Lo specchio non mente
di
Matilde25
genere
tradimenti
(un piccolo capolavoro del mio amico Grande_Giove_77)
Avevo pianificato la cena degli ex compagni di classe con la precisione di un orologiaio, sapendo che ogni mossa era un tassello in un mosaico più grande. Il ristorante era un rifugio accogliente, con luci soffuse che danzavano sulle pareti come segreti sussurrati, e tovaglie bianche che evocavano memorie di innocenza perduta.
Tutti avevano confermato, incluso il marito di Matilde. La sua presenza era essenziale: mi assicurava che lei sarebbe rimasta sola a casa, un'isola vulnerabile in un mare di routine.
Poco prima dell'ora stabilita, inviai un messaggio nel gruppo:
«Scusate, un imprevisto al lavoro. Arrivo con un po' di ritardo. Iniziate senza di me, divertitevi!»
Sterzai bruscamente, lasciando il ristorante svanire nello specchietto retrovisore. La vera destinazione era il suo indirizzo, un quartiere silenzioso dove le strade sembravano trattenere il fiato.Arrivai sotto il suo palazzo, il cuore che batteva con un ritmo calcolato. Scesi dall'auto e suonai il campanello con insistenza, una, due, tre volte. Il suono echeggiò nel vuoto della notte, ma non ci fu risposta. Sapevo che era in casa: le luci filtravano dalle finestre, e l'auto del marito era assente.
Immaginai Matilde dall'altra parte, il dito sospeso sul pulsante dell'interfono, il respiro accelerato. Non aprì. Era la sua prima linea di difesa, un rifiuto silenzioso che alimentava la mia determinazione.Tirai fuori il telefono e iniziai lo scambio di messaggi, una guerra psicologica tessuta di parole affilate come lame.Io: «So che sei lì. Ho suonato. Apri.»
Lei: «Vai via. Mio marito potrebbe tornare da un momento all'altro.»
«Sappiamo entrambi che non tornerà presto. È alla cena, intrappolato in chiacchiere noiose. E tu sei qui, sola, a pensare a cosa succederebbe se mi lasciassi entrare.»
Silenzio.
Poi lei: «Non è una buona idea. Non stasera.»
Io: «Non è mai una buona idea, ma è inevitabile. Ricordi l'ultima cena a casa tua? I tuoi occhi che saettavano verso i miei mentre versavi il vino a tuo marito. Il modo in cui accavallavi le gambe, sapendo che ti guardavo. Era un invito, non negarlo.»
Lei: «Era solo cortesia. Niente di più.»
Io: «Cortesia? O un gioco che ti eccita? Ogni tuo gesto urla desiderio represso. Apri la porta, o resto qui tutta la notte. I vicini potrebbero notare un uomo che aspetta sotto casa tua.»
Lei: «Smettila. Mi fai paura.»
Io: «Paura? O eccitazione? So che stai guardando dalla finestra. So che il tuo cuore batte forte quanto il mio. Apri, Matilde. Devi essere onesta con te stessa.»
Altri minuti di silenzio, un'eternità in cui immaginavo la sua lotta interiore: la razionalità contro l'istinto, il dovere contro il proibito.
Infine:Lei: «Va bene. Ma solo per parlare. E poi te ne vai.»
Il portone si aprì con un clic metallico, come una serratura che cedeva sotto pressione. Salii le scale con passo deliberato, ogni gradino un trionfo nella nostra battaglia silenziosa.La porta dell'appartamento era socchiusa. Entrai senza bussare, chiudendola piano alle mie spalle. Matilde era in piedi nel corridoio, con una blusa leggera color sabbia che le accarezzava le curve e pantaloni comodi che non nascondevano la tensione del suo corpo. I capelli erano raccolti in modo frettoloso, ma attraente, e gli occhi brillavano di un misto di rabbia e curiosità.
«Hai vinto questa battaglia,» disse con voce tremante, le braccia incrociate sul petto come uno scudo.
«Non è una battaglia, è una verità,» replicai, avanzando con sfrontatezza.
Andai dritto in cucina, aprii il frigo come se fosse casa mia e mi versai un bicchiere di vino bianco – lo stesso che lei offriva nelle cene, fresco e aromatico.
