragione, che la sua famiglia l’aspetta per la cena, e lei ha poco tempo per me e per noi.
Abbracciandola e baciandola, in quell’angolo deserto di costa, le infilo una mano nella scollatura e le cingo un seno, sodo e perfetto, con il palmo della mano, stuzzicandole il capezzolo turgido con dita impazienti.
So che non potrò averla, perché allora, in quei tempi in cui il sesso non era un qualcosa di facile come oggi, mai la ebbi, mai la feci veramente mia.
Ma Dimitra sa, come sapeva allora, fino dove possiamo spingerci.

La sua mano, piccola e delicata, mi sbottona i pantaloni.
Il pene, eretto e duro (ed anche questa è una sensazione che, purtroppo, non provavo da tempo, e che avevo quasi dimenticato) si protende verso di lei.
E la stessa mano che lo ha liberato, ora lo impugna e lo masturba, ritraendo la pelle ed esponendo il glande congestionato.
Non resisto a lungo a quella sua carezza, e quando sento lo sperma risalire, pronto ad esplodere, mi volto di lato, per non macchiarle l’abito, il più bello che lei abbia nel suo povero guardaroba.
La mano rallenta e gli schizzi bianchi finiscono sulla roccia, dove il mare li porterà via, coma la vita si è portata via lei e tutti questi anni.

Un ultimo bacio e Dimitra fugge via, le guance arrossate, forse per il piacere, forse per la vergogna.
Rimango solo a guardare il mare, la luce della luna che crea una scia infinita verso l’orizzonte.
Mi sento abbandonato, lasciato solo in questo nuovo corpo, su un pianeta che potrebbe essere alieno, in un tempo che non so più quale sia.
Poi, lentamente, torno verso Vlicha.


Non puoi immergerti due volte nello stesso fiume.
(Eraclito)


Svolto l’angolo della strada di casa mia, una strada antica e polverosa, senza auto e senza lampioni, e mi blocco, mi immobilizzo, paralizzato da quello che i miei occhi vedono.
Davanti al piccolo portone della casa, una donna è seduta su una vecchia sedia traballante, e rammenda alcuni panni, l’ago che lavora instancabile nella scarsa luce della sera.
Mia madre, come tante volte l’avevo trovata tornando a casa, è lì, sola e concentrata nel suo lavoro: il volto affilato, il naso dritto, lo sguardo fisso sulle mani che cuciono, i capelli già prematuramente ingrigiti da questa vita dura e faticosa…
Il cuore mi va a mille e le lacrime mi salgono agli occhi; mia madre, dopo tutti questi anni.
E forse, più tardi, rivedrò anche mio padre, quando tornerà con la barca, stanco e provato, con quell’odore di pesce sui vestiti e nella pelle che non lo abbandona mai.
La commozione mi fa vacillare, obbligandomi ad appoggiare la mano al muro di una casa.

E poi, finalmente, quando l’emozione me lo consente, corro verso di lei, verso la donna che mi ha messo al mondo e che mi ha amato fino all’ultimo respiro, chiamandola disperatamente, urlando il suo nome, piangendo e ridendo, impazzito di gioia come un bambino che si sia perso e che ritrovi i suoi genitori quando più non ci sperava.
E, davanti a lei, per un attimo penso che morirò, perché la commozione quasi mi soffoca, togliendomi il respiro.
- Mamma… mamma… sono io… mamma… -
Ma lei non mi risponde, non alza la testa, non mi sorride come sempre faceva allora.
E non mi sgrida neppure perché non le ho detto dove andavo, e lei si preoccupa se non sa dove trovarmi.

