Sesso imprevisto in treno
di
Valeria29
genere
etero
Sono Valeria. Era il febbraio del 1997, un inverno freddo e umido che si insinuava nelle ossa. Ero salita sul treno notturno a Genova, diretto verso Roma, lungo una di quelle tratte che negli anni ’90 sembravano non finire mai, con le carrozze sferraglianti che attraversavano la notte in un lamento continuo. Il convoglio era quasi deserto, molte carrozze vuote, un silenzio innaturale rotto solo dal ritmo monotono delle ruote sui binari. Avevo scelto uno scompartimento centrale, lontano dalle porte d’ingresso, per essere sicura che nessuno mi disturbasse. Ero sola, e dopo aver chiuso la tendina del vetro, mi ero sistemata con un libro tra le mani, il fruscio delle pagine l’unico suono nel vagone.
Dopo circa due ore di lettura, con gli occhi che iniziavano a pesare, la porta dello scompartimento si aprì con un cigolio. Alzai lo sguardo e vidi un uomo sulla soglia. Alto, distinto, con un trench scuro e una sciarpa di lana intorno al collo. Aveva un viso scolpito, con un’ombra di barba ben curata e occhi profondi che sembravano perforarmi. La sua voce, bassa e calda, mi colse di sorpresa.
“Posso? Sono liberi questi posti?” chiese, con un tono gentile ma sicuro.
Lo osservai per un istante. Sembrava una persona perbene, curata nei movimenti, con un’eleganza naturale. “Sì, prego, si accomodi,” risposi, spostando la borsa dal sedile.
Si sedette di fronte a me, togliendosi il cappotto e rivelando un completo scuro impeccabile sotto. Dopo una breve presentazione – si chiamava Marco, viaggiava spesso per lavoro – iniziammo a parlare. La sua voce era un piacere da ascoltare, profonda, quasi ipnotica, con una cadenza che sembrava accarezzare ogni parola. Chiacchierammo di tutto: viaggi, libri, persino di piccole filosofie di vita. Le ore passavano senza che me ne rendessi conto, il freddo della notte fuori sembrava svanire mentre il calore della sua presenza mi avvolgeva.
“Ti capita spesso di viaggiare da sola?” mi chiese a un certo punto, sporgendosi leggermente verso di me, i suoi occhi che sembravano scrutare oltre le mie parole.
“Non sempre,” risposi, con un sorriso timido. “Ma a volte mi piace. È come prendersi un momento per sé.”
“Capisco,” mormorò lui, con un angolo della bocca che si sollevava in un sorriso appena accennato. “La solitudine può essere… seducente, se sai come viverla.”
Le sue parole mi colpirono, e sentii un brivido lungo la schiena, non di freddo, ma di qualcosa che non riuscivo a definire. Continuammo a parlare, ma la stanchezza iniziava a farsi sentire. I miei occhi si chiudevano, la sua voce diventava una sorta di nenia, un suono che mi cullava. Mi abbandonai al sedile, lasciandomi andare, mentre le sue parole continuavano a scorrere come un fiume lento.
Poi, nel torpore, sentii qualcosa. Una mano, leggera ma decisa, posarsi sulla mia gamba. Le sue dita sfioravano la stoffa dei miei pantaloni, risalendo lungo la coscia. Non riuscivo a muovermi, ero come paralizzata, sospesa tra sonno e veglia. La sua voce, ora un sussurro vicino al mio orecchio, mi diceva: “Rilassati… lasciati andare. Non c’è nulla di cui preoccuparsi.”
Non so come, ma non opposi resistenza. Il suo tocco divenne più audace, insinuandosi sotto i vestiti, esplorando la mia pelle con una lentezza che accendeva ogni nervo. Sentii le sue dita sfiorare l’elastico delle mie mutandine, poi scivolare giù, lasciandomi esposta. Il mio respiro si fece più corto, il corpo traditore che rispondeva a ogni suo movimento. Ero inerme, ma non spaventata. Era come se fossi in un sogno, un sogno che non volevo finisse.
“Sei così bella così, abbandonata,” mormorò, la sua voce un soffio caliente contro il mio collo. Sentii il calore del suo corpo avvicinarsi, poi qualcosa di duro premere contro di me. Capii subito cos’era. La sensazione del suo membro che si faceva strada dentro di me mi travolse, un misto di sorpresa e piacere che mi fece gemere piano. I suoi movimenti erano lenti, profondi, ogni affondo un’onda che mi scuoteva. Sentivo i suoi testicoli sfiorare l’interno delle mie cosce, il ritmo scandito dal silenzio del vagone e dal lontano sferragliare del treno.