Lo sorseggiai lentamente, appoggiandomi al bancone, i miei occhi fissi nei suoi. Era un gesto calcolato: invadere il suo spazio, trattare le sue cose come mie, per farle capire che i confini erano già infranti.
«Che fai? Non ti ho invitato a servirti,» protestò lei, ma non si mosse per fermarmi. Era paralizzata, affascinata dalla mia audacia.«Sto solo rendendo le cose comode,» dissi con un sorriso obliquo.
«Ricordi quante volte ho visto questa bottiglia sul tuo tavolo? Mentre tuo marito parlava di lavoro, e tu... tu mi guardavi di sfuggita, le guance arrossate. Era come se mi stessi offrendo un sorso di qualcos'altro.»
Lei arrossì, distogliendo lo sguardo. «Non interpretare tutto. Era solo ospitalità.»Mi avvicinai, il bicchiere in mano, invadendo il suo spazio personale.
«Ospitalità? O un segnale? Ogni cena era una tortura psicologica per me, Matilde. Tu che ti chinavi per raccogliere un tovagliolo caduto, mostrando appena un po' di scollatura. O quando accavallavi le gambe, sapendo che i miei occhi seguivano ogni movimento. Mi stavi testando, vero? Vedendo quanto potevo resistere prima di cedere.»
«Smettila,» mormorò, ma la sua voce era incrinata. Si ritrasse verso il soggiorno, e io la seguii, posando il bicchiere sul tavolino con un tintinnio che echeggiò come un avvertimento.
«Perché? Paura di ammettere che ti piace questo gioco? Che ogni tuo rifiuto è solo un preludio al sì?»
Mi sedetti sul divano, le gambe aperte in una posa dominante, invitandola implicitamente a unirsi. «Siediti. Parliamo di quello specchio in bagno. Quello che pulisci con ossessione, che illumini con candele. L'hai mai usato per guardarti davvero? Per vedere il desiderio che ti consuma?»
Lei esitò, poi si sedette sull'orlo del divano, le mani intrecciate in grembo. «Non è come dici tu. Io amo mio marito.»
«Lo so,» concessi, chinandomi verso di lei. «Ma ami anche l'adrenalina. Il brivido di ciò che non dovresti volere. L'altra sera al parcheggio? Ricordi il tuo corpo che si irrigidiva quando le mie mani ti toccavano?. Era elettricità, Matilde. Non fingere che non l'abbia sentita.»
La conversazione era una danza di parole, ogni frase un affondo per erodere le sue difese. Le descrissi scene passate con dettagli vividi – i suoi sorrisi ambigui, i tocchi accidentali – facendola dubitare delle sue stesse memorie. Lei negava, ma i suoi occhi tradivano il conflitto: dilatati, umidi, carichi di un desiderio che combatteva invano.
Alla fine, la tensione si spezzò. Mi alzai, le presi il viso tra le mani con gentilezza ferma. «Basta giochi,» sussurrai.
La baciai, e lei resistette solo un istante prima di arrendersi.Ci spostammo in bagno, attratti da quello specchio come da un magnete. La vestaglia scivolò via, rivelando la sua pelle nuda, calda e tremante. Io la spinsi contro il lavandino, le mani sui suoi fianchi, mentre lei si aggrappava al bordo, gli occhi fissi sul riflesso. La penetrai da dietro con lentezza deliberata, sentendo il suo calore avvolgermi in un abbraccio stretto e bagnato. Ogni spinta era un'eco della nostra guerra: profonda, insistente, inesorabile.
Lei gemette, il corpo che si inarcava contro il mio, i seni che oscillavano al ritmo dei nostri movimenti. Le mie dita trovarono il suo clitoride, sfregandolo in cerchi rapidi, mentre l'altra mano le stringeva il collo con delicatezza, costringendola a guardarsi nello specchio.
«Vedi?» ansimai. «Questo è ciò che sei davvero.»
L'orgasmo la travolse come un'onda, i muscoli che si contraevano attorno a me in spasmi violenti, un grido soffocato che appannò il vetro. Io la seguii poco dopo, riversandomi dentro di lei con un'intensità che sigillava la nostra resa.Rimanemmo lì, ansimanti, i corpi uniti nel riflesso.
Lo specchio aveva visto tutto: la battaglia, la sconfitta, la vittoria condivisa. E ora, sapeva che non c'era ritorno, non ci saremmo più fermati.
