Mi chiamo Mario e ho sessant’anni
di
Mario1960
genere
corna
Mi chiamo Mario, sessant’anni suonati e il cazzo ancora duro come a venti, almeno quando vedo certe troie travestite da mogliettine perbene.
La prima volta che l’ho vista, quella gran fica di Marina, stava al centro commerciale, con la mano nella zampa rugosa del marito. Un vecchio babbo di minchia, gonfio, con l’aria da pensionato rincoglionito che non saprebbe infilarsi neanche in un buco per sbaglio. Lei, invece, era la classica botta di vita che ti fa dimenticare quanti anni hai sulle spalle: tuta nera aderente, il culo disegnato come un manifesto pornografico, le tette che rimbalzavano sotto la stoffa a ogni passo.
Io la fissavo senza ritegno, come un cane arrapato davanti all’osso. Speravo che girasse la testa, che mi sgamasse con gli occhi piantati sul culo. Non lo fece. Ma, Cristo, la vidi passarsi la lingua sulle labbra, lenta, bagnata. Non guardava me, guardava un cazzo di manichino in vetrina, ma io lo so quando una donna manda segnali: quella era roba da pompinara di razza. E lì mi immaginai già la sua bocca che scivolava su di me, lenta e a fondo, fino a farmi perdere i sensi.
Pensavo che fosse un colpo di fortuna, un’erezione da supermercato e basta. E invece il giorno dopo me la ritrovo in palestra. Una botta di culo che manco nei porno. Sempre col marito a traino, ma stavolta vestita per farmi uscire di testa: costume attillato sotto la maglietta, culo ancora più rotondo nei leggings color carne, tette che sembravano gridare “fammi succhiare”.
E la cosa migliore? Questa volta i nostri occhi si sono incrociati. Non un caso, no. Mi ha guardato dritto e di nuovo si è leccata le labbra. Quella lingua mi ha sparato sangue nel cazzo più veloce di qualsiasi viagra.
La palestra puzzava di ferro, sudore e deodoranti da quattro soldi. Tutti quei ragazzetti a petto nudo che si specchiavano mentre sollevavano due manubri come se fossero culturisti da Olimpiadi. Io me ne sbattevo, avevo occhi solo per lei. Marina.
Il marito arrancava sul tapis roulant, già paonazzo dopo cinque minuti, sudava come un maiale al macello. Lei invece sembrava in passerella: top nero che non riusciva a contenere quelle tette da film porno anni ’90, leggings color carne che le entravano nella figa come una mano. Ogni passo, ogni piegamento, era pornografia allo stato puro.
Io mi piazzai vicino agli specchi, con un manubrio da venti chili giusto per non sembrare uno che stava lì solo a guardare. Ma la guardavo eccome. Lei si chinava per afferrare la bottiglia d’acqua, il culo alzato, teso, con quella fessura che mi chiamava. Poi si rialzava, fingeva di sistemarsi i capelli, e di nuovo la lingua sulle labbra. Una maledetta troia che sapeva benissimo cosa stava facendo a un vecchio arrapato come me.
Il cazzo mi pulsava dentro il costume da palestra. Ogni volta che si piegava, immaginavo di infilarle la testa giù e sbatterglielo in gola finché non avesse perso il respiro. E quando faceva squat, con quel culo che scendeva e risaliva lento, sudato, mi vedevo già dietro di lei a spaccarla in due.
Mi spostai alle macchine per le gambe, e lei venne a fare addominali a due metri da me. Distesa sul tappetino, il busto che si sollevava, il top che saliva mostrando pezzi di pelle liscia e sudata. Le tette rimbalzavano, fuori controllo, e io non sapevo più se guardarle o immaginare di stringerle tra le mani e morderle fino a farla urlare.
A un certo punto rimase sdraiata, la testa girata verso di me. Mi fissava con quegli occhi mezzi chiusi, lenti, e intanto aprì appena le gambe. Il costume bagnato sotto i leggings si era incollato all’inguine, segnando la fessura in modo così preciso che mi venne voglia di strapparglielo coi denti.
Cristo, mi stava provocando davanti a tutti. Col marito lì a dieci metri che manco si accorgeva di nulla.
