Morbosa Corrispondenza – Capitolo 20

di
genere
incesti

Lia
Dieci anni prima.
Già da adolescente, Lia era già diversa dalle altre. I capelli biondi, lunghi e mossi, le incorniciavano il viso con un’innocenza che contrastava col corpo precoce, esploso troppo in fretta. Il seno florido le faceva abbassare lo sguardo ogni volta che si sentiva osservata.
Quel pomeriggio la casa era vuota. La madre era uscita ma sarebbe stata via poco, come sempre. Lia entrò in camera e subito si inginocchiò accanto al lettino. Sollevò il materasso e infilò la mano sotto la fodera, dove da settimane teneva nascosto il suo tesoro proibito: un vecchio fumetto erotico, trovato per caso in un cassetto del padre. Zora la vampira. Ogni volta che leggeva una frase più spinta, le cosce si stringevano da sole, quasi per riflesso.
Le pagine erano stropicciate, i disegni volgari, le parole stampate in caratteri grassi e osceni: “troia”, “puttanella”, “zoccola”. Gli uomini del fumetto, tutti dotati di peni sproporzionati, infliggevano violenza a povere ragazze innocenti.
Perché suo padre nascondeva certe riviste in casa? Quegli uomini le facevano paura e allo stesso tempo un effetto strano, umido.
Sentiva un leggero formicolio sotto l’ombelico e cercava di cambiare posizione per distrarsi; si sdraiò sul letto a pancia in su, con il fumetto aperto di fianco.
Le dita scivolarono subito tra le cosce pallide, mentre l’altra mano, più lenta, si chiudeva attorno a uno dei suoi seni già grandi, tondi, tesi. Lo stringeva piano, cercando con vergogna quella stessa volgarità che vedeva nelle vignette.
“Troia…” Sussurrò appena.
“Puttanella…” Le sfuggì tra i denti.
“Fottimi… Chiavami…”
Sussurrava appena quelle parole, col viso arrossato e il fiato corto, timorosa ed eccitata da quelle immagini proibite.
La sua preferita era quella di Zora, bionda procace che veniva violentata brutalmente da un vecchio vampiro arrapato che la sbatteva sulla porta di casa, i muri che vibravano sotto quegli affondi.
Si vergognava di quella fantasia, eppure aveva imparato da sola dove premere, cosa sfiorare. Accarezzava piano quel dolce bocciolo rosa dischiuso tra le sue gambe, il viso arrossato e gli occhi socchiusi.
Quando arrivava vicino, le cosce le si chiudevano di scatto, intrappolando la mano. Respirava forte, le labbra umide per quanto si era già passata la lingua sopra più volte. L’idea di succhiarsi le dita le accese un brivido in pancia. Le avvicinò alla bocca, ricordando l’ultima volta: il sapore era aspro, caldo, ferroso e le era piaciuto più di quanto volesse ammettere.
E intanto, mentre bisbigliava quelle oscenità a fior di labbra, pensava che un giorno avrebbe potuto dirle davvero a qualcuno. Senza vergogna. Guardandolo negli occhi. E lui le avrebbe risposto per le rime.
E allora non avrebbe avuto più paura.

Mena
“E non ci abbandonare alla tentazione ma liberaci dal male.”
Le ultime parole della messa si spensero nella penombra. La voce calda di Don Marco rimbalzò sulle volte in pietra della piccola chiesa di campagna, poi tutto tornò al silenzio. I pochi fedeli si erano già dileguati, lasciando solo l’umidità sacra delle navate e… Mena.
Sedeva ancora a metà della navata, lo sguardo basso, le dita intrecciate in grembo. I lunghi capelli castani le accarezzavano le spalle nude sotto il tessuto sottile del vestito aderente. Le labbra carnose, lucide, si erano increspate in un’espressione seria.
Don Marco la notò, e scese con calma i gradini dell’altare. Le rivolse un sorriso dolce, misurato. “Mena… tutto bene?”
Lei sollevò il viso. I suoi occhi verdi, grandi e umidi, brillavano sotto la luce fioca delle candele. Le guance lievemente arrossate. “Don Marco… mi confessi?”
Lui si avvicinò con passo fermo, gentile. Si fermò a qualche metro da lei, studiandola con attenzione. “Ogni settimana, alla stessa ora. Se continui così, finirai per farmi credere che pecchi per il gusto di essere assolta…” Cercò di scherzare, con tono leggero.
Mena gli rivolse un sorriso accennato, ma lo sguardo restò serio. Teso.
Don Marco divenne più accorto. “Va bene. Se è importante… andiamo.”
Entrarono nel confessionale. Mena si inginocchiò in fretta, la gonna si sollevò appena, lasciando intravedere la curva liscia delle ginocchia. Don Marco si sistemò dall’altro lato della grata. Per un attimo, solo il respiro dei due. Poi, un fruscio. Mena lasciò scivolare un biglietto sotto la grata.
“È meglio se leggi”, mormorò lei. “Non riesco a… dirlo.”
Lui prese il foglietto. La calligrafia era ordinata, femminile, ma tremava appena. Lesse in silenzio.
“Caro Don Marco, ho fatto come mi hai consigliato. Ho cercato di sfogarmi nel modo più innocente. Mi dicevi: meglio un male minore, no? Allora… ho scelto la masturbazione. Pensavo mi avrebbe calmata. Invece no. Ogni volta mi sento più accesa, più viva e più calda. È come se ogni volta aggiungesse legna al fuoco invece di spegnerlo.
E le fantasie… sono sempre più vive. Più vergognose. Mi perseguitano.
Chiudo gli occhi e vedo un ragazzo. Giovane, bellissimo, il corpo scolpito, i muscoli che guizzano sotto la maglia tesa, e negli occhi un’eccitazione che mi fa tremare. Prima, nella mia mente, siamo sul divano. È sera, c’è solo una luce fioca e il rumore ovattato della pioggia fuori. Indosso una vestaglia di seta sottile, che si apre lentamente sulle gambe nude ogni volta che mi muovo. Mi rannicchio contro di lui, il petto che sfiora il suo braccio, il profumo della sua pelle che mi accende. Le sue mani cominciano a cercarmi: una sulla schiena nuda, l’altra che scivola lenta lungo la mia coscia, sotto il bordo della vestaglia. Mi sento vibrare ovunque.
Lo immagino guardarmi con quegli occhi dolci e sussurrarmi che si è lasciato con la fidanzata. Che ha bisogno di tante coccole. Lo dice con un sorriso tenero, ma le sue mani non sono affatto caste e pure. Si spingono più in alto, sfiorano la mia pelle calda sotto la vestaglia, si insinuano fino alla curva morbida del mio seno. Io mi stringo a lui, come per consolarlo, ma sento che lo sto eccitando. Gli porgo la bocca, il collo, tutta me stessa, come se quella carezza tra noi fosse la cosa più naturale al mondo.
Lui mi bacia piano, la lingua che sfiora la mia con gratitudine, fame, dolcezza. Io mi lascio andare, mi accarezzo da sola, con le cosce bagnate e il respiro spezzato. Gli sussurro che sono contenta che sia tornato libero, che lo voglio, che lo amo. E lui sorride, mentre il mio corpo freme contro il suo.
Poi mi inginocchio davanti a lui, con le mani sulle sue cosce forti e la mia bocca che si apre, pronta a ricevere tutto il suo membro svettante. Lo prendo fino in gola e sento il suo piacere esplodermi sulla lingua, caldo, salato, intenso. E mentre mi accarezzo, lo immagino che geme piano, le dita nei miei capelli mentre mi guida con forza ed eccitazione. E vengo così. Forte. Profondamente scossa.
Ma poi… piango.
Mi sento impura. Ma non riesco a fermarmi. Quella immagine mi abita, mi consuma. E nella vita vera... comincio ad avere voglia di tradire davvero mio marito. Non l’ho fatto. Ma ci sono andata vicina.
Non ce la faccio più. Mi sto consumando. Aiutami, ti prego.”
Il prete deglutì, appoggiando il foglietto. Si asciugò la fronte, nonostante il fresco del luogo sacro.
“Mena, ti sono vicino, credimi.”
Lui esitò un attimo.
Poi, con tono roco, più basso, proseguì: “Ci sei andata vicina, dici? È successo di nuovo, Mena? Qualcuno ti ha tentata?”
Lei esitò. Passò un dito sulla grata, come cercando un contatto. “Più o meno. Sono stata io a tentare. Ho indotto in tentazione un ragazzo. La sua voglia era lì, a portata di mano. Mi sono fermata appena in tempo. Non so cosa mi sia preso. Quel ragazzo… era così carino. Mi ha ricordato una persona. Quand’era più giovane.”
"Mena, devi resistere..."
“Mi sento in un vortice, don Marco. Di voglia. Di fantasie. E a volte… mi spavento. Mi sento perdere il controllo. Come se stessi impazzendo.”