Avevo pianificato la cena degli ex compagni di classe con la precisione di un orologiaio, sapendo che ogni mossa era un tassello in un mosaico più grande. Il ristorante era un rifugio accogliente, con luci soffuse che danzavano sulle pareti come segreti sussurrati, e tovaglie bianche che evocavano memorie di innocenza perduta.
Tutti avevano confermato, incluso il marito di Matilde. La sua presenza era essenziale: mi assicurava che lei sarebbe rimasta sola a casa, un'isola vulnerabile in un mare di routine.
Poco prima dell'ora stabilita, inviai un messaggio nel gruppo:
«Scusate, un imprevisto al lavoro. Arrivo con un po' di ritardo. Iniziate senza di me, divertitevi!»
Sterzai bruscamente, lasciando il ristorante svanire nello specchietto retrovisore. La vera destinazione era il suo indirizzo, un quartiere silenzioso dove le strade sembravano trattenere il fiato.Arrivai sotto il suo palazzo, il cuore che batteva con un ritmo calcolato. Scesi dall'auto e suonai il campanello con insistenza, una, due, tre volte. Il suono echeggiò nel vuoto della notte, ma non ci fu risposta. Sapevo che era in casa: le luci filtravano dalle finestre, e l'auto del marito era assente.
Immaginai Matilde dall'altra parte, il dito sospeso sul pulsante dell'interfono, il respiro accelerato. Non aprì. Era la sua prima linea di difesa, un rifiuto silenzioso che alimentava la mia determinazione.Tirai fuori il telefono e iniziai lo scambio di messaggi, una guerra psicologica tessuta di parole affilate come lame.Io: «So che sei lì. Ho suonato. Apri.»
Lei: «Vai via. Mio marito potrebbe tornare da un momento all'altro.»
«Sappiamo entrambi che non tornerà presto. È alla cena, intrappolato in chiacchiere noiose. E tu sei qui, sola, a pensare a cosa succederebbe se mi lasciassi entrare.»
Silenzio.
Poi lei: «Non è una buona idea. Non stasera.»
Io: «Non è mai una buona idea, ma è inevitabile. Ricordi l'ultima cena a casa tua? I tuoi occhi che saettavano verso i miei mentre versavi il vino a tuo marito. Il modo in cui accavallavi le gambe, sapendo che ti guardavo. Era un invito, non negarlo.»
Lei: «Era solo cortesia. Niente di più.»
Io: «Cortesia? O un gioco che ti eccita? Ogni tuo gesto urla desiderio represso. Apri la porta, o resto qui tutta la notte. I vicini potrebbero notare un uomo che aspetta sotto casa tua.»
Lei: «Smettila. Mi fai paura.»
Io: «Paura? O eccitazione? So che stai guardando dalla finestra. So che il tuo cuore batte forte quanto il mio. Apri, Matilde. Devi essere onesta con te stessa.»
Altri minuti di silenzio, un'eternità in cui immaginavo la sua lotta interiore: la razionalità contro l'istinto, il dovere contro il proibito.
Infine:Lei: «Va bene. Ma solo per parlare. E poi te ne vai.»
Il portone si aprì con un clic metallico, come una serratura che cedeva sotto pressione. Salii le scale con passo deliberato, ogni gradino un trionfo nella nostra battaglia silenziosa.La porta dell'appartamento era socchiusa. Entrai senza bussare, chiudendola piano alle mie spalle. Matilde era in piedi nel corridoio, con una blusa leggera color sabbia che le accarezzava le curve e pantaloni comodi che non nascondevano la tensione del suo corpo. I capelli erano raccolti in modo frettoloso, ma attraente, e gli occhi brillavano di un misto di rabbia e curiosità.
«Hai vinto questa battaglia,» disse con voce tremante, le braccia incrociate sul petto come uno scudo.
«Non è una battaglia, è una verità,» replicai, avanzando con sfrontatezza.
Andai dritto in cucina, aprii il frigo come se fosse casa mia e mi versai un bicchiere di vino bianco – lo stesso che lei offriva nelle cene, fresco e aromatico.
Lo sorseggiai lentamente, appoggiandomi al bancone, i miei occhi fissi nei suoi. Era un gesto calcolato: invadere il suo spazio, trattare le sue cose come mie, per farle capire che i confini erano già infranti.