Mi avvicinai alla rastrelliera dei pesi, proprio accanto a lei. Il cuore mi martellava, ma la mano mi tremava più per la voglia che per lo sforzo. Il suo odore, un misto di sudore e profumo dolce, mi entrava nelle narici. Lei mosse un dito lungo la coscia, fino quasi all’inguine, e poi lo ritrasse. Un gesto rapido, ma abbastanza per farmi perdere la testa.
In quel momento capii che era fatta: voleva essere guardata, toccata, posseduta.
E io ero pronto a darle tutto.
Alla fine, lei si alzò dal tappetino, il culo sudato che sembrava brillare sotto le luci. Raccolse l’asciugamano, bevve un sorso d’acqua e fece un cenno al marito, ancora rosso come un tacchino sul tapis roulant. Lui fece segno di no con la mano, troppo spompato per seguirla. Marina sorrise appena, quel sorriso che nascondeva un vaffanculo, e si avviò verso la zona relax.
Io non ci pensai due volte. La seguii, con il cazzo duro che spingeva contro i pantaloncini.
Aprii la porta della sauna e il calore mi investì. Dentro, il legno bollente, il vapore spesso come fumo. E lei, già seduta sul gradino più alto, con l’asciugamano sulle cosce e il costume nero che le si era incollato addosso. Le gocce le scivolavano dal collo tra le tette, scendevano sulla pancia piatta. Una visione da farmi uscire di testa.
Mi sedetti accanto a lei, fingendo indifferenza. «Non resiste il tuo uomo?» dissi, tanto per rompere il ghiaccio.
«Ha la pressione alta,» rispose lei, con quel tono lento che sembrava già un preliminare. Poi, inevitabile, la lingua che passava sulle labbra. Cristo, ogni volta che lo faceva mi sentivo svenire dal sangue che mi scendeva tutto in basso.
Il silenzio bruciava più del calore. Marina aprì appena le gambe sotto l’asciugamano, lasciando intravedere il costume bagnato. Il tessuto tirato, segnato, pronto a esplodere. Io allungai la mano sul suo ginocchio, piano. Lei non si mosse, anzi, spinse un po’ verso di me.
Spostai l’asciugamano e la trovai lì, le cosce lucide di sudore, il costume che disegnava la figa come una stampa. Ci passai sopra il palmo, lento, e lei buttò indietro la testa con un sospiro breve.
«Sei già fradicia,» le sussurrai all’orecchio.
Lei mi guardò, occhi socchiusi, e mi strinse il cazzo sopra il costume. Forte, senza vergogna.
«E tu sei già duro,» disse.
Mi infilai con le dita sotto l’elastico del suo costume e la trovai calda, bagnata, aperta. Lei gemette piano, il suono soffocato dal vapore. Mi venne voglia di scoparla lì, subito, di alzarla e sbatterla contro il muro di legno.
E mentre le dita affondavano in lei, la sua mano mi abbassò il costume quel tanto che bastava per liberarmi. Il mio cazzo duro, gonfio, pulsante, a un passo dalla sua figa che grondava calore.
Proprio in quell’istante, la porta si aprì.
Un fascio di luce tagliò il vapore e dentro entrarono una coppia, giovani, con gli asciugamani sulle spalle. Ridacchiavano, ignari, e si sistemarono sul gradino basso.
Io e Marina ci staccammo di colpo. Lei si aggiustò il costume, l’asciugamano sulle cosce, respirando forte ma fingendo calma. Io mi coprii in fretta con l’asciugamano, il cazzo ancora duro come pietra sotto.
La coppia parlava a voce bassa, senza badarci. Ma io sentivo il cuore che martellava, e la coscia di Marina che sfiorava la mia, appena, sotto il telo.
Uno sfioramento che diceva tutto: non è finita.
Appena uscimmo dalla sauna lei si dileguò. Io rimasi a ciondolare come un idiota, col cazzo ancora mezzo duro sotto l’asciugamano, lo sguardo che correva verso gli spogliatoi maschili e femminili, sperando di rivederla. Niente. Sparita. Né lei né il marito. Mi rivestii con la rabbia addosso, il cuore in gola e l’amaro in bocca.
Uscii fuori, col cielo che cominciava a imbrunire. Il parcheggio era mezzo vuoto. Ed eccola lì, in piedi vicino a una macchina. Una berlina grigia, anonima. Quando mi vide, sorrise come se mi stesse aspettando.