Don Marco abbassò lo sguardo. La voce gli uscì ruvida, quasi un lamento: “Hai fatto bene a scriverle, Mena. A volte… metterle nero su bianco aiuta. Confessare, anche solo a parole, può sciogliere quello che ci brucia dentro. L’eccitazione non è sbagliata. È solo energia che cerca dove andare. Sono fantasie che abbiamo tutti…”
Lei lo guardò sorpresa, con un mezzo sorriso velato di malinconia. “Davvero tutti? Anche quelli con la tonaca?”
Lui non rispose subito. Deglutì piano. “Sì. Ma quasi nessuno ha il coraggio di dirle. Neanche in confessione. E invece tu sì. È questo che ti salva.”
“E… tu?” chiese con tono ironico, lieve ma pieno di allusioni.
Don Marco accennò un sorriso che gli morì subito sulle labbra. “Non mi va di parlarne. Non adesso. Non qui.”
Un altro silenzio. Stavolta più denso. Mena lo colmò con un filo di voce.
“Scusa, hai ragione. Tu mi sei stato vicino quando non avevo nessuno. Quando stavo per crollare e tutti mi guardavano con commiserazione. Solo tu non mi hai giudicata. E adesso… sei l’unico che riesce a vedermi senza pensare subito a quello. Senza farmi sentire sbagliata. Anche quando, nella mia testa, faccio cose che mi vergognano… tu non mi fai sentire una puttana. Mi fai sentire… umana.”
Don Marco inspirò lentamente.
“Lo sei, Mena. E anche per questo la Chiesa ci invita a tenere a bada le fantasie. Perché a volte bastano quelle a portarci più lontano di quanto volessimo. Ma nel tuo caso… devi continuare a scegliere il male minore. Finché tuo marito non starà meglio, tu devi resistere. E pregare.”
Mena chinò il capo. Poi, con tono quasi sognante:
“Un giorno, forse… potrei raccontare tutto. Ogni dettaglio. A qualcuno che sappia ascoltare. Che voglia… accoglierle, le mie fantasie. E aiutarmi a viverle, o almeno… a sfogarle. Anche solo con le parole.”
Don Marco restò silenzioso.
Mena si mosse appena. Le cosce si schiusero un istante, quasi per riflesso. Poi si richiusero lentamente, un fiore timido al tramonto.
“E… potresti essere tu, quella persona?”
Don Marco chiuse gli occhi. Inspirò piano.
La voce gli uscì roca. “La mia fede non me lo consente.”
Una pausa. Poi la voce di lei, calda, triste, ma carica di una dolce ironia che graffiava l’anima:
“E sennò… che fede è?”
Don Marco spinse il bigliettino per restituirglielo. “Tieni.”
Ma lei scosse piano la testa. Gli occhi lucidi, un sorriso lieve sulle labbra. “No, padre. Tienilo tu. Così ti ricorderai che mi hai aiutata. Anche quando non potevi fare nulla di più che ascoltarmi.”
Per un attimo rimasero immobili. Poi la porta del confessionale si aprì con un lieve scricchiolio. Lei si alzò, silenziosa. Il vestito le si stringeva intorno alle gambe scolpite, tese.
Fece per salutarlo, ma lui la fermò con un cenno. Lo sguardo abbassato, la voce roca:
“Vai, Mena. Io resto ancora un po’ qui.”
Lei non disse nulla. Passò accanto alla navata con passo lento, misurato, senza mai voltarsi. E mentre svaniva nel controluce, lungo l’interno coscia due rivoli caldi e lucidi tracciavano solchi di tranquillità ritrovata.

Lia
Nell'autolesionismo, Lia non aveva rivali; stesa sul letto da più di un’ora, non riusciva a staccarsi dallo schermo mentre guardava i profili social di Anna.
Ultimo post: una clip della serata di ieri.
Anna sul palco, luci basse, vestito corto, spalle nude.
Cantava “The Scientist”, dei Coldplay. Voce cristallina, intensa, travolgente.
La solita posa sensuale.
Vedeva Anna muoversi sul palco, provocante come una modella. Seno spinto in avanti, trasparenze ovunque, labbra lucide e sciolte sul microfono. La odiava. O la desiderava ancora? Forse tutte e due.
Il pubblico sembrava in estasi. Urla, applausi, centinaia di commenti entusiastici.
Lia li scorse in fretta. “Incredibile”, “autentica”, “regina”…
“Autentica mica tanto. Hai sempre fatto quello che ti conveniva,” pensò Lia.
Le venne in mente l’ultima volta che l’aveva vista.
“Noi non ci perderemo mai, vero? Come no,” mormorò, chiudendo il video.
Poi lo riaprì.
Lo guardò di nuovo, in silenzio.
Ogni gesto studiato: i fianchi che ondeggiavano appena, lo sguardo abbassato al momento giusto.
Fingeva di essere fragile. Ma recitava. Recitava sempre.
E sapeva benissimo cosa voleva.
Anche quella sera, quando avevano fatto l'amore per la prima volta e le aveva tolto la verginità con quel dildo grande e grosso.
Restò lì, a fissare lo schermo. Vide Toni in fondo alla sala.
Il video lo inquadrò appena, per un attimo, lo sguardo perso, incollato al palco.
Lia si chiese oziosamente se suo cugino avesse mai capito con chi aveva a che fare: lei non lo amava.
Non amava nessuno.
Ogni cosa era un capriccio, un gioco di potere.
Le persone le servivano per sentirsi scelta, adorata.
Poi le buttava via.
Come un grosso fallo di gomma, consumato dall’uso.
“Lia?”
La voce di suo padre la fece sussultare.
Sergio si affacciò alla porta.
“Che succede? Hai una faccia…”
Lei scrollò le spalle e spense lo schermo.
“Niente. Guardo video online.”
Lui la guardò per un attimo, poi annuì piano.
“Perché non esci? Chiama un’amica. Prendi aria.”
“Ci penso.”
Si lasciò ricadere sul letto, pancia in giù, affondando il viso nel cuscino.
Poi sentì di nuovo la voce di suo padre, più vicina, quasi esitante.
“Senti.. Lia..”
Lia sollevò appena il viso, senza voltarsi.
“Dimmi, papà.”
“Non è che potresti farmi un massaggio?”
Lei si voltò lentamente e sorrise.
“Ma è mattina. Te l’ho sempre fatto dopo cena, quando ti si bloccano i polpacci. Ti fanno male anche adesso?”
“No, anzi… sto bene. È solo che… quando ci pensi tu… mi cambia la giornata. È come se mi togliessi un peso di dosso. Hai le mani giuste, davvero. Mani sante. Se avessi un momento, potresti darmi una mano con la schiena. Oggi tira un po’.”
Era indecisa se essere divertita o lusingata, le piaceva che qualcuno le riconoscesse una qualità.
“Va bene. Stenditi. Prendo tutto.”
Aprì i flaconi: Flector Hot con il suo odore pungente e il Polar Frost, freddo, trasparente, mentolato.
Quando tornò in salotto, Sergio era seduto sul bordo del divano, in boxer chiari, le braccia piegate sotto il capo.
Lia si inginocchiò accanto a lui, sul tappeto. Aprì il Flector. Il gel era denso, viscoso, tiepido. Ne versò una quantità abbondante sulle mani e le strofinò piano tra loro, fino a sentirle calde e un po’ appiccicose.
Appoggiò i palmi al centro della sua schiena. La pelle del padre era calda, viva, maschile.
Iniziò il massaggio con movimenti lenti, profondi, orizzontali lungo i lati della spina dorsale, dai trapezi fino ai lombi. Premette con i pollici tra i muscoli contratti, sentendoli cedere sotto la pressione.
Sergio esalò un primo sospiro.
“Mmm… Dio. Hai appena iniziato e già mi sento in pace. Stanotte non ho avuto un attimo di riposo.”
“Hai dormito male?”
“Un incubo. Ho sognato tua madre.”
Lia non rispose. Affondò i pollici nel punto tra le scapole. Lui trattenne un gemito.
“E che diceva?”
“Che avevo rovinato tutto.”
Silenzio. Solo il suono della pelle che si sfregava sotto il gel e il respiro di lui che si allungava. Lia si spostò sui lati, usando i palmi per impastare i dorsali. Ogni tanto, le dita le scivolavano fin sotto le costole.
“Posso chiederti una cosa?” Sussurrò lei, mentre le mani lavoravano con calma.
“Ok...”
“Perché avete litigato, tu e mamma? La vera ragione, intendo.”
Sergio si irrigidì appena, poi parlò piano.
“Te l’ho detto. Per te. Non voleva che tu andassi a studiare fuori. Era fissata con l’idea che la città ti avrebbe rovinata.”
“Sì, ricordo che me lo hai detto. Ma non sembra abbastanza per far scoppiare tutto. Non così. Lei… era fuori di testa, dopo il vostro litigio. Che cos’è successo, davvero?”
