Cadorna, stazione di Cadorna (capitolo 9)

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9 - L’appuntamento



Per qualche minuto Silvia fece fatica a respirare. Lo aveva fatto. Aveva chiamato lo sconosciuto della metro, come cento volte aveva pensato di fare e come cento volte si era bloccata dandosi della matta. Però l’ultima notte con Piero aveva lasciato il segno e soprattutto quella voglia crescente che sentiva montare dentro di lei alla fine aveva tracimato i suoi argini.

E così quel mattino, spediti i figli a scuola e salutato Piero con un nervosismo che le era sconosciuto, mentre si preparava per il lavoro aveva preso la decisione. Aveva infilato un completino bianco molto sensuale, e visto che il caldo aveva deciso di non rompere l’assedio alla città, aveva scelto dall’armadio un vestitino, anch’esso bianco, di lino. Sulla pelle già un po’ accaldata anche pochi minuti dopo la doccia dava un senso di rassicurante leggerezza e frescura, mentre la trasparenza del tessuto permetteva a chiunque di vedere, ma non troppo, che cosa si celasse sotto l’abito. Allacciò tutti i bottoni, meno gli ultimi due dal basso e altrettanti all’altezza dei seni. Così, a ogni passo una bella porzione della sua coscia sarebbe stata visibile a chi ne avesse incrociato il cammino, mentre anche la forma del seno avrebbe catturato più di uno sguardo.

Ai piedi, quasi a voler creare un legame con quello che era avvenuto quella notte e quello che si apprestava a fare, rimise le scarpe di quella sera, il tacco 12 che le dava uno slancio e contribuiva a mettere in risalto le forme del suo sedere. Quando allacciò il cinturino alla caviglia provò un brivido di piacere, come se quel semplice gesto di unire i due lembi di cuoio significasse attraversare e chiudere una porta che si era improvvisamente aperta nella sua vita.

In macchina si trovò a respirare pesantemente, mentre avanzava a rilento nel traffico.

“Lo hai voluto tu” rivolse un messaggio mentale di sfida a Piero, come per incolparlo di quello che si apprestava a fare, ma in realtà Silvia sapeva che l’unica colpevole di questa situazione era lei.

Prese il blackberry, collegò l’auricolare, schiacciò la lettera A e subito un elenco di nomi le apparve sotto gli occhi. Con la rotella ne scrollò un po’, finché si fermò su quel APRENDO che si era inventata al momento di memorizzare il numero. Un’anagramma nato dal tono fermo e che non ammetteva repliche con il quale quell’uomo le aveva parlato nella metro e che, rifletté ora con un sorriso, non avrebbe potuto essere più azzeccato. Stava aprendo la porta su un mondo nuovo, un mondo del quale, in questo momento, non sapeva assolutamente cosa aspettarsi.

Un ragazzo in moto si affiancò al semaforo e senza nessun imbarazzo prese a guardarle le gambe, ampiamente scoperte dallo spacco. Lei lo guardò e per un momento fu tentata di sistemare il lembo del tessuto e mandarlo a quel paese. Invece, stupendosi un po’, allargò ancora un po’ le gambe, gli rivolse uno sguardo di sfida e mentre il semaforo passava dal rosso al verde accelerò. Pochi minuti dopo riuscì a trovare un parcheggio non troppo lontano dalla stazione della metro, spense la macchina, fece un respiro profondo e schiacciò il pulsante di chiamata.

Quando il telefono cominciò a squillare, si ritrovò a sperare che all’altro capo non rispondesse nessuno. Stava per riattaccare, quando sentì una voce.

“Pronto?”

Terrorizzata, Silvia rimase in silenzio.

“Pronto?” fece ancora la voce, con un tono leggermente spazientito.

“Sì, sì, ci sono, scusi…” si affrettò questa volta a rispondere Silvia, il tono imbarazzato.

Lasciò trascorrere un altro attimo, poi…”Io… sono pronta”.

“Scusi??” il tono era piuttosto perplesso.

“Io sono pronta” ripeté Silvia, cercando di sembrare molto più sicura di quanto non fosse effettivamente. “L’altra sera nella metro lei ha scritto il suo numero sul mio telefonino e mi ha detto di chiamare quando sarei stata pronta. Ecco, io, io credo di esserlo” buttò fuori tutto d’un fiato, maledicendosi mille volte per avere telefonato, ma al tempo stesso felice di essersi liberata di un macigno che negli ultimi giorni la stava soffocando.