“Ti piace, vero?” sussurrò, e io, incapace di risponderei, annuii appena, lasciando che il mio corpo parlasse per me. Mi abbandonai completamente, il calore che cresceva dentro di me, un fuoco che si alimentava a ogni suo colpo. Non so quanto tempo passò, ma alla fine un’esplosione mi travolse, un orgasmo che mi fece tremare, contrarmi attorno a lui. Pochi istanti dopo, lo sentii irrigidirsi, un calore liquido riempirmi mentre un gemito profondo gli sfuggiva dalle labbra.
Poi, la quiete. La mia mente si offuscò, sprofondando in un oblio dolce, pacificato. Quando riaprii gli occhi, il vagone era avvolto dal silenzio. Ero sola. Marco non c’era più. Mi guardai intorno, confusa, cercando tracce di lui, ma non c’era nulla. Solo una sensazione strana, umida, tra le gambe. Mi toccai, e le dita incontrarono una consistenza appiccicosa. Raccolsi un po’ di quel liquido, lo portai al naso. Non c’era dubbio: era liquido spermatico.
Il cuore mi batteva forte. Ero stata… presa? Posseduta? La sua voce, quelle parole, il modo in cui mi aveva fatto sentire così vulnerabile e allo stesso tempo così viva… Doveva aver usato qualche tecnica, forse un’ipnosi, per piegarmi alla sua volontà. Eppure, ripensandoci, non provavo paura o disgusto. Provavo… desiderio. Un desiderio oscuro di rivivere quel momento, di ritrovarlo.
Mi alzai, sistemandomi i vestiti, e guardai fuori dal finestrino. La notte era ancora profonda, mancavano ore all’arrivo a Roma. Nei giorni successivi, tornai spesso su quel treno, scegliendo sempre lo stesso scompartimento, sperando di rivederlo. Non successe mai. Ma ogni volta che chiudevo gli occhi, sentivo ancora la sua voce, il suo tocco, e quella sensazione di essere completamente sua.
Un mese dopo, mentre camminavo lungo una strada di Roma, lo vidi. Era lui, Marco, dall’altro lato della strada. Mi guardò per un istante, un sorriso storto sul volto, poi si voltò e sparì tra la folla. Non lo inseguii. Ma quella notte, a casa, trovai un biglietto nella mia borsa. C’era scritto solo: “Ci rivedremo. Presto.” E io, inspiegabilmente, lo sperai con ogni fibra del mio essere.
Dopo circa due ore di lettura, con gli occhi che iniziavano a pesare, la porta dello scompartimento si aprì con un cigolio. Alzai lo sguardo e vidi un uomo sulla soglia. Alto, distinto, con un trench scuro e una sciarpa di lana intorno al collo. Aveva un viso scolpito, con un’ombra di barba ben curata e occhi profondi che sembravano perforarmi. La sua voce, bassa e calda, mi colse di sorpresa.
“Posso? Sono liberi questi posti?” chiese, con un tono gentile ma sicuro.
Lo osservai per un istante. Sembrava una persona perbene, curata nei movimenti, con un’eleganza naturale. “Sì, prego, si accomodi,” risposi, spostando la borsa dal sedile.
Si sedette di fronte a me, togliendosi il cappotto e rivelando un completo scuro impeccabile sotto. Dopo una breve presentazione – si chiamava Marco, viaggiava spesso per lavoro – iniziammo a parlare. La sua voce era un piacere da ascoltare, profonda, quasi ipnotica, con una cadenza che sembrava accarezzare ogni parola. Chiacchierammo di tutto: viaggi, libri, persino di piccole filosofie di vita. Le ore passavano senza che me ne rendessi conto, il freddo della notte fuori sembrava svanire mentre il calore della sua presenza mi avvolgeva.
“Ti capita spesso di viaggiare da sola?” mi chiese a un certo punto, sporgendosi leggermente verso di me, i suoi occhi che sembravano scrutare oltre le mie parole.
“Non sempre,” risposi, con un sorriso timido. “Ma a volte mi piace. È come prendersi un momento per sé.”
“Capisco,” mormorò lui, con un angolo della bocca che si sollevava in un sorriso appena accennato. “La solitudine può essere… seducente, se sai come viverla.”