Lia non trovava il coraggio di confessargli che Teodora avesse picchiato Luca selvaggiamente.
Silenzio.
“Sono questioni personali.” Tagliò corto lui.
Lia si fermò un attimo, le mani immobili sulla schiena calda. Poi riprese, con movimenti più lenti. Versò una goccia di Polar Frost all’altezza dell’osso sacro. Il gel scivolò fresco sulla pelle, aprendosi in una chiazza azzurra.
Sergio rabbrividì.
“Freddissimo. Ma buono. Continua lì. Sì… proprio lì.”
Premette con i polpastrelli sulle fasce lombari, risalendo fino all’attaccatura dei reni.
“Stai massaggiando benissimo. Ti giuro, potresti farlo per mestiere. Mai sentito mani così. Precise, dosate. Mi fai andare via il male.”
Lei abbassò lo sguardo. Le mani si muovevano da sole ormai, lente, misurate. Le dita sfioravano l’elastico dei boxer. Il respiro di lui si faceva profondo, regolare, quasi ipnotico.
“Ho notato che ultimamente non stai bevendo nemmeno un goccio di alcol, papà.”
Sergio mugugnò qualcosa tra il cuscino e il braccio.
“È vero. Ma non è facile. A volte sento che sto cedendo. Tipo ieri. Ho preso il bicchiere. Poi l’ho messo via.”
“Hai fatto bene. Devi resistere.”
“Resistere… facile a dirsi. Ma oggi… questo… mi fa sentire meglio. Molto meglio.”
“Dovremmo uscire,” disse all’improvviso lui, la voce decisa. “Tu e io. Prendere aria, fare due passi. Una vacanza padre e figlia. Magari un concerto.”
“Non ho voglia, papà.”
“Appunto. Per questo dobbiamo farlo.”
“Non so…”
Lei si bloccò. Le mani ancora sporche di gel, il respiro sospeso.
“Dobbiamo uscire entrambi da questo buco, Lia. E io… voglio vederti sorridere.”
Abbassò lo sguardo sulle proprie mani — lucide, ancora calde del corpo di lui.
“Ok. Ma promettimi che non berrai.”
“Affare fatto.”
Sergio si sollevò piano. Le spalle ancora umide, la schiena attraversata da sottili linee rosse dove aveva premuto più a fondo. Si voltò, le prese una mano pallida e la baciò lentamente sul dorso.
“Hai le mani magiche.”

Mena
Don Marco aveva ragione. Parlare aiutava.
Sentirsi ascoltata senza essere giudicata le aveva tolto un peso dal petto, anche se ne aveva lasciato un altro, più sottile, più caldo.
Respirò a fondo, cercando di riportarsi alla realtà. Ora doveva tornare a casa, riprendere il filo della giornata.
La aspettava suo nipote.
Aveva promesso alla sorella di passare un po’ di tempo con lui, di fargli compagnia mentre studiava.
Il ragazzo attraversava un periodo difficile, chiuso, irrequieto e lei, con tutta la pazienza di una zia premurosa, sapeva che la cosa più importante era ascoltarlo. Lasciarlo sfogare, come aveva fatto lei poco prima.
Solo così poteva aiutarlo davvero.

Lia
Il capannone vibrava come una cassa di risonanza: ogni colpo di batteria faceva tremare il cemento grezzo delle pareti. Era un ex deposito ferroviario, ancora segnato dal passato: travi d’acciaio annerite, porte scorrevoli arrugginite che ora servivano solo da scenografia, strati di vecchi cartelloni incollati come squame di carta.
L’odore era un miscuglio inebriante di birra rovesciata, polvere e fumo dolciastro di marijuana che stagnava basso, intrappolato dal calore umano.
Sergio e Lia si erano fatti strada tra la folla, sfiorando corpi lucidi di sudore, finché non si erano ritrovati quasi sotto il palco, schiacciati da un’onda di gente. Le luci esplodevano a intervalli regolari, cogliendo in un lampo i profili dei volti prima di inghiottirli di nuovo nel buio. La pelle di Lia era già umida; il trucco cominciava a sciogliersi sotto gli occhi.
Il padre le passò un braccio attorno alle spalle, tirandola contro di sé. Lia sentì il torace di suo padre contro la sua schiena, il ritmo lento del suo respiro che contrastava con il frastuono della sala. La sua mano scese, lenta, lungo il fianco, stringendo appena.
“Stai attenta a non allontanarti,” le sussurrò.
Poi iniziò il pellegrinaggio: Sergio pareva conoscere chiunque e ognuno lo fermava per un saluto. Prima un uomo dalla barba argentata, poi una coppia, poi un ragazzo più grande che la salutò con una confidenza eccessiva.
“Tu devi essere Lia! Uguale a tuo padre!”
Più di qualcuno le fissava il sedere e i seni, commentando a bassa voce, ridacchiando tra loro come se fosse uno spettacolo.
“È da anni che ce lo promette! Finalmente ti vediamo!”
“Bella, eh?” sghignazzò uno, strizzando l’occhio a Sergio. “Te la tieni d’occhio?”
Le pacche sulle spalle, le strizzate d’occhio, le battute ammiccanti — sembravano tutti reduci da tre giri di superalcolici.
Sergio rideva con loro, grossolanamente, lanciando gomitate e commenti.
“Oh, piccola mia, questi sono solo vecchi amici di bevute.”
Lia alzò un sopracciglio.
“Sì, l'ho notato: ma ora non bevi più perciò direi ex amici, giusto?”
Gli uomini scoppiarono a ridere.
Sentì lo stomaco stringersi.
Lui dispensava sorrisi rapidi, paterni e, ogni volta che qualcuno lo ignorava, la mascella gli si irrigidiva per un secondo appena.
Poi le prime note di “Sympathy for the Devil” esplosero dalle casse, seguite da un’onda di grida eccitate. La voce di Jagger, insinuante e ironica, riempì l’aria. Sergio sorrise appena, Lia lo sentì canticchiarle vicino all’orecchio: “Pleased to meet you…”.
Si lasciò andare. Inspirò il suo odore: pelle calda, dopobarba, un’ombra di tabacco e qualcosa di metallico, forse la fibbia della cintura. Era un odore che, suo malgrado, le dava sicurezza. E, al tempo stesso, le lasciava un retrogusto amaro di dipendenza.
Fu allora che notò un gruppo di donne farsi largo verso di loro. Guardavano suo padre con confidenza disarmante. Una lo chiamò per nome, ridendo forte.
Lui rispose con quel solito sorriso obliquo (che Lia detestava). Gli occhi gli scintillarono di un compiacimento quasi adolescenziale, come se ogni attenzione fosse ossigeno. Si chinò verso di lei:
“Prenditi quello che vuoi da bere. Io vado a salutare delle vecchie amiche.”
E se ne andò, lasciandola nel flusso della folla, diretto verso una bionda sui cinquanta che lo aspettava a pochi metri. Scambiarono frasi che Lia non poteva sentire. Poi lui si inclinò e, con una naturalezza che le fece stringere i denti, la baciò.
Un uomo corpulento la fece sobbalzare mettendole una mano sulla spalla. “Benvenuta nel club dei sopravvissuti!”
“A cosa?” chiese lei, confusa.
“A lui,” rise.
Lia non sapeva cosa rispondere.
Un’altra voce maschile la strappò dalla scena.
“Balli?”
Il ragazzo che aveva parlato era già vicino, abbastanza perché Lia sentisse il calore del suo corpo. Era moro, magro, camicia bianca sbottonata fino allo sterno.
“Non molto,” rispose.
Lui non aspettò. Le prese la mano e la guidò verso il centro della pista, inglobandola nel battito del basso. Il pavimento vibrava, le luci rendevano i corpi sagome febbrili, sudate. Lia iniziò a ballare un po' rigida, ma la mano di lui si posò sul fianco e la spinse con dolce fermezza, suggerendo il tempo.
Il ballo era stretto, quasi soffocante. I bacini sfioravano, ritmici e impercettibilmente più vicini a ogni battito. Le cosce di lui premevano contro le sue, un braccio avvolse la sua schiena, l’altro scivolò lungo i fianchi, risalendo con lentezza sulle forme provocanti della bionda.
Lui sorrise.
Le sfiorò la curva della schiena con la punta delle dita, poi spinse leggermente il bacino contro il suo, disegnando un’onda lenta, precisa. Lia si morse il labbro: quel contatto la incendiava, un brivido intenso che le fece piegare leggermente le ginocchia.
Lia arrossì, respirò più forte. Era eccitata.
Le dita di lui si spinsero più in alto, lambendo il bordo del reggiseno attraverso il tessuto leggero. Per un secondo, Lia chiuse gli occhi. Sentì le mani di lui premere sul seno, morbido contro duro, e un’ondata di calore le risalì la gola.
Ma allora—un odore.
Alcol. Pesante, acre.
