Diversamente vergine - 7

Scritto da , il 2019-09-16, genere etero

AUTOGRILL.


Forse mi ci trascinò baciandomi, forse ci danzammo, forse semplicemente camminammo mano nella mano. Non ho grande memoria di quei secondi. Fatto sta che mi ritrovai seduta sull’enorme sedile di pelle dell’auto, accanto a lui. Mi risvegliai solo quando mi accorsi che aveva messo in moto, ebbi paura.

– No, fermo, dove vai?

– Tranquilla, trovo un posto un po’ più buio.

Un posto un po’ più buio nella piazzola di un autogrill con un tipo appena conosciuto e che aveva perlomeno il doppio dei miei anni, se non di più. Attratta dal suo odore di uomo, con la fica squagliata dalla sua stretta sui capelli. E dovevo stare tranquilla? Nemmeno una pazza squilibrata come me avrebbe potuto starsene tranquilla.

Ma proprio perché sono una pazza squilibrata mi avvicinai ancora di più a lui e al suo profumo magico, infilando la mano negli spazi tra i bottoni della sua camicia. Arrestò la macchina proprio mentre il bip per la mancata chiusura delle cinture iniziava a protestare e in quel momento feci ciò che desideravo fare da tempo: gli aprii la camicia facendo saltare forse qualche bottone e mi avventai sul suo petto, sul suo odore, sulla sua leggera patina di sudore e iniziai a leccare.

L’uomo reagì con uno sbuffo e con una nuova stretta ai capelli sulla mia nuca, premendomi la faccia su di sé, sui suoi peli, rantolando mentre avvertiva la mia lingua e le mie labbra sui capezzoli.

Ebbi una serie di forti contrazioni al ventre e mi percepii bagnata in modo osceno, soprattutto dopo che la mia mano prese a correre sulla tela leggera dei suoi pantaloni, sopra la coscia, sopra il suo pacco che avvertii semirigido, strano, anomalo. Avrei dato qualsiasi cosa in quel momento per liberarlo, guardarlo. Ma non c’era bisogno di dare nulla, in effetti, bastò chiedere. Leccai ancora un po’ il suo petto e risalii su fino al collo, poi mi staccai da lui.

– Vuoi riempirmi la bocca? – gli sussurrai.

– E di cosa?

Il porco aveva capito benissimo, ma voleva che glielo dicessi io. Mi voleva troia.

– Di cazzo… del tuo cazzo… – risposi con un tono tale che se essere una zoccoletta fosse un reato mi sarei beccata l’ergastolo per direttissima.

– Sei proprio sicura di non essere una puttana? – chiese lui fattosi di nuovo improvvisamente guardingo.

– Sì.

– Non è che poi vuoi i soldi?

– No, voglio succhiarti il cazzo. Che dici?

Il suono della parola “cazzo” mi faceva pulsare già la fica in modo incontrollato. E fu a quel punto che successe l’imprevedibile.

Tirò fuori una nerchia mai vista, almeno da me. Devo avere sgranato gli occhi dalla meraviglia perché lui mi guardò sorridendo e menandoselo per farlo ingrossare ancora di più.

– Mica male, eh? – disse.

Non so, non saprei che dire, sembrava un flacone di Pronto, lo spray per i mobili. No, ok, forse esagero, però porca vacca, ma non ti pesa nei pantaloni? Io ho amiche che si lamentano delle tette grosse, tu come cazzo fai a camminare?

Straparlo, chiaramente. Avete presente la golosità? La voglia del troppo? Mi aveva assalita. Solo che non sapevo proprio come fare.

Mi chinai sopra quel manganello inverosimile e ci lasciai cadere sopra una quantità industriale di saliva. Anche lì aveva un odore e un sapore forte, da fine giornata. O forse da uomo, non da ragazzo. Spalancai la bocca e mi tuffai a ciucciare. Mi fermavo, leccavo l’asta e ricominciavo a ciucciare, leccavo il glande e ricominciavo a ciucciare. Ben presto occupò tutta la mia bocca ma la cosa mi risultò gestibile finché non mi afferrò ancora una volta per i capelli, stavolta in modo anche più deciso di prima, iniziando a spingermi la testa su e giù sul suo cazzo.

In effetti sì, ero proprio quello che avrei voluto dirgli per sfotterlo mentre eravamo ancora dentro il bar: una che andava in giro a fare pompini ai curiosi. Obiettivamente, quello stavo facendo.