«Scusi…» disse con quella voce dolce e bastarda insieme. «Facendo manovra ho toccato la sua auto. Le stavo lasciando il numero per la constatazione amichevole.»
Mi porse un foglietto con un numero scritto in fretta. Io rimasi un attimo spiazzato. Quale auto? Io ero venuto a piedi, Cristo. Non possedevo neanche una macchina, mi muovevo con l’autobus e i miei scarponi.
Poi la vidi. La lingua. Quella maledetta lingua che le passava sulle labbra, lenta, avida. E lì capii: stava mentendo per darmi un segnale. Una troia raffinata, che usava la scusa dell’auto come paravento davanti al marito.
Presi il biglietto e finsi di guardare la macchina come se fosse mia, annuendo serio. «Ah, sì… grazie.»
Il marito era già al volante. Marina salì accanto a lui, mi lanciò un ultimo sguardo allo specchietto, e poi sparirono oltre il cancello del parcheggio.
Rimasi lì come un cretino, col foglietto in mano e il cuore che batteva come un tamburo. Camminai verso casa, a piedi, con l’eccitazione che mi faceva dimenticare i chilometri.
Aspettai mezz’ora. Poi presi il telefono e digitai quel numero.
«Pronto?» la sua voce, calda, bassa, un sussurro.
«Sono io, quello della palestra,» dissi, con il tono ruvido.
In sottofondo sentii la voce del marito che borbottava qualcosa. Marina urlò: «Sono al telefono con mia sorella! Non scocciare, devo uscire a prendere la medicina che mi serve!» Poi, di nuovo a me, abbassando la voce: «Dimmi.»
«Vieni da me.» Le diedi l’indirizzo, scandendo le parole.
«Aspettami.» La sua voce era un coltello: decisa, eccitata.
E chiuse la chiamata.
Io rimasi lì, con il cazzo duro come ferro, a guardare l’orologio e a contare i minuti che mi separavano dal suo arrivo.
Aspettai alla finestra, con la sigaretta spenta tra le dita e il cazzo già gonfio che premeva nei pantaloni. Quando vidi i fari dell’auto comparire nella strada buia, il cuore mi fece un salto. La macchina si fermò lenta, e ne uscì lei: Marina.
Aveva ancora addosso il costume sotto una felpa leggera, i capelli legati in fretta, la borsa da palestra a tracolla. Camminava verso il portone guardandosi intorno, nervosa ma decisa. Salì le scale e bussò una sola volta.
Aprii la porta senza dire niente. Ci fissammo. Lei si leccò le labbra. Quel gesto bastò a farmi dimenticare tutto: il marito, il parcheggio, le bugie. La tirai dentro di colpo, chiudendo la porta con un calcio.
«Cristo, ti aspettavo,» ringhiai.
Lei sorrise, quell’aria da troia che sa di avere il coltello dalla parte del manico. «Ho solo mezz’ora,» sussurrò, ma già si toglieva la felpa, lasciando che il costume nero, bagnato di sudore e vapore, venisse fuori. Le tette sembravano sul punto di scoppiare fuori dalle coppe.
Non la feci parlare oltre. La presi per i capelli e la spinsi contro il muro, la bocca sulla sua. La lingua mi entrò in gola come un coltello caldo. Le mani le andarono subito sul cazzo, lo strinse forte sopra i pantaloni, senza esitazione.
«Lo sapevo che eri una troia,» le ringhiai in faccia.
«E tu un vecchio porco che non vedeva l’ora,» rispose, mordendomi il labbro.
Le infilai la mano tra le cosce, sotto il costume. Era fradicia. Non di sudore, ma di voglia. La feci gemere spingendo due dita dentro di lei, forte, senza delicatezza. Marina mi graffiò la schiena con le unghie, ansimando come una cagna in calore.
«Scopami, Mario,» disse a mezza voce. «Fallo subito, prima che il coglione di mio marito si accorga che non sono a casa.»
Il sangue mi pulsava nelle tempie. Le abbassai il costume con uno strappo, fino a lasciarle il culo nudo. Lei allargò le gambe da sola, spalancata, col sorriso sporco stampato sulla faccia.
Mi abbassai i pantaloni, tirai fuori il cazzo duro, gonfio, e lo puntai contro la sua figa calda e bagnata. La penetrai con un colpo secco, brutale. Lei urlò, non di dolore ma di piacere, mordendosi la mano per non farsi sentire dai vicini.