E con lui, il ricordo: Sergio seduto nel corridoio di casa, occhi vitrei. Lei che cercava di tirarlo in piedi. Il vomito, il sudore, le notti in macchina per tenerlo sveglio.
L’odore le arrivò addosso incastrandosi nella narice.
Lia aprì gli occhi e si staccò bruscamente.
“Aspetta.”
“Ma che fai?” sbottò il ragazzo, aggrottando le sopracciglia.
“Ho detto di no.”
La voce le uscì ferma, sorprendentemente.
Lui si fermò, barcollando appena.
“Ma sì, dai,” insistette, accigliandosi, le pupille tremanti. “Non fare la difficile.” Allungò di nuovo la mano, stavolta verso il suo polso.
Lia gliela scostò con un gesto secco, senza nemmeno guardarla.
Il ragazzo sbuffò, irritato. “Goditi la vita, principessina. Poi non lamentarti se resti da sola.”
Lia rimase immobile, le labbra serrate.
Attraversò la folla, la musica che le martellava le tempie.
Sergio era ancora lì.
Con la donna bionda.
Le dita intrecciate dietro la nuca di lei, un sorriso compiaciuto.
Una fitta le strinse il petto, un dolore secco e rabbioso. Voltò lo sguardo e si diresse al bancone.
Prese due cocktail analcolici, le mani che tremavano appena. Mentre aspettava, una risata dietro di lei la fece voltare. Due delle donne di prima, piegate una verso l’altra, parlavano abbastanza forte da coprire la musica.
“È lui. Il cacciatore di fagiane…” Risero entrambe.
“…non si arrende oh. Ma ormai è finito. Un vecchio porco.”
“La Vale c’è stata. Dice che le è salita la nausea. Dopo dieci minuti, aveva i crampi. Giuro.”
Un’altra risata, più cattiva.
“E si atteggia pure. Stallone… d’ospizio.”
Lia sentì qualcosa dentro di sé scattare.
Il contatto con i bicchieri fu casuale, o così sembrò: il liquido freddo scivolò sulla schiena di una di loro, gocciolando lungo la stoffa
“Oh scusa! Mi è scivolato,” disse Lia, con un sorriso vuoto.
Non aspettò risposta. Si voltò e si allontanò, lasciandole imprecare.
Fuori, l’aria era tagliente. Un odore di fumo e pioggia stagnante.
Lia si appoggiò al muro, le braccia incrociate, la pelle d’oca sulle braccia nude. Aveva il cuore che batteva ancora a ritmo di musica, ma ora era solo rabbia. E vergogna.
Per lui. Per sé stessa. Per il cognome che portava.
Passi rapidi, voci concitate.
Le due ragazze la raggiunsero.
“Ehi, cretina! Che cazzo credevi di fare? Mi hai bagnata, lo hai fatto apposta!”
Una le si piazzò davanti, l’altra le afferrò il braccio con uno strattone. Le unghie nella carne.
Lia fece un passo indietro, il respiro corto.
La porta della discoteca si spalancò di colpo.
“Ehi! Andate via, brutte zoccole!”
Sergio scese i gradini in due falcate, spinse via la prima ragazza con un braccio e si mise tra Lia e l’altra.
“Basta. Fuori dai coglioni.”
“Il viscidone è tuo padre? Ma che razza di famiglia di merd…”
“Ho detto fuori dai coglioni.”
La voce tagliò l’aria come un colpo secco.
Le ragazze sbuffarono, poi risero, poi si allontanarono verso la strada, i tacchi che battevano sull’asfalto bagnato.
Sergio restò immobile un attimo, poi si voltò verso Lia.
“Ti cercavo.”
“Perché?”
“Non ti vedevo più.”
Lei lo fissò, lo sguardo duro, lucido.
“Eri occupato...”
Lui fece un passo avanti, più lento.
“Lia, non cominciare.”
Lei rise piano.
“Non ti vergogni, papà? Ti guardano tutti. Ridono di te.”
Lui si irrigidì.
“Chi?”
“Non importa. Tutti. Dicono che sei un vecchio schifoso. Ridicolo. Che non funzioni nemmeno più.”
Silenzio.
Solo il suono lontano di una sirena, e il vento che muoveva cartacce sul marciapiede.
Lui abbassò lo sguardo.
Un lampo di vergogna gli attraversò il volto, ma si spense subito, inghiottito da una specie di indifferenza stanca.
“Lasciali parlare. Gente inutile. Sanno solo spettegolare.”
Lia lo fissò. Dentro di lei si mescolavano disprezzo e vergogna.
Avrebbe voluto urlargli che l’aveva rovinata, che ogni sua bravata si rifletteva su di lei come uno schiaffo.
Ma non disse nulla.
“Mi dispiace,” disse lui e, con voce flebile, aggiunse: “ti voglio bene, Lia. Non era mia intenzione metterti in imbarazzo.”
Lei lo fissò, immobile. Poi gli si avvicinò e lo abbracciò.
Camminarono così, in silenzio, fino all’auto.
E lei capì che, nonostante tutto, non voleva staccarsi.
Perché la vergogna, a volte, pesa meno della solitudine.

Mena
“Hai saltato di nuovo quell’esercizio, Ale.” Disse Mena ridacchiando, la voce allegra e carezzevole.
Seduta di traverso, il vestito corto risalito abbastanza da scoprire l'inizio della coscia: pelle liscia, ambrata, tonica sotto il tessuto.
Alessio chinò lo sguardo sul quaderno, ma i suoi occhi cadevano in trappola ogni volta che lei cambiava posizione.
Mena lo osservava con un mezzo sorriso, le labbra dischiuse.
Poi prese una penna dal tavolo e la fece scivolare tra le dita, lenta, sensuale mentre gli lanciava uno sguardo complice.
“Concentrati,” disse, con voce più bassa. “Ancora due esercizi, Alessio. E poi… forse potrai andare in camera mia.”
Alessio sussultò, quasi istintivamente.
“Ci sto provando, zia...”
Lei si alzò, senza fretta. Fece due passi, poi si chinò su di lui. Appoggiò una mano sul tavolo, accanto al suo braccio.
“Non mi sembra, a giudicare dai tuoi occhi.”
“Non è colpa mia,” mormorò lui, senza guardarla.
Il vestito le si tirò leggermente sul petto e il décolleté gli finì davanti agli occhi. La pelle era compatta, calda, e la linea tra i seni si fece più netta, più marcata, con un movimento lento e naturale.
“No? Allora di chi? Dimmi la verità. A cosa pensi? Sono curiosa…”
Alessio chiuse gli occhi.
“Zia...”
“Pensi alle gambe di zia, forse? Alle tette di zia?” Chiese lei, poi abbassò ancora un po’ il busto, fino a sfiorargli l’orecchio. “Ti fa così effetto il mio corpo? O è perché sai cosa c’è sul letto?”
Mena sorrise. “A cosa pensi quando sei in camera mia?” Proseguì, gustandosi l’imbarazzo del nipote.
“Quando ti siedi sul bordo del letto e trovi il mio reggiseno lì, pronto e ben piegato per te?”
Alessio abbassò ancora di più lo sguardo.
“Te lo infili sul viso?”
Si avvicinò ancora, le labbra arricciate.
“Lo annusi? Ti immagini la mia pelle, il mio odore… le curve che ha toccato?”
Lui non rispondeva, evidentemente in difficoltà.
“Oppure…” continuò Mena, sfiorandogli una ciocca biondo sulla nuca, “immagini di togliermelo tu. E che io te lo lasci fare.”
“Penso di sì, zia…” mugugnò Alessio, abbassando gli occhi sul quaderno.
“Lo pensi?” fece lei, inclinando la testa, con un sorriso appena accennato. “Dimmi la verità, Ale. Che cosa ti fa impazzire davvero di quella biancheria?”
La sua voce era bassa, calda, vicina. Una vibrazione liquida tra curiosità e complicità.
Alessio deglutì. Le parole gli si spezzavano in gola.
“È… è come se…”
Fece un respiro.
“Come se tu fossi ancora lì dentro. Come se toccandola… potessi toccare te.”
Mena lo guardò con occhi brillanti di interesse, trattenendo un sorriso.
“Allora è vero… Pensi alle mie tette,” disse in un sussurro, con finta accusa. Ma c’era un tremolio divertito nella sua voce.
Alessio si coprì parzialmente il volto con la mano.
“E anche… anche alla tua bocca. Se per questo.”
Lei alzò un sopracciglio, interessata.
“Ah sì? E che pensi della mia bocca, esattamente?”
“Che è…” Lui arrossì, ma continuò. “Che è bellissima. Eccitante. Umida. Sembra… fatta per...”
Mena rise piano. Si leccò distrattamente il labbro inferiore, poi scosse la testa.
“Ok, direi che non serve andare oltre…”
Si guardarono un momento e scoppiarono a ridere assieme. Poi lei tornò seria, e sospirò.