Per certi versi era orribile. Respiravo a fatica, gorgogliavo come una puttana da porno-clip e le sue botte mi arrivavano fino in gola procurandomi conati e colpi di tosse repressi dal suo vai e vieni. Mi faceva male l’attaccatura dei capelli e le mandibole sembravano doversi divellere, lussare da un momento all’altro. Non sapevo nemmeno come quell’affare riuscisse ad andarmi così in fondo, e nemmeno entrava tutto.

Dall’altro lato era una delle cose più incredibili che avessi mai fatto: spompinare uno sconosciuto nella piazzola di un autogrill per sfogare l’eccitazione che le parole di mia sorella mi avevano messo addosso. Non potei fare a meno di pensare a lei e a cosa stesse facendo in quel momento. Lo succhia anche lei? Grida sotto i colpi di Massimo? Gli sta dando il culo? Dovevo masturbarmi, e mi infilai una mano sotto le mutandine umide già da un bel pezzo. Lui se ne accorse.

– Sei davvero una zoccoletta, con questa faccia da ragazzina chi l’avrebbe detto, scommetto che ne hai preso di cazzi, eh troia?

Mi diceva cose così, non smetteva mai di insultarmi e più andava avanti più mi piaceva. Anzi, sia pure ormai in apnea cercavo di assentire in qualche modo per dargli motivo di continuare. Sentirselo dire da un uomo anziché da un ragazzo mi faceva sentire, come dire, più compiaciuta ecco. Mi stava scopando la testa, me la stava scopando selvaggiamente come mai nessuno prima. Sapeva come fare, a differenza dei miei coetanei. Con un bastone come mai nessuno prima.

Poi accadde una cosa che racconto solo a voi, perché si può solo scrivere. Perché a dirlo di persona a qualcuno ammetto che schiferebbe anche me. Lui venne spruzzando, spruzzando gridando e spingendo, soffocandomi, andandomi di traverso. Ebbi un forte colpo di tosse che si infranse contro la mia gola completamente ostruita e che trovò libero sfogo solo dal naso, con gran parte dello sperma che lui mi aveva cacciato dentro. Rantolavo, tossivo e colavo sperma dal naso mentre lui continuava a spingere gli ultimi colpi.

Quando mi lasciò la presa dei capelli mi rialzai annaspando, dovevo essere uno spettacolo orribile ma avrei dato non so cosa per guardarmi. Lo so, ditelo pure, sono pazza. Ripresi a tossire portandomi le mani sul muso e impiastricciandole del suo seme.

– Tieni, pulisciti che fai schifo – mi disse con modi nemmeno troppo garbati porgendomi un kleenex, di quelli che spuntano dalle scatole e che in genere usano i clienti di quelle vetture.

Mi pulii, scusandomi perfino. Ma non era certo l’ora della buona educazione, perché lui mi riafferrò per i capelli e mi riportò la bocca sul cazzo.

– Adesso pulisci anche me, puttanella.

Lo feci, passando lingua e labbra sul glande e sull’asta ancora belli gonfi e sporchi di sperma, lucidandoli. Mentre lo facevo pensai che in definitiva non era proprio il caso che mi lamentassi delle sue maniere. Innanzitutto perché mi piacevano, e in secondo luogo perché ero stata io stessa a chiedergli quello. No?

Quando finii mi rialzai in ginocchio sul sedile accanto al suo, sorridendogli, una mano sulla mia coscia l’altra sul suo cazzo. Ad accarezzarlo in tutta la sua lunghezza.

– Brava, così… continua così che torna duro subito – mi sussurrava lui beandosi del mio massaggio leggero.

Ebbi una contrazione violentissima al ventre.

– Ti torna subito duro? – piagnucolai come una cretina – duro e grosso?

Ma perché in questi momenti mi riduco così? Sembro un’idiota, un’afasica balbettante, una bambina di prima media alla sua prima interrogazione in preda all’ansia.

Stavo per esplodere, mi portai ancora una volta la mano a sollevare il vestito e a infilarsi nelle mutandine. La fica mi pulsava incontrollata, il grilletto era sensibilissimo.

– Ah! – gemetti in preda a una scossa che mi attraversò il corpo dal ventre al cervello mentre gli stringevo il cazzo – è così grosso…

– Sei una cagnetta in calore – mi insultò lui – devi averne proprio voglia, eh?

– Siiiiì… mi piace tanto succhiare il cazzo – mi ritrovai a dire per la seconda volta quella sera. L’avevo detto a mia sorella per provocarla, lo stavo dicendo ora a uno sconosciuto per eccitarlo. Ed eccitarmi io stessa sempre di più.

