Il ricatto

di
genere
tradimenti

(dal punto di vista di Grande_Giove_77)

L’avevo vista la sera prima, in quel locale. Non era sola, e non era certo con suo marito, il mio amico. Era con un altro uomo, troppo vicino, troppo complice, per essere un semplice amico o un collega. Scattai quella foto quasi senza pensarci, come se stessi aspettando da anni l’occasione per la mia occasione. Non perché mi interessasse rovinarla: il mio vero segreto era un altro. Io desideravo Matilde da sempre. Ogni volta che la incontravo con suo marito, mi ero imposto di trattenermi, di non lasciar trapelare nulla. Ma sotto, da troppo tempo, covava un fuoco. I suoi seni, le sue cosce, tutto di lei scatenava in me un vulcano di emozioni non facilmente controllabili.

Il mattino seguente mandai la foto Nient’altro. Nessun commento.

La sua reazione arrivò rapida, furiosa, ma sotto quella rabbia intuivo la paura. Non era paura di me, non ancora. Era paura di quello che la foto rappresentava: la sua maschera incrinata.

Le proposi una cena. Lei rifiutò con sdegno, mi riempì di insulti, ma sapevo che alla fine avrebbe accettato. Ed è quello che accadde: la sera dopo, si presentò.

Era bellissima, e lo sapeva. Non per sedurmi, ma per intimidirmi. Abito sobrio ma tagliato su misura, tacchi che scandivano ogni passo, capelli raccolti con cura. Si sedette davanti a me con lo sguardo glaciale, le spalle dritte, il corpo rigido come un’arma puntata.

Non parlò molto. Ogni tanto alzava gli occhi al cielo, ogni mia battuta riceveva un mezzo sorriso ironico o un commento velenoso. Non beveva quasi, assaggiava appena, come a rimarcare che era lì controvoglia, che non mi avrebbe mai dato il minimo appiglio.

Eppure, osservandola attentamente, mi accorgevo delle incrinature. Il modo in cui sistemava nervosamente il tovagliolo sulle gambe. Lo sguardo che ogni tanto si abbassava un secondo di troppo quando mi incontrava. La tensione nel collo, come se trattenesse qualcosa.

Io non replicavo con rabbia. Mi limitavo a sorridere, a lasciarla sfogare. Ogni insulto, ogni parola sferzante, era per me la conferma che stava lottando più con se stessa che con me.

In macchina, al ritorno, l’aria era elettrica. Lei continuava a insultarmi, a chiamarmi bastardo, vigliacco, malato. Io guidavo in silenzio, fino a un parcheggio isolato, mentre lei continuava severa a chiedermi di riportarla immediatamente a casa. Non presi neanche un momento in considerazione la sua richiesta, troppo ghiotta l’occasione per fermare il mio piano proprio all’ultimo. Arrivati al parcheggio spensi il motore e, senza darle il tempo di reagire, mi gettai su di lei. Le labbra sulle sue, la lingua che forzava la sua bocca chiusa. Mi respinse, mi colpì con la mano, graffiò, ma io la trattenni, le mani che scivolavano sulle cosce serrate.

Sentivo il suo corpo irrigidirsi, eppure tremava. Io sapevo che quella rabbia era anche paura, ma sotto c’era altro: lo stesso fuoco che avevo represso io per anni.

Usci fuori dall’auto, io la rincorsi e quando riuscii ad afferrarla, la piegai sul cofano. Si dimenava, urlava insulti, cercava di fuggire, ma la tenevo schiacciata. Il suo culo contro il mio bacino, le gambe che tentavano di serrarsi e io che le spingevo di lato. Con un gesto secco le strappai via le mutandine da sotto la gonna, e nel farlo sentii il calore e l’umidità che la tradivano.

Non resistetti oltre: la penetrai con forza, un affondo che la fece urlare, ma non solo di rabbia. Le sue mani picchiavano sul cofano, i suoi insulti si mescolavano a gemiti strozzati. Io spingevo sempre più a fondo, ogni colpo era un risarcimento per gli anni in cui mi ero trattenuto.

E mentre la prendevo così, piegata, mi chinai sul suo corpo, le mani che le afferrarono il petto, la bocca che raggiunse i suoi seni. La feci girare, le sbottonai la camicetta e, non con poca fatica, le feci uscire quei seni, che da sempre desideravo, dal reggiseno.

Li leccai con furia, con fame, mordendo appena i capezzoli duri. Lei si divincolava ancora, ma il suo respiro ormai era un ansimare irregolare, sempre più alto, sempre più vicino al piacere.

«Ti ho voluta da sempre…» le sussurrai tra un morso e l’altro, «e ora non mi fermo più.»
Il suo corpo mi rispose più della sua voce. A ogni spinta incontravo meno resistenza, finché le sue anche cominciarono a muoversi da sole, a venirmi incontro. Dalla rabbia passò alla resa, e dalla resa al piacere più sfrenato. Il suo orgasmo esplose violento, il corpo che si inarcava, le mani che battevano sul cofano come a implorare di non fermarmi. Io la seguii subito dopo, riempiendola fino in fondo, trattenendola stretta contro il metallo freddo.

Restammo piegati lì, ansanti, sudati, increduli. Poi la tornammo in macchina. In silenzio si ricompose, si sistemò i capelli. Quando la lasciai sotto casa, aprì la portiera, esitò un attimo e poi si voltò, con un sorriso amaro, gli occhi ancora accesi.

«Sei uno stronzo… ma scopi da dio.»

E se ne andò, lasciandomi col cuore in fiamme e la certezza che le era piaciuto da Dio.
scritto il
2025-10-05
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