“Ma c’è dell’altro, vero?” chiese con tono più profondo. “Perché proprio la biancheria intima? Non è solo un feticcio da ragazzino arrapato. È qualcosa di più. Lo sento.”
Alessio si irrigidì. Lo sguardo gli si fece opaco, confuso.
Mena lo notò subito. Gli sfiorò il dorso della mano con due dita, piano, senza insistere.
“Racconta, dai. Sfogarsi fa bene. E ormai siamo in confidenza, no?”
Fece una pausa, poi lo guardò negli occhi.
“Io non ti giudico, Ale. Non mi scandalizzo. Voglio solo capire… quello che ti attraversa davvero.”
“Zia...”
“Dai. Voglio capire cosa c’è dentro quella tua testolina monella.”
Lui abbassò lo sguardo. Ci fu un lungo silenzio. Poi parlò.
“Una volta...”
La voce gli tremava.
“Una volta...” cominciò Alessio, fissando un punto vago del tavolo. “Una volta ho trovato Mamma a letto con Papà.”
Mena non si sorprese.
“Capita, tra adulti, sai?” Disse con calma.
Alessio annuì piano, poi continuò: “Non avevano chiuso la porta. Io non sapevo... mi sono steso accanto alla mamma. Papà dormiva già, credo. Lei aveva una vestaglia addosso. Aperta. Sentivo l’odore...”
Fece una pausa.
“L’odore del sesso. Sulla sua pelle, sulla stoffa... mi ha colpito. Era caldo, dolce e sporco insieme. Non riuscivo a staccarmi. E da allora... ogni volta che vedo biancheria intima, cerco quella sensazione. Quella presenza.”
Mena gli accarezzava i capelli, incoraggiandolo a continuare.
“All’inizio cercavo tra le cose delle mie compagne di scuola. Zaini lasciati incustoditi… armadietti. Cercavo mutandine, reggiseni. Ma a scuola mi hanno scoperto. E mamma si è arrabbiata moltissimo.”
Sollevò gli occhi verso Mena, timido.
“Non dire a mamma del nostro patto, ti prego.”
“Te l’ho già promesso, lo sai” disse piano. “Resterà tra noi. Sarà un nostro segreto.”
A Mena tornarono in mente le parole del Don.
“Sai, non c’è niente di sporco in quello che provi. L’eccitazione non è peccato. È solo energia… che ha bisogno di un posto dove andare.”
Si chinò verso Alessio con dolcezza e gli sfiorò la guancia con un bacio leggero, quasi materno. La sua scollatura si mosse con lei, e il seno sfiorò la stoffa del vestito, premendo appena contro il bordo. Lui sentì il profumo della sua pelle, la vicinanza viva, e il respiro gli si bloccò in gola.
“Ora che mi hai raccontato tutto…” sussurrò lei, con voce morbida, “…forse è il momento di lasciarla andare un po’, questa energia.”
Si alzò con calma, sistemò l’orlo del vestito e si avviò verso la porta.
“Sul mio letto,” disse voltandosi appena, “troverai un reggiseno rosso. Di pizzo. L’ho indossato ieri.”
Alessio alzò gli occhi, incredulo. “Usato?”
Mena si limitò a sorridere, complice.
“Vai. E prenditi il tuo tempo.”
Poi Mena uscì, soddisfatta, chiudendo la porta con un gesto leggero.
Aveva ragione Don Marco, era bello ascoltare le confessioni altrui.
Lia
Lia si svegliò, stranamente calma.
Si preparò un caffè, guardando la luce filtrare dalle tende.
Dall’altra parte della casa sentì scorrere l’acqua.
La porta del bagno era socchiusa.
Sergio era davanti allo specchio, a petto nudo e si stava radendo.
Da mesi non lo faceva. La barba gli era cresciuta, ruvida, grigia.
Lia restò ferma. Lo osservò.
Il petto ampio, le spalle forti, la pelle segnata.
Quando lui la notò nello specchio, sorrise appena.
“Buongiorno.”
Lei fece un passo avanti.
“Ti stai radendo.”
“Mi andava.”
“Stai bene così.”
Si fissarono nello specchio, in silenzio.
“Stasera esci?” chiese Lia. “Potremmo… fare due passi, se vuoi.”
“Ho un impegno.”
“Con chi?”
Sergio esitò. “Una persona.”
“La donna di ieri?”
Annuì appena. “Problemi?”
“No. Figurati.”
Si lavò le mani. Il gesto lento, controllato.
“Non sembri convinta,” disse lui.
“Sembri stanco,” rispose lei.
Lui accennò un sorriso. “Un po’”.
Si voltò. Sembrava voler dire qualcosa, ma si fermò. Poi scosse la testa.
“Che c’è, papà?”
“Lascia stare. È una sciocchezza.”
“Dimmela.”
“Vorrei che tu mi facessi un massaggio. Prima di uscire.”
“Perché?” chiese lei, incuriosita.
Sergio si grattò la nuca, imbarazzato.
“L’altra sera… dopo quel massaggio… mi sono sentito… bene. I muscoli più sciolti. Avevo avuto crampi, prima. Pensavo che… potesse aiutarmi a non fare figuracce, stasera.”
Lia rimase ferma, sorpresa: “fi..guracce?” balbettò.
Suo padre le aveva davvero chiesto un massaggio pre-appuntamento?
La voce le tremò. Le scappò una risata breve, incerta.
Non sapeva che pensare.
Lui annuì. “Solo per sciogliere un po’ le gambe. Mi fanno male.”
“Le gambe. Già…” abbassò lo sguardo. “S-sì. Va bene. A dopo, allora.”
Andò in camera. Aprì il cassetto dove teneva il flacone d’olio comprato settimane prima, quasi per caso. Lavanda, sandalo, ylang-ylang.
“Uso consigliato: coppia.”
Aveva sorriso leggendo quella frase. Ora non le sembrava più divertente.
Tolse il tappo. L’odore caldo le riempì la stanza.
Sapeva che l’avrebbe usato per lui.


Mena
Mentre vedeva Alessio sgattaiolare in camera da letto, Mena sentì la porta d’ingresso richiudersi con un tonfo secco. Toni era tornato.
Dal corridoio, le bastò un’occhiata per capire tutto: spalle tese, mascella serrata, lo sguardo basso e furioso.
“Toni?” disse lei, muovendosi verso di lui. “Che succede?”
“È sparita.” Sbottò lui. “Anna mi ha bloccato.”
Mena si fermò, a pochi passi. Lo guardò in silenzio. C’era qualcosa in quella ferita che la toccava. Non solo per lui. Per come le faceva sentire il suo stesso corpo – sveglio, teso, attratto da quel dolore così virile e crudo.
“Non ti ha scritto nulla?”
“No. Dopo ieri sera… niente. Le ho solo detto che non mi piaceva vederla esibirsi così, tutta scosciata davanti a centinaia di persone. E lei si è offesa. Ha detto che sono geloso, maschilista. Ma io…” scosse la testa, “non era quello. È che non sembrava più lei. Era tutta una posa.”
Mena annuì. L’aveva notato anche lei. Ma fino a quel momento aveva fatto finta di niente, forse per non mettere in discussione l’equilibrio precario che Toni cercava con Anna.
“Sai che ti dico?” disse, più piano. “Hai ragione. Anna è bravissima, ma… anche furba. A volte usa la sua femminilità come una moneta, non come qualcosa da donare. È… Ambiziosa.”
Toni sollevò lo sguardo su di lei, gli occhi carichi di sorpresa. Forse non si aspettava di sentirglielo dire.
“Lo pensi anche tu?”
“La conosco abbastanza per capire cosa vuoi dire.” Fece un passo in più, sfiorandogli il braccio. “E conosco te. Tu sei fatto per una ragazza seria, pronta a donarsi solo a te. Lei è troppo ambiziosa. Inizio a pensare non sia quella giusta.”
In quel momento Mena lo sentì. Quella pulce nell’orecchio che iniziava a scavare. Un pensiero vago, quasi molesto, ma impossibile da ignorare: se Toni fosse davvero libero? Se lo avesse per sé?
Tutto da accudire.
Toni le prese le mani, d’impulso. “Grazie, mà. Mi fai sentire meno… pazzo.”
“Perché non lo sei.” Gli strinse le dita. “Scrivile. E chiudi.”
Lui tirò fuori il telefono, esitò un istante, poi lo sbloccò. Ma subito la sua espressione cambiò. “Mi ha bloccato. Anche qui.”
La frustrazione gli esplose in un moto di rabbia repressa, sembrava sul punto di esplodere in un attacco di furia impetuosa. Era bellissimo anche così, virile, con la tensione che gli correva sulle spalle larghe, la mascella tesa, la voce che si spezzava.
Mena si avvicinò di nuovo, dolce. “Ehi… vieni qui.” Lo abbracciò da dietro, stringendolo. “Vieni…” gli sussurrò. “Siediti un attimo.”