M'inginocchio davanti a mia madre, il viso inondato di lacrime pungenti e salate, ma lei non mi vede.
Continua a far andare l’ago sulla camicia strappata di mio padre.
Come se io fossi un fantasma, trasparente ed etereo.
Voglio accarezzarla, toccarla, dirle che l’amo, che in questi trent’anni passati dalla sua morte l’ho sempre pensata, che mi è mancata ogni giorno ed ogni notte, che…
Ma le mie mani passano attraverso lei, annaspano nell’aria, perché mia madre c’è, io la vedo, ma non c’è, io non la posso toccare.
Forse è lei il fantasma.
O, forse, lo siamo entrambi.
Dimitra l'avevo stretta a me, l'avevo baciata ed accarezzata.
Con mia madre questo mi risulta impossibile.
Non possiamo comunicare, non possiamo dirci il nostro amore.
Ed è una sensazione orribile, credetemi: pazzo, direte voi, sei solo un povero vecchio pazzo.
Già, forse avete ragione.
Ma mia madre era lì, ve lo giuro.
Era lì, come ancora oggi la ricordo nelle notti in cui il sonno tarda a venire.
In quelle lunghe notti in cui la mente pericolosamente vaga nei ricordi e nei dolori.

L’angoscia e la sofferenza che mi schiacciano, mi rimetto in piedi, senza poter dare un bacio o un abbraccio a quella donna che mi ha partorito.
E allora mi precipito in casa, perché voglio tornare allo Specchio, perché rivoglio indietro i miei anni, perché è troppo doloroso tornare ad essere giovani.
E mentre risalgo le scale sento di nuovo i dolori alle ginocchia che mi costringono a rallentare, a sorreggermi al mancorrente: ed il fiato mi si fa grosso, ed i polmoni sembrano scoppiare alla ricerca dell’aria che sembra non bastare più.
Apro la porta di casa con mano malferma e questa volta mi guardo nello specchio del corridoio: e qui sono di nuovo vecchio, come lo ero stato fino a poco prima.
Le lacrime, di gioia e di dolore, mi scivolano sulle guance, ora nuovamente cascanti, mentre vado in bagno a chiedere misericordia allo Specchio.
E lo Specchio, pietosamente, mi rimanda l’immagine che voglio vedere: i radi capelli bianchi e le rughe, le borse ed il triplo mento.
E sul bordo del lavandino c’è la bomboletta, non più il pennello.
E c’è il bilama, e non più il vecchio rasoio.

Ecco.
Ora potete ridere di me.
Ora potete darmi del matto.
Perché è tutto tornato come prima.
Anche la luce del giorno, che è quella di un nuovo primo mattino estivo.
E lo Specchio ha nuovamente i bordi anneriti dal tempo, e distorce impercettibilmente le immagini che riflette.
E non indosso più i pantaloni blu, la camicia bianca ed i mocassini neri: sono a torso nudo con solo i pantaloni del pigiama.
E’di nuovo tutto come prima.
Ridete pure.
Quanto volete.
Però...

Torno in camera e mi siedo sul letto.
E’ stato un sogno.
Forse.
O forse no.
Ma io sono matto, no ?
Eppure…
Nell’armadio aperto vedo i pantaloni marroni che metto praticamente tutti i giorni.
Sarò fuori di testa, ma io so che c’è.
Li sfilo dalla stampella e li porto sul letto: frugo timoroso nella tasca e… eccola qui… la conchiglia che Dimitra mi ha regalato.
La osservo e la stringo nella mano.
Per essere stato solo un sogno…

Mi sono di nuovo steso sul letto.
Oggi non uscirò.
Resterò a meditare su quanto successo.
Ho da prendere una difficile decisione.
E qui ho bisogno del vostro aiuto.
Perché domani mattina, quando mi alzerò per farmi la barba, non so proprio se mi guarderò nello Specchio.
Dite che non mi succederà più nulla ?
Che è stato solo un attimo in cui la mia mente ha vacillato ?
Sarà.
Ma io ho paura.
Ho paura dei sogni e della mia follia.
E ho paura anche della realtà.
Perché che io sia matto lo pensate solo voi.

Magari mi farò crescere la barba.
Butterò il rasoio e la bomboletta di schiuma.
E magari anche lo Specchio.
Perché no ?
Potrebbe essere una soluzione.
Forse.
Chissà.


“La speranza è un sogno fatto da svegli.”
Aristotele


Fine


diagorasrodos@libero.it

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