Mi ficcai due dita in bocca e le tirai fuori viscide di sperma e saliva, gliele mostrai con stampato in faccia un sorriso che immagino più da troia non si potesse e me le rificcai in bocca succhiandole. Il suo cazzo ebbe come un movimento spontaneo come se volesse scostare la mia mano per tornare a svettare, mi sembrò anche più duro di prima. Il pensiero che ne fossi io la causa sarebbe già di suo stato sufficiente a farmi avere un orgasmo.

E fu in quel momento che ebbi un’idea che definire folle è fargli un complimento.

Gli sputai abbondantemente sul pisello come avevo fatto in precedenza. Nemmeno il tempo di dire ba e mi sfilai le mutandine fradice lasciandole cadere sul tappetino della macchina, cosa cazzo me ne poteva fregare in quel momento delle mutandine? Gli salii a cavalcioni alzando il mio vestito e incollando il taglio della mia fica sopra quel bastone.

Mai un cazzo si era così tanto avvicinato al mio imene, eccezion fatta per quella volta che Giorgio aveva tentato di incularmi.

Ora, io non so cosa faccia una cagna in calore, non ne ho mai vista una. Ma una gatta in calore sì che lo so. E devo ammettere che strusciandomi su quel bastone mi sorpresi davvero a miagolare. Il viaggio di andata e ritorno non finiva mai, la sua asta sembrava volesse scavare dentro la mia fessura e separarne le labbra, non so quanto agevolata dalla mia saliva o dalla mia fontana personale che gliela stava cospargendo di umori. Spingevo tutto avanti il bacino fino a far strusciare la sua cappella enorme contro il mio ingresso inviolato provando scosse di piacere mai provate, poi strusciavo all’indietro lasciando che il grilletto sfregasse su quel pezzo di carne caldo e duro, largo quasi quanto un mio braccio.

Mi muovevo senza cognizione alcuna che non fosse quella della ricerca del piacere, avanti e indietro, premendomi su di lui. Le sue mani risalirono sotto il vestito strappandomi verso il basso il reggiseno e impadronendosi delle mie tettine. Quando ne tirò i capezzoli lanciai il mio primo urlo davvero animale di quella sera. Udibile, credo, fin sull’altra corsia dell’autostrada. La testa mi dondolava da una parte e dall’altra come impazzita e i capelli la seguivano. Facesse pure quel cazzo che gli pareva.

A un tratto mi sentii sollevare, afferrata per una chiappa, vidi la sua mano cercare di prendersi in consegna il cazzo e indirizzarlo tra le mie cosce.

– Dai che adesso ti sfondo, puttanella…

Sapevo quello che voleva anche senza bisogno che me lo dicesse e francamente a quel punto gliel’avrei anche dato, con tanti saluti a tutto e a tutti. Fu solo l’istinto a salvarmi, l’istinto di volere continuare a godere come stavo godendo, strusciandomi sul pisellone dell’uomo.

– Aspetta, aspetta… – ansimai buttandomi a corpo morto fino a sentire di nuovo la nerchia scorrere sul taglio della mia fica – sto venendo… fammi venire ti prego…

In quell’istante desideravo solo quello, non pensavo né alla mia verginità né al fatto che quell’affare non ci sarebbe mai potuto entrare nella mia fica intonsa, illibata, mai scopata.

Sentivo il calore arrivare a ondate, sentivo contrarsi tutto. Lui mi assecondò frenando la sua impazienza e mi strinse le chiappe stavolta con entrambe le mani tirandomi ancora un po’ più giù. Mi sentivo spiaccicata sul suo cazzone enorme, sul suo petto, sul suo odore.

Improvvisamente un dito – grosso, pure quello – mi cercò l’ano e me lo stuprò senza tante attenzioni. Spingeva cattivo fino in fondo, travolgendo e straziando ogni resistenza. Fu a quel punto che lanciai il secondo strillo acutissimo della serata, di dolore misto a qualcos’altro che mi vergogno a definire come voglia. Bruciava e faceva male, e allo stesso tempo mi sentivo aperta e gonfia. Meno aperta e meno gonfia di quando il glande di Giorgio aveva provato ad allargarmi lo sfintere, d’accordo, ma più in profondità. Quel dito mi era arrivato fin dove probabilmente poteva arrivare, e a me non era rimasto altro da fare che restare senza fiato per un secondo, senza sapere come maneggiare quella sensazione, e poi lanciare il mio grido.

E penso che ne avrei lanciati altri se lui non mi avesse tappato la bocca. Ma stavolta erano urla diverse, perché a forza di strusciarmi sul suo palo l’orgasmo era arrivato e mi stava travolgendo.