Lo prese per mano, lo condusse fino al divano, lo fece accomodare sul divano e si mise accanto a lui, accarezzandogli i capelli. Toni si lasciò andare, crollando di colpo. Poggiò il volto contro il suo petto florido, e quando sentì il seno sotto la maglia morbida, si bloccò un istante. Ma poi restò lì.
Mena lo lasciò fare. Non c’era malizia, solo bisogno. Di conforto, di contatto. Di quella tenerezza che nessuno aveva saputo dargli, finora.
“Così va meglio?” gli sussurrò, sfiorandogli i capelli con le dita.
Toni annuì piano. “Sì...”
Mena non si mosse. Era consapevole del suo corpo, del respiro di lui che si faceva più lento. Il suo calore. Il modo in cui la cercava, un figlio che aveva bisogno di lei. Di essere accolto. Di essere amato in silenzio.
Ma quella pulce ora graffiava. Si domandava perché il cuore le accelerasse tanto. Perché ogni carezza che gli dava le provocasse un piccolo tremito tra le gambe.
Lo guardò. Gli occhi chiusi, le labbra morbide, il volto bellissimo incastrato tra il suo seno come se fosse il posto più naturale del mondo. Toni, lì, che si fidava di lei.
Lei chiuse gli occhi. Le sue dita continuarono a muoversi tra i capelli di lui, lente. Dolci. Sensuali. Sentiva il capezzolo indurirsi sotto il tessuto, a contatto con il calore del suo viso.
Toni chiuse gli occhi qualche minuto, il viso rilassato, ancora appoggiato contro il suo petto. Ogni tanto il respiro si faceva più profondo, e un braccio si stringeva attorno alla sua vita.
Mena restava immobile. Lo accarezzava in silenzio, lasciando che le dita tracciassero cerchi lenti sulla nuca, sul bordo dell’orecchio, sul profilo maschile e perfetto del viso.
Rimasero così, in silenzio. Il tempo sembrava sospeso, e dentro Mena si agitava qualcosa. Una consapevolezza ancora fragile, ma presente: l’idea che forse, con Toni, c’era qualcosa che andava oltre l’affetto.
E c’era dell’altro. Il pensiero di lui, libero, senza Anna, le lasciava un sorriso difficile da nascondere.
Il suo respiro caldo le scaldava la pelle attraverso la maglia leggera, e lei chiuse gli occhi.
Il cellulare vibrò, improvviso, sul tavolino accanto. Uno scatto breve. Toni non si mosse. Lei allungò la mano e, con cautela, lo prese.
Schermo illuminato.
Un nome familiare: "papy."
Mena sentì un brivido risalirle la schiena. Non apriva quel profilo da mesi.
“Francesca… possiamo parlare?”


Lia
La sera, Sergio era sul divano.
Vide entrare Lia e si tolse distrattamente la parte di sotto della tuta, restando con le gambe nude, distese lungo i cuscini.
Le braccia lungo i fianchi, la testa reclinata di lato.
Prese la bottiglietta d’olio dal mobile.
Il tappo si aprì con un clic secco.
Un’ondata di profumo la investì: lavanda, sandalo, ylang-ylang.
Versò l’olio tra le mani. Lo vide colare lento, dorato, seguire il solco delle dita fino ai polsi.
Lo strofinò piano tra i palmi: il calore aumentava, e con esso l’intimità del gesto.
Si inginocchiò accanto a lui.
Non si erano ancora detti nulla.
Appoggiò le mani sulle sue gambe, appena sopra le ginocchia.
La pelle era calda, viva, e l’olio vi scivolava sopra lasciando una scia lucida e profumata. Lia seguiva il ritmo del respiro di Sergio, assecondando con i pollici la tensione dei muscoli che si allungavano e si scioglievano sotto la pressione.
Cominciò a muovere le mani lentamente.
Dal basso verso l’alto, con movimenti regolari e pieni. Ogni volta che risaliva lungo la coscia, l’olio si distribuiva in un velo sottile, che il corpo di lui assorbiva poco a poco, rilasciando l’odore profondo del sandalo.
Il calore cresceva, uniforme, e la pelle di Sergio si ammorbidiva sotto le dita.
Lia cercava di restare concentrata sul ritmo: inspirare, premere, scivolare, ma l’aroma dell’ylang-ylang la stordiva. Aveva una nota umida, quasi animale, che si mescolava al respiro lento di suo padre.
Ogni volta che le dita sfioravano l’interno delle cosce, un riflesso sottile le attraversava le braccia, come una corrente che risalisse fino al petto.
“Va meglio?” sussurrò.
“Sì…” rispose lui, la voce bassa, tenue.
Continuò.
I pollici disegnavano cerchi, le nocche seguivano i contorni dei muscoli, raccogliendo e sciogliendo la tensione. L’olio lasciava piccole gocce sui peli chiari delle gambe, che riflettevano la luce del lampadario.
Lia deglutì. L’aria era densa, profumata, quasi ferma.
Le sembrava che il tempo si fosse contratto, ridotto a quel contatto.
Sergio parlò senza preavviso, la voce bassa ma tagliente.
“Con tua madre è finita perché non ce la facevo più. L’ho picchiata. Stuprata. Brutalizzata. Scopata a sangue”.
Lia rimase immobile, attonita per il modo in cui suo padre stava vuotando il sacco: senza vergogna, freddamente.
“L’ho scopata a sangue,” ripeté.
“Non cercavo piacere, cercavo di umiliarla. Lei mi implorava in nome di Dio, e io…” Sergio si fermò un attimo, grugnendo “…io ho fatto di tutto perché capisse che, in quella stanza, Dio non comandava nulla. C’ero solo io.”
Lia sentì un brivido correre lungo la schiena. Lo guardava di profilo, la mascella contratta, le mani appiccicose ancora ferme sui polpacci.
“Perché hai fatto, papà?”
Silenzio. Lui inspirò forte, lo sguardo perso nel vuoto.
“L’ho punita,” disse infine. ”A modo mio. Per tutto quello che ti aveva fatto. Per ogni volta che ti aveva umiliata. Le ho fatto sentire quello che tu sentivi, Lia. La paura, l’impotenza. Doveva capire.”
Lia impallidì e l’aria diventò irrespirabile.
“Tu… le hai fatto del male.”
Sergio non rispose. Si passò una mano sul volto, poi guardò il pavimento.
“Lei non è innocente. È una pazza. Ho solo reagito di conseguenza”.
La voce di Lia tremò, spezzandosi tra stupore e dolore.
“Reagito? È così che si dice quando abusi di tua moglie?”
Sergio scattò in avanti, la fronte corrugata, gli occhi accesi.
“Ho punito una donna che ti ha sempre maltrattata! Io ti ho visto crescere nella paura. E nessuno la fermava. Io sì. Io l’ho fermata.”
Lia sentì qualcosa cedere dentro di sé, un senso di vuoto, di vertigine.
“E poi?” chiese piano. “Perché sei andato via se pensavi di avermi protetta?”
Sergio abbassò la voce. Il tono cambiò, diventò quasi dolce, insinuante.
“Perché dopo… mi sentivo vuoto. E quando non hai più niente da perdere, fuggi. Ma non si può fuggire per sempre. Prima o poi torni da chi ti vuole bene. Da chi non ti condanna.”

“Io,” mormorò Lia.
Lui annuì lentamente.
“Tu. Solo tu, Lia. Sei l’unica che può capire. L’unica che sa chi sono davvero.”
Lia lo fissò, gli occhi lucidi.
La sua confessione non era una richiesta di perdono, voleva solo trascinarla dentro la sua colpa.
“Non so se ti capisco, papà,” disse piano. “Ma so che non voglio diventare come te.”
Sergio non rispose.
Si alzò piano, la pelle ancora lucida d’olio.
Si passò una mano tra i capelli, poi raccolse la tuta dal divano.
“Mi hai rimesso al mondo,” disse piano. “E grazie per lo sfogo.”
Non la guardò.
Lia restò a terra, le mani unte, il cuore in gola.
“Esci?” Chiese, anche se lo sapeva.
“Sì. Non mi aspettare alzata.”
Quella sera, Lia non riusciva a dormire: ogni volta che chiudeva gli occhi, la voce di suo padre la tormentava: “da chi non ti condanna,” aveva detto.
Faceva caldo e iniziò a spogliarsi, sperando di trovare sollievo.
Non riusciva a crederci.
Sapeva che suo padre era stato un uomo libero, incostante, ma non avrebbe mai immaginato che potesse essere anche violento.
Sua madre era stata crudele, bigotta, ma nessuno meritava quella rabbia.
O forse sì?
I suoi genitori avevano imparato a farsi del male per sentirsi vivi.
Le immagini si accavallavano nella mente: la voce di sua madre che urlava, le ferite sulle braccia di Luca, suo fratello.
Violenza chiamava violenza?