«Troia,» le sussurrai all’orecchio, mentre la scopavo contro il muro, «lo sapevo dal primo sguardo che eri una pompinara che aspettava solo un cazzo vero.»
Lei gemeva, graffiava, rideva tra un ansito e l’altro. Ogni spinta era uno schianto di carne e sudore, e io mi sentivo vivo, più vivo che mai. Sessant’anni, e dentro quella fica bollente ero un dio.
Le sbattevo il culo contro il muro, le mani sulle sue tette che strabordavano dal costume mezzo strappato. Lei gemeva, mi graffiava le braccia, mi mordeva il collo. Il suono del mio cazzo che entrava e usciva da quella fica bagnata rimbombava nella stanza come schiaffi.
«Vecchio bastardo,» ansimava, «mi stai spaccando in due…»
«E tu sei nata per questo, troia,» le ringhiai, e affondai ancora più forte.
All’improvviso la girai, la piegai in avanti sul tavolo della cucina, il culo alzato, le gambe divaricate. Il costume le stava appeso a metà coscia, inutile, solo un ostacolo che la rendeva ancora più porca. Le allargai le chiappe con le mani e la penetrai di nuovo, questa volta con colpi secchi, profondi, fino a farla urlare.
«Cristo, sì!» gridò Marina, sbattendo i pugni sul tavolo. «Più forte!»
«Vuoi che ti rompa il culo, puttana?» le sibilai all’orecchio, spingendo ancora più dentro.
«Sì! Voglio che mi scopi finché non riesco più a camminare!»
Le infilai due dita in bocca, gliele feci succhiare. La guardavo da sopra, piegata, sudata, i capelli incollati al viso, le tette che ballavano a ogni spinta. Un’immagine da porno sporco, ma vera, viva, lì davanti a me.
A un certo punto si inginocchiò da sola, mi prese il cazzo con la mano e lo infilò nella sua bocca. E lì capii che avevo avuto ragione dal primo istante: era una pompinara nata. Succhiava profondo, inghiottiva senza fare una piega, la lingua che mi massaggiava tutto il cazzo. Le tenevo la testa con le mani, la guidavo, le davo colpi dentro fino alla gola. Gli occhi mi guardavano dal basso, lucidi, sporchi, mentre la saliva le colava sul mento.
«Così, brava troia,» la incitavo, «fammi vedere come lavori la bocca.»
Lei gemeva con il cazzo in gola, e quelle vibrazioni mi facevano impazzire.
La rialzai di scatto, la buttai sul divano e mi ci infilai sopra. Le gambe aperte, la figa fradicia, e io dentro di nuovo, senza respiro. Ogni spinta era più violenta della precedente, le nostre pelli sudate che scivolavano insieme, l’odore di sesso che impregnava la stanza.
«Non fermarti, Mario!» urlava. «Scopami fino a farmi svenire!»
«Non smetto finché non gridi che sei una puttana!»
«Sono una puttana!» gridò, graffiandomi la schiena. «Sono la tua puttana!»
Sentivo l’orgasmo montare, un’ondata che mi saliva dalla pancia. Continuai a spingerle dentro finché non esplosi, sborrando con violenza, riempiendola tutta. Lei urlò insieme a me, venne tremando, le unghie piantate nella mia pelle.
Rimanemmo lì, incollati, sudati, i respiri che si mescolavano. Poi lei si staccò, si rivestì in fretta, il costume umido, i capelli arruffati. Mi guardò con quel sorriso da troia soddisfatta, si leccò di nuovo le labbra e disse:
«Ci sentiamo presto. Ma ora devo tornare dal coglione.»
E uscì, lasciandomi col cazzo ancora mezzo duro e la testa che girava. Sessant’anni, e avevo appena scopato la moglie di un altro come se fossi un ventenne.
La prima volta che l’ho vista, quella gran fica di Marina, stava al centro commerciale, con la mano nella zampa rugosa del marito. Un vecchio babbo di minchia, gonfio, con l’aria da pensionato rincoglionito che non saprebbe infilarsi neanche in un buco per sbaglio. Lei, invece, era la classica botta di vita che ti fa dimenticare quanti anni hai sulle spalle: tuta nera aderente, il culo disegnato come un manifesto pornografico, le tette che rimbalzavano sotto la stoffa a ogni passo.