La voce, che adesso aveva capito chi lei fosse, risuonò nelle sue orecchie. “Via Xxx 25, componi il numero 1713. Prendi l’ascensore fino al 4° piano, seconda porta sulla sinistra. Ti aspetto alle 17. Non un minuto prima, non un minuto dopo”.

Quando Silvia rispose con un flebile “Ma…ma…” si accorse di parlare solo con se stessa. L’uomo aveva già riagganciato.

La giornata al lavoro fu infinita. Silvia cercò di concentrarsi su un progetto che stava portando avanti da diversi mesi, ma ogni due per tre la testa correva a quella telefonata, a quell’indirizzo, a quello che sarebbe successo alle 17. Si ripeté un milione di volte che non ci sarebbe andata, ma ogni volta la sua convinzione diventava sempre più debole. Si maledì per avere scelto quel vestito troppo leggero che non lasciava troppo spazio alla fantasia e soprattutto per avere scelto di indossare ancora le scarpe di quella sera. “È come se si presentassi a una festa nelle vesti di agnello sacrificale: prego, eccomi qua, macellatemi" si disse. Sapendo che comunque era esattamente quello che sarebbe successo.

Uscì dal lavoro alle 16.15. Uno dei vantaggi della sua posizione era quello di non essere assoggettata a orari rigidi. Su Internet aveva guardato dove fosse l’indirizzo e decise che avrebbe preso la metro. “Sono anche troppo nervosa per guidare, rischierei un incidente” si disse. Nei sotterranei di Milano si sentì gli occhi puntati addosso, del resto il vestito aggiungeva bellezza a un corpo già bello e l’intimo bianco risaltava agli occhi.

“Se solo sapessero dove sto andando e cosa sto per fare” si ripeté più volte mentre per evitare il contatto diretto con gli atri passeggeri puntava lo sguardo a terra. Scese in Centrale e si diresse verso la linea gialla, scatenando sguardi ammiccanti al suo passaggio. L’ora di punta si stava avvicinando e la calca era aumentata. Oltre agli odori di una lunga giornata passata in ufficio, a spostarsi per la città a essere sempre indaffarati per un qualsiasi motivo. Nelle cinque fermate che seguirono il suo corpo entrò a contatto con quelli di sconosciuti che condividevano i pochi centimetri quadrati di spazio all’interno del vagone, contribuendo ad aumentare la sua eccitazione. Una mano eccessivamente audace che le massaggiò per due fermate il culo, prima che lei riuscisse a crearsi uno spazio più sicuro, le fece aumentare a dismisura la voglia.

E finalmente, dopo avere camminato un paio di minuti, davanti a lei il portone che gli aveva indicato la voce. Erano le 16.55 e quegli ultimi 5 minuti sembrarono non passare mai, con Silvia combattuta tra il fuggire da quella strada e il desiderio lancinante di entrare tra quelle mura. Nel momento in cui il suo blackberry scattò sulle 17, Silvia compose il numero 1713. Un attimo dopo sentì il “clack” che sbloccava la serratura.

L’atrio fresco le fece venire i brividi sulla pelle, sentì i capezzoli indurirsi. La portineria era deserta, lei si diresse verso l’ascensore, uno di quei vecchi modelli a grata che permettevano di vedere chi saliva o scendeva. Quando la cabina arrivò con una lentezza irritante, Silvia schiacciò il tasto 4, quindi iniziò la sua ascesa verso… “Verso l’inferno o il paradiso?” si chiese in silenzio Silvia.

Quando la cabina terminò la salita, Silvia, le mani sudate e tremanti, pasticciò con il meccanismo di apertura ma finalmente sbucò sul corridoio.

Si avvicinò alla seconda porta a sinistra, la trovò socchiusa. “È la tua ultima occasione di cambiare strada” urlò una voce dentro di lei. Aprì la porta, entrò nel silenzio, il suono che fece quando si richiuse le fece balzare il cuore in gola. Davanti a lei un ingresso sembrava portare verso quello che doveva essere il soggiorno. I tacchi risuonarono sulle piastrelle lucenti mentre si avvicinava alla porta. Di fronte a lei, quasi all’opposto del grande salone, lui era seduto in poltrona.

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scritto il
2019-07-04
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