O era solo un’altra eredità di famiglia?
Si voltò.
Chiuse gli occhi, provando a immaginare dove fosse suo padre, cosa stesse facendo.
Poi un rumore.
La chiave nella serratura.
Un attimo di silenzio.
Poi voci. Una risata, un sussurro femminile.
Lia trattenne il fiato.
Sentì la porta richiudersi, un fruscio di vestiti, tacchi che battevano sul pavimento.
Un mormorio basso, confuso.
Dal corridoio arrivavano rumori ovattati.
Un tonfo lieve, un respiro che si spezza.
Gemiti sommessi, inconfondibili.
Lia rimase ferma, con gli occhi spalancati nel buio.
Cercò di girarsi, di coprirsi le orecchie. Ma non ci riuscì.
Il corpo le rimaneva teso, immobile, cercando di non perdere nemmeno un battito di quella scena.
Le dita di Lia si chiusero attorno al lenzuolo, forte.
Aveva la gola secca, il cuore accelerato.
Dalla stanza accanto arrivavano suoni sordi.
Un cigolio, poi un colpo secco contro la parete.
Ogni volta che chiudeva gli occhi, la voce del padre tornava a farsi sentire, sorniona, tagliente. “L’ho fatto per proteggerti.”
Proteggerla da chi? Da cosa?
E da quando la protezione coincideva con la violenza?
Gemiti, respiri che si cercavano, movimenti trattenuti.
Non voleva ascoltare, ma non riusciva a smettere.
Lia trattenne il respiro.
L’odore dell’olio le sembrò ancora sulle mani.
“Dovevo reagire.”
E, in un modo che la spaventò, cominciò a immaginare.
Non il padre colpevole, ma l’uomo che difende.
Lo vedeva come un guardiano silenzioso, che si sporca le mani per proteggere chi ama.
Un uomo che colpisce per impedire il male, che domina per tenere lontano il disordine del mondo.
Era una fantasia, lo sapeva. Eppure le si insinuava dentro.
Forse tutte quelle donne erano solo avversari da contrastare.
Forse lui cercava pace, e la violenza era solo un modo distorto di ottenerla.
Dal muro giunse un grido, più forte, quasi un singhiozzo. Lia rabbrividì.
Non sapeva se fosse piacere o dolore, ma nel suo petto qualcosa si spezzò.
Chiuse gli occhi.
E in quell’illusione dolce e terribile, Lia si sentì di nuovo bambina: piccola, fragile, incapace di distinguere tra protezione e possesso.
Tra amore e paura.
Un sospiro si confuse con una risata femminile.
Poi di nuovo silenzio.
Un gemito breve, poi un altro, più profondo.
Il ritmo era quello che conosceva: lento, crescente.
Quasi lo stesso respiro che aveva sentito sotto i palmi, ore prima.
I suoi massaggi, pensò, avevano funzionato. Nessuna defaillance, stavolta.
Lia chiuse gli occhi, cercando di non immaginare.
Ma il corpo ricordava.
D’istinto Lia portò la mano sotto il lenzuolo, sul suo ventre tiepido. Scese di più con le dita, intrufolandole dentro gli slip; non si sorprese più di tanto quando si accorse che le sue grandi labbra erano giù umide e calde.
Così chiuse gli occhi, tentando di concentrarsi solo su ciò che udiva provenire dalla camera da letto, mentre le sue dita iniziarono a muoversi circolarmente su tutta la superficie del suo corpo.
“Mmhhh..”
Si sentiva sporca come una criminale a toccarsi proprio in quel momento.
Guardò ancora il suo corpo nudo. non altissima, aveva un corpo piacevole e proporzionato: i capelli biondi incorniciavano i seni tondi e sodi, ma notevoli; sull’apice le aureole erano rosee e i capezzoli pronti a svettare appena sollecitati. Iniziò a carezzarli entrambi con le dita e infatti, sorsero subito al tocco, chiari, rigidi e appuntiti.
Con le mani soppesò i seni, schiacciando i capezzoli sotto le palme, la loro corposità la fece fremere dal piacere mentre li sfregò uno contro l’altro.
Mancava qualcosa in quel solco febbrile e lievemente sudato tra i due globi di carne, lo sentiva. Poi immaginò che lì, tra quelle due morbide colline, un membro turgido ci sarebbe stato alla perfezione.
Oh sì. Il membro, il cazzo… averlo a pochi millimetri dalla bocca, il glande testa che sgusciava fuori dalla pelle scura del prepuzio e l’odore selvatico di sudore e lussuria.
Ormai smaniava.
Ma più immaginava quella puttana farsi penetrare da suo padre e più la sua mano acquisiva velocità ed intensità. Il loro ansimare era una fonte infinita di eccitazione per Lia. Il letto continuava a muoversi.
Lei, immobile, sentiva il battito salire alle tempie. Le venne da pensare che fosse questo, forse, il modo di suo padre di proteggere.
Con forza, con possesso, con quel bisogno di tenere tutto sotto il suo controllo.
E lei, stupida, non lo aveva capito.
Spinse sul monte di venere con la mano aperta.
Era talmente eccitata che ogni volta che si carezzava tra le cosce, di riflesso stringeva le gambe, per sfuggire al suo stesso tocco che indugiò tra le natiche tonde e paffute e, con un gesto tremante, le tirò ai lati, spalancando il taglio del culo.
Un minuscolo fiore scuro ne segnava il centro, il bersaglio di un punto preciso da penetrare.
Grazie alla divaricazione, si erano aperte anche le grandi labbra della fica. Le due pieghe laterali, ancora segnate da un velo di sottile peluria dorata, si aprivano, rivelando i lembi di una delicata corolla di carne rosata, con un pistillo centrale turgido e pulsante.
Era coperta da un velo di rugiada.
Lia sentiva dall’altra parte del muro rumori animaleschi, goduriosi. La donna misteriosa se la stava spassando assieme a suo padre.
Mise le dita di piatto sulla vulva, lasciandosi guidare dal ritmo di quei gemiti.
Il suo corpo cominciò a piegarsi, a flettersi, seguendo un impulso sempre più profondo. Con la mano libera torturò i due capezzoli, vibranti ed eretti, ormai grossi come perle rosse. Li strizzò e li portò alla stessa mano, tirandoli fino a farsi male.
La violenza del suo protettore.
Fantasticò su suo padre come su una forza che nessuno poteva contenere.
Lo immaginò nel buio, il respiro pesante, lo sguardo fermo e lucido.
Sognò che Anna fosse davanti a lui — confusa, impotente, spogliata del suo falso potere.
Lia la vedeva soccombere per paura, come se la violenza diventasse protezione; come se l’ordine che lui imponeva al mondo la difendesse.
E in quell’immagine, suo padre non era un uomo. Era la legge, il castigo, la carne che ristabilisce equilibrio.
Lei sentì un brivido correrle dentro, un calore basso, persistente.
E per un istante, Lia desiderò essere lei l’origine di quella forza — o la sua destinazione.
L’aria si riempì del profumo inebriante prodotto dagli umori di Lia, odore di sesso, di voglia.
In quel momento non desiderava altro. Il ritmo si fece più rapido, le dita ormai entravano nella fica come un coltello nel burro e gli umori che continuava a secernere producevano un suono morbido e ritmico, simile a un fruscio bagnato.
”Uuhhmmm, siiiii…” Era vicina.
Fantasticò sul membro del padre. Il suo protettore che puniva i suoi nemici con quel fallo massiccio.
Ricordava benissimo quel cazzo, da quella sera di tantissimi anni fa.
In quel momento dietro quel muro, suo padre stava possedendo una donna a pochi metri da lei, utilizzando quello stesso meraviglioso strumento di potere.
Alzò un po’ il bacino, aumentò il ritmo della penetrazione e, come labbra che avvolgono un dito per un attimo per poi lasciarlo andare con uno schiocco secco, venne in un devastante orgasmo, la bocca che faticava a trattenere i suoi gemiti di piacere, evitando che lui la sentisse godere e inzuppare le lenzuola con una fontana grondante di succhi.
Riappoggiò la schiena al letto, restando immobile per un paio di minuti.
Estrasse le dita completamente umide dalla sua nicchia di piacere e le portò molto lentamente alle narici
”Mmmh…”
Odore pungente.
Assaporò ciò che il suo corpo aveva creato e pulì per bene quelle dita lucide di umori.
Poi Lia sentì un ultimo gemito, lungo, spezzato.
La quiete tornò come dopo una tempesta.
Lia restò a guardare il buio, le mani strette sul lenzuolo.
L’olio, sulla pelle, sembrava ancora caldo.
Si addormentò ascoltando le risate dei due, tra una coccola e l’altra.

Mena
Toni dormiva ancora profondamente, la fronte appoggiata contro il petto di Mena. Lei gli sfilò il braccio da sotto la testa con delicatezza, attenta a non svegliarlo. Il suo respiro era caldo, regolare, placato. Mena si chinò a sfiorargli i capelli con le labbra, poi si alzò piano, con il cuore ancora pieno di una tenerezza strana, confusa.