Io la fissavo senza ritegno, come un cane arrapato davanti all’osso. Speravo che girasse la testa, che mi sgamasse con gli occhi piantati sul culo. Non lo fece. Ma, Cristo, la vidi passarsi la lingua sulle labbra, lenta, bagnata. Non guardava me, guardava un cazzo di manichino in vetrina, ma io lo so quando una donna manda segnali: quella era roba da pompinara di razza. E lì mi immaginai già la sua bocca che scivolava su di me, lenta e a fondo, fino a farmi perdere i sensi.
Pensavo che fosse un colpo di fortuna, un’erezione da supermercato e basta. E invece il giorno dopo me la ritrovo in palestra. Una botta di culo che manco nei porno. Sempre col marito a traino, ma stavolta vestita per farmi uscire di testa: costume attillato sotto la maglietta, culo ancora più rotondo nei leggings color carne, tette che sembravano gridare “fammi succhiare”.
E la cosa migliore? Questa volta i nostri occhi si sono incrociati. Non un caso, no. Mi ha guardato dritto e di nuovo si è leccata le labbra. Quella lingua mi ha sparato sangue nel cazzo più veloce di qualsiasi viagra.
La palestra puzzava di ferro, sudore e deodoranti da quattro soldi. Tutti quei ragazzetti a petto nudo che si specchiavano mentre sollevavano due manubri come se fossero culturisti da Olimpiadi. Io me ne sbattevo, avevo occhi solo per lei. Marina.
Il marito arrancava sul tapis roulant, già paonazzo dopo cinque minuti, sudava come un maiale al macello. Lei invece sembrava in passerella: top nero che non riusciva a contenere quelle tette da film porno anni ’90, leggings color carne che le entravano nella figa come una mano. Ogni passo, ogni piegamento, era pornografia allo stato puro.
Io mi piazzai vicino agli specchi, con un manubrio da venti chili giusto per non sembrare uno che stava lì solo a guardare. Ma la guardavo eccome. Lei si chinava per afferrare la bottiglia d’acqua, il culo alzato, teso, con quella fessura che mi chiamava. Poi si rialzava, fingeva di sistemarsi i capelli, e di nuovo la lingua sulle labbra. Una maledetta troia che sapeva benissimo cosa stava facendo a un vecchio arrapato come me.
Il cazzo mi pulsava dentro il costume da palestra. Ogni volta che si piegava, immaginavo di infilarle la testa giù e sbatterglielo in gola finché non avesse perso il respiro. E quando faceva squat, con quel culo che scendeva e risaliva lento, sudato, mi vedevo già dietro di lei a spaccarla in due.
Mi spostai alle macchine per le gambe, e lei venne a fare addominali a due metri da me. Distesa sul tappetino, il busto che si sollevava, il top che saliva mostrando pezzi di pelle liscia e sudata. Le tette rimbalzavano, fuori controllo, e io non sapevo più se guardarle o immaginare di stringerle tra le mani e morderle fino a farla urlare.
A un certo punto rimase sdraiata, la testa girata verso di me. Mi fissava con quegli occhi mezzi chiusi, lenti, e intanto aprì appena le gambe. Il costume bagnato sotto i leggings si era incollato all’inguine, segnando la fessura in modo così preciso che mi venne voglia di strapparglielo coi denti.
Cristo, mi stava provocando davanti a tutti. Col marito lì a dieci metri che manco si accorgeva di nulla.
Mi avvicinai alla rastrelliera dei pesi, proprio accanto a lei. Il cuore mi martellava, ma la mano mi tremava più per la voglia che per lo sforzo. Il suo odore, un misto di sudore e profumo dolce, mi entrava nelle narici. Lei mosse un dito lungo la coscia, fino quasi all’inguine, e poi lo ritrasse. Un gesto rapido, ma abbastanza per farmi perdere la testa.
In quel momento capii che era fatta: voleva essere guardata, toccata, posseduta.
E io ero pronto a darle tutto.
Alla fine, lei si alzò dal tappetino, il culo sudato che sembrava brillare sotto le luci. Raccolse l’asciugamano, bevve un sorso d’acqua e fece un cenno al marito, ancora rosso come un tacchino sul tapis roulant. Lui fece segno di no con la mano, troppo spompato per seguirla. Marina sorrise appena, quel sorriso che nascondeva un vaffanculo, e si avviò verso la zona relax.