Le sue parole mi colpirono, e sentii un brivido lungo la schiena, non di freddo, ma di qualcosa che non riuscivo a definire. Continuammo a parlare, ma la stanchezza iniziava a farsi sentire. I miei occhi si chiudevano, la sua voce diventava una sorta di nenia, un suono che mi cullava. Mi abbandonai al sedile, lasciandomi andare, mentre le sue parole continuavano a scorrere come un fiume lento.
Poi, nel torpore, sentii qualcosa. Una mano, leggera ma decisa, posarsi sulla mia gamba. Le sue dita sfioravano la stoffa dei miei pantaloni, risalendo lungo la coscia. Non riuscivo a muovermi, ero come paralizzata, sospesa tra sonno e veglia. La sua voce, ora un sussurro vicino al mio orecchio, mi diceva: “Rilassati… lasciati andare. Non c’è nulla di cui preoccuparsi.”
Non so come, ma non opposi resistenza. Il suo tocco divenne più audace, insinuandosi sotto i vestiti, esplorando la mia pelle con una lentezza che accendeva ogni nervo. Sentii le sue dita sfiorare l’elastico delle mie mutandine, poi scivolare giù, lasciandomi esposta. Il mio respiro si fece più corto, il corpo traditore che rispondeva a ogni suo movimento. Ero inerme, ma non spaventata. Era come se fossi in un sogno, un sogno che non volevo finisse.
“Sei così bella così, abbandonata,” mormorò, la sua voce un soffio caliente contro il mio collo. Sentii il calore del suo corpo avvicinarsi, poi qualcosa di duro premere contro di me. Capii subito cos’era. La sensazione del suo membro che si faceva strada dentro di me mi travolse, un misto di sorpresa e piacere che mi fece gemere piano. I suoi movimenti erano lenti, profondi, ogni affondo un’onda che mi scuoteva. Sentivo i suoi testicoli sfiorare l’interno delle mie cosce, il ritmo scandito dal silenzio del vagone e dal lontano sferragliare del treno.
“Ti piace, vero?” sussurrò, e io, incapace di risponderei, annuii appena, lasciando che il mio corpo parlasse per me. Mi abbandonai completamente, il calore che cresceva dentro di me, un fuoco che si alimentava a ogni suo colpo. Non so quanto tempo passò, ma alla fine un’esplosione mi travolse, un orgasmo che mi fece tremare, contrarmi attorno a lui. Pochi istanti dopo, lo sentii irrigidirsi, un calore liquido riempirmi mentre un gemito profondo gli sfuggiva dalle labbra.
Poi, la quiete. La mia mente si offuscò, sprofondando in un oblio dolce, pacificato. Quando riaprii gli occhi, il vagone era avvolto dal silenzio. Ero sola. Marco non c’era più. Mi guardai intorno, confusa, cercando tracce di lui, ma non c’era nulla. Solo una sensazione strana, umida, tra le gambe. Mi toccai, e le dita incontrarono una consistenza appiccicosa. Raccolsi un po’ di quel liquido, lo portai al naso. Non c’era dubbio: era liquido spermatico.
Il cuore mi batteva forte. Ero stata… presa? Posseduta? La sua voce, quelle parole, il modo in cui mi aveva fatto sentire così vulnerabile e allo stesso tempo così viva… Doveva aver usato qualche tecnica, forse un’ipnosi, per piegarmi alla sua volontà. Eppure, ripensandoci, non provavo paura o disgusto. Provavo… desiderio. Un desiderio oscuro di rivivere quel momento, di ritrovarlo.
Mi alzai, sistemandomi i vestiti, e guardai fuori dal finestrino. La notte era ancora profonda, mancavano ore all’arrivo a Roma. Nei giorni successivi, tornai spesso su quel treno, scegliendo sempre lo stesso scompartimento, sperando di rivederlo. Non successe mai. Ma ogni volta che chiudevo gli occhi, sentivo ancora la sua voce, il suo tocco, e quella sensazione di essere completamente sua.
Un mese dopo, mentre camminavo lungo una strada di Roma, lo vidi. Era lui, Marco, dall’altro lato della strada. Mi guardò per un istante, un sorriso storto sul volto, poi si voltò e sparì tra la folla. Non lo inseguii. Ma quella notte, a casa, trovai un biglietto nella mia borsa. C’era scritto solo: “Ci rivedremo. Presto.” E io, inspiegabilmente, lo sperai con ogni fibra del mio essere.
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