Aveva appena varcato la soglia del corridoio, quando lo schermo del telefono si illuminò di nuovo.
"papy".
Aprì la conversazione con un leggero tremito.
Il messaggio successivo era più lungo.
“Non so più chi sono, Francesca. Ho mandato tutto all’aria. Mia figlia mi ha scoperto. Ha capito che frequento una donna che finge di essere lei. Non mi parla più. Mi ha urlato addosso che quella donna mi umilia, mi comanda… e ha ragione. Ma io non riesco a lasciarla. È come una dipendenza. Mi usa e io ci sto. E adesso mia figlia non vuole più vedermi. L’ho persa.”
Mena si appoggiò al muro, le dita che stringevano il telefono tremavano impercettibilmente.
Chiuse un attimo gli occhi.
Papy...
Quel nomignolo che le sembrava così buffo, così frivolo, portava dentro il peso di una devastazione. Non l’aveva mai visto così vulnerabile. Così spogliato.
Un rumore la fece voltare.
Alessio, spettinato, con le guance ancora arrossate, usciva dalla sua camera in punta di piedi. Le lanciò uno sguardo timido, colpevole. Lei gli fece un sorriso appena accennato. Non era il momento. Tornò dentro la sua stanza, chiudendo la porta alle spalle con discrezione.
Entrò in camera sua e si sedette sul letto. Il telefono le tremava in grembo.
“Mi dispiace tanto,” scrisse. “Ma non è troppo tardi. I figli non smettono mai davvero di volere bene. A tua figlia serve solo tempo per digerire la delusione. Ma puoi ancora rimediare.”
Non passò nemmeno un minuto.
“Tu sei troppo buona. Sei migliore di me. Io... io sono solo un debole, Francesca. Non riesco a contenere i miei impulsi. Neanche quando so che finirò per ferire qualcuno. Neanche quando tu mi dici che dovrei fare ciò che è giusto. Ti giuro, ci provo. Ma poi… cado di nuovo.”
Mena si accorse che aveva le mani fredde.
Per un attimo rivide Don Marco che le parlava di saggezza, Toni che le stringeva i fianchi con forza, Alessio che le confessava i suoi desideri più nascosti, e ora… questo padre sconfitto che cercava redenzione in una sconosciuta.
E poi vide il cuscino.
Lì, dove Alessio si era masturbato poco fa, c’era ancora il reggiseno rosso.
Lo prese tra le mani. Era tiepido, ancora.
Morbido. Sottilissimo.
Lo strinse tra le dita.
Respirò piano.
E rispose a “papy” con un ultimo messaggio, semplice, netto:
“Non ti scoraggiare, tesoro. Parlale e spiegale quanto le vuoi bene.”
“Non penso di riuscirci. Ti ho delusa, lo so. Ho deluso tutti. Addio, Francesca. Chiuderò il mio account.”
“Papy..”
Parlava al vento.
Mena lasciò cadere il telefono sul comodino, si sdraiò sul letto, ancora vestita, e rimase lì, con il reggiseno tra le mani.
Lo accarezzò con movimenti lenti, quasi indecisi. Il reggiseno — cremisi, lucido, con i bordi in pizzo — era completamente imbevuto di seme.
Le coppe del reggiseno contenevano una quantità sorprendente di liquido, tanto da sembrare due ampi bicchieri colmi per almeno un quarto di una sostanza biancastra.
Suo nipote doveva essersi masturbato più volte, beata gioventù.
Filamenti spessi si stendevano da un lato all’altro, disegnando arcate traslucide, quasi gelatinose. Grosse gocce opalescenti aderivano al bordo interno, mentre altre colavano lentamente, in un silenzio vischioso, come miele bianco.
Lo osservò a lungo, trattenendo il respiro. Era bellissimo, in un modo osceno e intimo. Ogni dettaglio le parlava di lui: dell’impeto, della potenza, di ciò che avrebbe voluto lasciare su di lei. Ma proprio quella traccia così concreta la paralizzava. Le sembrava troppo. Troppo reale, troppo presente, quasi sfacciata. Una parte di lei voleva limitarsi a stringerlo, annusarlo forse... ma non oltre.
Oh papy, se avessi saputo che non ero tanto migliore di te, avendo certi pensieri.
Avvicinò il reggiseno al viso e ne inspirò l’aroma con una lentezza famelica. L’odore era intenso, penetrante: caldo, ferroso, vagamente dolciastro, con una punta amara che le fece vibrare le narici e le scivolò giù, dritta al basso ventre. Le si inumidirono le labbra, le pupille si dilatarono. Quel profumo così carnale la stordiva come un liquore magico.
Il cuore le martellava nel petto. Le mani tremavano appena. Eppure, ancora, non si muoveva.
Poi accadde.
Aprì la bocca. Inclinò appena il viso e la lingua scivolò lenta sul bordo interno della coppa.
Il primo contatto fu viscerale: umido, carnale, denso. Il tessuto, zuppo fino al bordo, rilasciava lo sperma a ogni movimento, in piccole ondate calde e filanti che le si raccoglievano sul palato. Era tanto, troppo: le colava ai lati della bocca, le impiastricciava le dita. Ma non si fermò.
Era fuori di sé. Non succhiava sborra da mesi.
Il fluido le aderì alla lingua come una crema viscida, pungente, quasi viva. Sapore, calore, fantasia.
Da fuori, la scena avrebbe avuto qualcosa di sacrale e indecente al tempo stesso.
Una comunione spermatica.
Era inginocchiata, con la schiena leggermente incurvata in avanti, il reggiseno stretto tra le mani e la testa china su di esso. I capelli le cadevano sul viso, nascondendo solo in parte la bocca che si muoveva lenta, concentrata, affamata. Ogni tanto si sentiva il suono sordo della saliva che si mescolava con quell’eiaculato denso e lo schiocco umido delle labbra che si staccavano dal pizzo intriso.
Il viso di Mena era arrossato, gli occhi socchiusi, velati. Le guance imperlate di piccole gocce, non si capiva se di sudore o di giovane sborra. La bocca lucida, aperta, vibrava di piacere. Il petto rigoglioso si sollevava piano e le mani... le mani tremavano, ma non si fermavano.
Il sapore era forte, deciso: salato, vagamente amarognolo, con un retrogusto che le ricordava pelle, umore, ormoni. La lingua seguiva le cuciture, si insinuava nei bordi, raccoglieva le gocce più dense rimaste intrappolate.
Più assaporava, più la quantità la eccitava. C’era qualcosa di primordiale e indecente nell’idea che lui ne avesse lasciato così tanto per lei, un’offerta, un’impronta, una sfida. L’impeto, il piacere, l’urgenza. Le sembrava di assaporarlo con la bocca e con le narici allo stesso tempo. Lo sentiva tra le dita, denso e appiccicoso, lo sentiva tra le labbra, cremoso e salato, lo sentiva tra le gambe, che adesso pulsavano in risposta, bagnate di un desiderio che cresceva a ogni lappata.
Mena era immersa nella sborra, letteralmente. E non avrebbe voluto essere altrove.
Mise le mani tra le cosce e si accarezzò piano sopra le mutande. Tanto le bastò per lasciarsi andare a quella sensazione paradisiaca, godendo senza ritegno di quel mare di sborra.
Quando Mena riaprì gli occhi, il reggiseno era ancora lì, asciutto, silenzioso complice di quell’istante di pura follia. Sorrise appena, le dita ancora strette sul pizzo. Poi, nella bocca il sapore dell’eccitazione giovanile, si voltò sul fianco e lasciò che la luce si spegnesse piano.

Lia
La mattina dopo, la luce riempiva la cucina.
Sergio era già sveglio, seduto al tavolo con la moka ancora fumante accanto.
Si voltò verso di lei con un sorriso aperto, quasi ironico.
“Buongiorno, teppistella!”
“Buongiorno, papà. Com’è andata ieri?”
Lui fece spallucce, cercando di sembrare distratto.
“Tutto bene, sì. Spero di non averti svegliata…”
Lei trattenne un sorriso.
“Tranquillo. Dormivo profondamente.”
Un silenzio breve, appena incrinato dal suono del cucchiaino nella tazzina.
Poi Sergio la guardò di nuovo, con quel tono mezzo sornione.
“A proposito…”
“Sì?”
“Quei tuoi massaggi funzionano fin troppo bene.”
“Me ne sono accorta,” rispose lei, leggera.
Risero entrambi. Una risata semplice, quasi infantile.
Lia lo guardò: sembrava più giovane, più vivo.
Ed era tutto merito suo.
In quel momento, provò una fitta di orgoglio.
La principessa, pensò, aveva ritrovato il suo cavaliere, nero come la pece.
scritto il
2025-11-03
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