Io non ci pensai due volte. La seguii, con il cazzo duro che spingeva contro i pantaloncini.
Aprii la porta della sauna e il calore mi investì. Dentro, il legno bollente, il vapore spesso come fumo. E lei, già seduta sul gradino più alto, con l’asciugamano sulle cosce e il costume nero che le si era incollato addosso. Le gocce le scivolavano dal collo tra le tette, scendevano sulla pancia piatta. Una visione da farmi uscire di testa.
Mi sedetti accanto a lei, fingendo indifferenza. «Non resiste il tuo uomo?» dissi, tanto per rompere il ghiaccio.
«Ha la pressione alta,» rispose lei, con quel tono lento che sembrava già un preliminare. Poi, inevitabile, la lingua che passava sulle labbra. Cristo, ogni volta che lo faceva mi sentivo svenire dal sangue che mi scendeva tutto in basso.
Il silenzio bruciava più del calore. Marina aprì appena le gambe sotto l’asciugamano, lasciando intravedere il costume bagnato. Il tessuto tirato, segnato, pronto a esplodere. Io allungai la mano sul suo ginocchio, piano. Lei non si mosse, anzi, spinse un po’ verso di me.
Spostai l’asciugamano e la trovai lì, le cosce lucide di sudore, il costume che disegnava la figa come una stampa. Ci passai sopra il palmo, lento, e lei buttò indietro la testa con un sospiro breve.
«Sei già fradicia,» le sussurrai all’orecchio.
Lei mi guardò, occhi socchiusi, e mi strinse il cazzo sopra il costume. Forte, senza vergogna.
«E tu sei già duro,» disse.
Mi infilai con le dita sotto l’elastico del suo costume e la trovai calda, bagnata, aperta. Lei gemette piano, il suono soffocato dal vapore. Mi venne voglia di scoparla lì, subito, di alzarla e sbatterla contro il muro di legno.
E mentre le dita affondavano in lei, la sua mano mi abbassò il costume quel tanto che bastava per liberarmi. Il mio cazzo duro, gonfio, pulsante, a un passo dalla sua figa che grondava calore.
Proprio in quell’istante, la porta si aprì.
Un fascio di luce tagliò il vapore e dentro entrarono una coppia, giovani, con gli asciugamani sulle spalle. Ridacchiavano, ignari, e si sistemarono sul gradino basso.
Io e Marina ci staccammo di colpo. Lei si aggiustò il costume, l’asciugamano sulle cosce, respirando forte ma fingendo calma. Io mi coprii in fretta con l’asciugamano, il cazzo ancora duro come pietra sotto.
La coppia parlava a voce bassa, senza badarci. Ma io sentivo il cuore che martellava, e la coscia di Marina che sfiorava la mia, appena, sotto il telo.
Uno sfioramento che diceva tutto: non è finita.
Appena uscimmo dalla sauna lei si dileguò. Io rimasi a ciondolare come un idiota, col cazzo ancora mezzo duro sotto l’asciugamano, lo sguardo che correva verso gli spogliatoi maschili e femminili, sperando di rivederla. Niente. Sparita. Né lei né il marito. Mi rivestii con la rabbia addosso, il cuore in gola e l’amaro in bocca.
Uscii fuori, col cielo che cominciava a imbrunire. Il parcheggio era mezzo vuoto. Ed eccola lì, in piedi vicino a una macchina. Una berlina grigia, anonima. Quando mi vide, sorrise come se mi stesse aspettando.
«Scusi…» disse con quella voce dolce e bastarda insieme. «Facendo manovra ho toccato la sua auto. Le stavo lasciando il numero per la constatazione amichevole.»
Mi porse un foglietto con un numero scritto in fretta. Io rimasi un attimo spiazzato. Quale auto? Io ero venuto a piedi, Cristo. Non possedevo neanche una macchina, mi muovevo con l’autobus e i miei scarponi.
Poi la vidi. La lingua. Quella maledetta lingua che le passava sulle labbra, lenta, avida. E lì capii: stava mentendo per darmi un segnale. Una troia raffinata, che usava la scusa dell’auto come paravento davanti al marito.
Presi il biglietto e finsi di guardare la macchina come se fosse mia, annuendo serio. «Ah, sì… grazie.»
Il marito era già al volante. Marina salì accanto a lui, mi lanciò un ultimo sguardo allo specchietto, e poi sparirono oltre il cancello del parcheggio.