Ricordo di avere approfittato dell’attimo in cui la sua mano perse la presa sulla mia bocca per strillare “fammi venire! vengo, cazzo!”, ma poi la mia memoria si fa abbastanza vaga, fatico a andare oltre il mio essermi irrigidita tremando.

Dopo quel momento il primo ricordo che ho è quello di me distesa su di lui che rantolo con ancora il suo dito infilato nel sedere.

Quello che mi fece rotolare di lato sul sedile al suo fianco credo che sia stato un movimento istintivo, un riflesso, perché non penso proprio di avere scelto di mia spontanea volontà di smontare da quella posizione.

Stetti per qualche secondo a riprendermi in quella postura ridicola, con le cosce spalancate, le ginocchia al petto e il vestitino tirato su, la fica all’aria, i pugni serrati e le braccia ripiegate e strette sulle costole. Per un momento pensai che il mio respiro non sarebbe più tornato normale. Cazzo, che botta, che orgasmo, che pezzo di paradiso… Mi girava tutto.

In un secondo, all’improvviso, tutto cambiò.

L’uomo mi piazzò una mano tra le gambe e disse qualcosa tipo:

– Mò te la sfondo sta fregnetta, l’hai mai preso un cazzo così?

Magari non erano proprio queste le parole, ma ricordo bene che magnificò le dimensioni del suo membro e la parola “fregnetta”.

L’allarme scattò subito. Quelle dita che cercavano di intrufolarsi nella mia fica, grosse com’erano, mi avrebbero certamente deflorata. In più, immagino che lui fosse convinto di trovarsi di fronte una che ne aveva fatte di cotte e di crude, nonostante la giovane età: non credo proprio che sarebbe stato delicato.

Non voglio perdere la mia illibatezza con un dito, pensai. Solo in un secondo momento pensai che non volevo perdere la mia illibatezza con LUI. Dove cazzo era andato a finire il momento speciale, il ragazzo speciale? Un quarantenne che mi avrebbe scopata nel parcheggio di un autogrill? Per tacere del fatto che comunque non ci sarebbe mai entrato. Eddai, siamo seri, come fa a entrarmi dentro quel coso lì?

Raccolsi tutte le mie forze e spinsi indietro quella mano.

– Sono vergine… sono vergine – dissi con una voce che dovrebbero far sentire nelle scuole di recitazione quando dicono: “Adesso ascoltate come si dimostra angoscia”. Solo che io non recitavo.

– Ma che cazzo dici? – fece lui.

Lo guardai, aveva il viso contorto dalla foia, il suo cazzone puntava verso di me e adesso non mi sembrava più il gioco più bello del Luna Park, mi minacciava.

– Sono vergine, ti prego – piagnucolai ancora una volta come una ragazzina.

– Ma non rompere il cazzo, hai paura? Non ce l’hai un preservativo?

– No… cioè… no… non hai capito, il punto non è quello… io sono vergine per davvero…

Allungò il braccio afferrandomi la coscia destra, come se volesse tirarmi a sé, rigirarmi sul sedile o chissà cos’altro. Era una stretta forte, mi faceva quasi male, mi imprigionava. Improvvisamente mi sentii come si deve sentire un animale preso in trappola. Una scarica fortissima mi attraversò tutto il corpo, ma a pensarci ora non sono sicura che fosse solo terrore.

Mi divincolai non so come, aprii lo sportello e fui fuori in un istante, con un colpo di genio sicuramente ispirato dal mio angelo custode mi rispinsi dentro per afferrare la mia borsa accasciata sotto il sedile e mi misi a correre verso la macchina di Martina frugando con una mano per cercare le chiavi. Fortuna che per guidare ho messo le Stan Smith, convenni con me stessa, con i sandali correre sarebbe stato un casino. Probabilmente lasciai di stucco una coppia che proprio in quel momento scendeva dalla sua auto perché pensai tra me e me “cazzo, ma ti ho fatto un pompino, potevi pure accontentarti, no?” ma quando mi accorsi di averlo pensato a voce alta era troppo tardi.