«Che fai? Non ti ho invitato a servirti,» protestò lei, ma non si mosse per fermarmi. Era paralizzata, affascinata dalla mia audacia.«Sto solo rendendo le cose comode,» dissi con un sorriso obliquo.
«Ricordi quante volte ho visto questa bottiglia sul tuo tavolo? Mentre tuo marito parlava di lavoro, e tu... tu mi guardavi di sfuggita, le guance arrossate. Era come se mi stessi offrendo un sorso di qualcos'altro.»
Lei arrossì, distogliendo lo sguardo. «Non interpretare tutto. Era solo ospitalità.»Mi avvicinai, il bicchiere in mano, invadendo il suo spazio personale.
«Ospitalità? O un segnale? Ogni cena era una tortura psicologica per me, Matilde. Tu che ti chinavi per raccogliere un tovagliolo caduto, mostrando appena un po' di scollatura. O quando accavallavi le gambe, sapendo che i miei occhi seguivano ogni movimento. Mi stavi testando, vero? Vedendo quanto potevo resistere prima di cedere.»
«Smettila,» mormorò, ma la sua voce era incrinata. Si ritrasse verso il soggiorno, e io la seguii, posando il bicchiere sul tavolino con un tintinnio che echeggiò come un avvertimento.
«Perché? Paura di ammettere che ti piace questo gioco? Che ogni tuo rifiuto è solo un preludio al sì?»
Mi sedetti sul divano, le gambe aperte in una posa dominante, invitandola implicitamente a unirsi. «Siediti. Parliamo di quello specchio in bagno. Quello che pulisci con ossessione, che illumini con candele. L'hai mai usato per guardarti davvero? Per vedere il desiderio che ti consuma?»
Lei esitò, poi si sedette sull'orlo del divano, le mani intrecciate in grembo. «Non è come dici tu. Io amo mio marito.»
«Lo so,» concessi, chinandomi verso di lei. «Ma ami anche l'adrenalina. Il brivido di ciò che non dovresti volere. L'altra sera al parcheggio? Ricordi il tuo corpo che si irrigidiva quando le mie mani ti toccavano?. Era elettricità, Matilde. Non fingere che non l'abbia sentita.»
La conversazione era una danza di parole, ogni frase un affondo per erodere le sue difese. Le descrissi scene passate con dettagli vividi – i suoi sorrisi ambigui, i tocchi accidentali – facendola dubitare delle sue stesse memorie. Lei negava, ma i suoi occhi tradivano il conflitto: dilatati, umidi, carichi di un desiderio che combatteva invano.
Alla fine, la tensione si spezzò. Mi alzai, le presi il viso tra le mani con gentilezza ferma. «Basta giochi,» sussurrai.
La baciai, e lei resistette solo un istante prima di arrendersi.Ci spostammo in bagno, attratti da quello specchio come da un magnete. La vestaglia scivolò via, rivelando la sua pelle nuda, calda e tremante. Io la spinsi contro il lavandino, le mani sui suoi fianchi, mentre lei si aggrappava al bordo, gli occhi fissi sul riflesso. La penetrai da dietro con lentezza deliberata, sentendo il suo calore avvolgermi in un abbraccio stretto e bagnato. Ogni spinta era un'eco della nostra guerra: profonda, insistente, inesorabile.
Lei gemette, il corpo che si inarcava contro il mio, i seni che oscillavano al ritmo dei nostri movimenti. Le mie dita trovarono il suo clitoride, sfregandolo in cerchi rapidi, mentre l'altra mano le stringeva il collo con delicatezza, costringendola a guardarsi nello specchio.
«Vedi?» ansimai. «Questo è ciò che sei davvero.»
L'orgasmo la travolse come un'onda, i muscoli che si contraevano attorno a me in spasmi violenti, un grido soffocato che appannò il vetro. Io la seguii poco dopo, riversandomi dentro di lei con un'intensità che sigillava la nostra resa.Rimanemmo lì, ansimanti, i corpi uniti nel riflesso.
Lo specchio aveva visto tutto: la battaglia, la sconfitta, la vittoria condivisa. E ora, sapeva che non c'era ritorno, non ci saremmo più fermati.
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