Misi in moto e feci una retromarcia alla cieca che mi sarebbe potuta costare svariati anni di galera e imboccai l’autostrada. Avevo paura che mi inseguisse, macché dico paura, terrore! Quello era un autista di professione e io non avevo nemmeno avevo la patente! Viaggiai per lunghissimi minuti dentro il tunnel buio della notte, illuminato dai miei abbaglianti e da quelli delle auto che mi venivano incontro, presumibilmente smadonnanti. Non avevo il coraggio di guardare lo specchietto retrovisore, il percorso mi parve lungo come non lo era mai stato. Finalmente intravidi le prime luci rosse delle macchine che mi stavano davanti, poi ne vidi un po’ di più e infine una marea, una bellissima marea di lucette rosse, un meraviglioso ingorgo al casello, lo amai quell’ingorgo. Benedissi Martina, mio padre e il Telepass che le aveva regalato per aggirare tutti e passare, ritrovandomi sulla autostrada che torna da Fiumicino trafficata in modo rassicurante, salutai con gioia le luci della città e della Cristoforo Colombo. Solo a un semaforo mi resi conto di essere senza mutande e con il reggiseno che praticamente mi cingeva la pancia. Guidai fino a casa maledicendo ogni rosso agli incroci. Iniziai finalmente a riflettere su ciò che avevo fatto e su quanto fossi stata idiota. Parcheggiai assicurandomi che non ci fosse nessuno in giro e aprii e richiusi il portone di casa mia in un lampo. Feci le scale di corsa e mi barricai nel mio appartamento.

Avevo il fiato grosso, ero distrutta, sudata, sporca, spalancai tutte le finestre per far correre l’aria e combattere il caldo opprimente, nel buio della casa entrai in bagno e mi tolsi tutto, buttandomi sotto la doccia.

“Troia, troia, troia!”, mi maledissi rabbrividendo sotto il primo getto freddo, mi abbracciai da sola per riscaldarmi. “Troia, troia tu e la tua voglia di cazzo”, ripetei. Ma mentre l’acqua diventava più calda iniziai a concentrarmi proprio sulla mia voglia di cazzo, su quel cazzo, su quell’odore che adesso cercavo di ricordare, come se si potesse ricordare un odore, e sul suo modo di farmi fare quello che voleva stringendomi i capelli. Sul suo modo di chiamarmi puttanella e di minacciarmi di sfondare la mia fregnetta.

Sulla sua mano. Quella che mi aveva abbrancato la coscia per tirarmi a sé o rigirarmi sul sedile in modo da rendermi passiva alle sue voglie. Mi ero sentita terribilmente prigioniera in quel momento, irresistibilmente prigioniera. Quella trappola dalla quale mi ero divincolata in preda allo spavento più profondo era come se avesse lasciato dentro di me un marchio di piacere.

Sentii i capezzoli tirare e non riuscii più a capire se quel bagnato che mi ritrovavo in mezzo alle gambe fosse l’acqua della doccia o la mia. Passai due dita sulle mie grandi labbra che fino a forse nemmeno un’ora prima si erano strusciate su quel cazzo duro e mastodontico, il passaggio sul grilletto turgido mi fece letteralmente sobbalzare. Sentii che le gambe mi cedevano.

“Troia, troia, troia”, mi dissi ancora inginocchiandomi sul piatto doccia e continuando a masturbarmi.

Immaginai di rimettermi ancora bagnata il vestitino a righe bianche e blu e di scendere giù in strada a piedi nudi, di risalire in macchina. Immaginai di guidare così fino a casa di quell’uomo (di cui conoscevo a malapena il nome di battesimo, figuriamoci l’indirizzo), di entrare a casa sua (di cui ovviamente non avevo le chiavi), di andare nella sua camera da letto (nella quale naturalmente supponevo non ci fosse una moglie). Di dirgli scopami, fottimi, sverginami, facciamola finita. Inondai un dito di bagnoschiuma e me lo infilai nel culo che ancora bruciava dopo avere ospitato il dito di quell’uomo. Mi feci male da sola per quanto era ancora infiammato ma sentivo di non potere fare a meno di quel dolore e di quel gonfiore dentro di me. Con la testa appoggiata all’angolo e le ginocchia dolenti sulle piastrelline mi sgrillettavo, mi sodomizzavo e urlavo i miei orgasmi, senza contarli.

Quando non ne ebbi più mi alzai e barcollando mi diressi verso la mia camera. Al buio, senza nemmeno asciugarmi. Crollai bocconi sul letto.

La mattina seguente, dalle prime luci dell’alba fino alle nove e mezza, quando mi svegliai, chiunque si fosse affacciato da una qualsiasi delle finestre degli ultimi piani del palazzo di fronte avrebbe potuto vedere una ragazza nuda con i capelli biondi sparsi sul lenzuolo, il sedere in bella vista e un cuscino infilato in mezzo alle gambe.


CONTINUA

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