Rimasi lì come un cretino, col foglietto in mano e il cuore che batteva come un tamburo. Camminai verso casa, a piedi, con l’eccitazione che mi faceva dimenticare i chilometri.
Aspettai mezz’ora. Poi presi il telefono e digitai quel numero.
«Pronto?» la sua voce, calda, bassa, un sussurro.
«Sono io, quello della palestra,» dissi, con il tono ruvido.
In sottofondo sentii la voce del marito che borbottava qualcosa. Marina urlò: «Sono al telefono con mia sorella! Non scocciare, devo uscire a prendere la medicina che mi serve!» Poi, di nuovo a me, abbassando la voce: «Dimmi.»
«Vieni da me.» Le diedi l’indirizzo, scandendo le parole.
«Aspettami.» La sua voce era un coltello: decisa, eccitata.
E chiuse la chiamata.
Io rimasi lì, con il cazzo duro come ferro, a guardare l’orologio e a contare i minuti che mi separavano dal suo arrivo.
Aspettai alla finestra, con la sigaretta spenta tra le dita e il cazzo già gonfio che premeva nei pantaloni. Quando vidi i fari dell’auto comparire nella strada buia, il cuore mi fece un salto. La macchina si fermò lenta, e ne uscì lei: Marina.
Aveva ancora addosso il costume sotto una felpa leggera, i capelli legati in fretta, la borsa da palestra a tracolla. Camminava verso il portone guardandosi intorno, nervosa ma decisa. Salì le scale e bussò una sola volta.
Aprii la porta senza dire niente. Ci fissammo. Lei si leccò le labbra. Quel gesto bastò a farmi dimenticare tutto: il marito, il parcheggio, le bugie. La tirai dentro di colpo, chiudendo la porta con un calcio.
«Cristo, ti aspettavo,» ringhiai.
Lei sorrise, quell’aria da troia che sa di avere il coltello dalla parte del manico. «Ho solo mezz’ora,» sussurrò, ma già si toglieva la felpa, lasciando che il costume nero, bagnato di sudore e vapore, venisse fuori. Le tette sembravano sul punto di scoppiare fuori dalle coppe.
Non la feci parlare oltre. La presi per i capelli e la spinsi contro il muro, la bocca sulla sua. La lingua mi entrò in gola come un coltello caldo. Le mani le andarono subito sul cazzo, lo strinse forte sopra i pantaloni, senza esitazione.
«Lo sapevo che eri una troia,» le ringhiai in faccia.
«E tu un vecchio porco che non vedeva l’ora,» rispose, mordendomi il labbro.
Le infilai la mano tra le cosce, sotto il costume. Era fradicia. Non di sudore, ma di voglia. La feci gemere spingendo due dita dentro di lei, forte, senza delicatezza. Marina mi graffiò la schiena con le unghie, ansimando come una cagna in calore.
«Scopami, Mario,» disse a mezza voce. «Fallo subito, prima che il coglione di mio marito si accorga che non sono a casa.»
Il sangue mi pulsava nelle tempie. Le abbassai il costume con uno strappo, fino a lasciarle il culo nudo. Lei allargò le gambe da sola, spalancata, col sorriso sporco stampato sulla faccia.
Mi abbassai i pantaloni, tirai fuori il cazzo duro, gonfio, e lo puntai contro la sua figa calda e bagnata. La penetrai con un colpo secco, brutale. Lei urlò, non di dolore ma di piacere, mordendosi la mano per non farsi sentire dai vicini.
«Troia,» le sussurrai all’orecchio, mentre la scopavo contro il muro, «lo sapevo dal primo sguardo che eri una pompinara che aspettava solo un cazzo vero.»
Lei gemeva, graffiava, rideva tra un ansito e l’altro. Ogni spinta era uno schianto di carne e sudore, e io mi sentivo vivo, più vivo che mai. Sessant’anni, e dentro quella fica bollente ero un dio.
Le sbattevo il culo contro il muro, le mani sulle sue tette che strabordavano dal costume mezzo strappato. Lei gemeva, mi graffiava le braccia, mi mordeva il collo. Il suono del mio cazzo che entrava e usciva da quella fica bagnata rimbombava nella stanza come schiaffi.
«Vecchio bastardo,» ansimava, «mi stai spaccando in due…»
«E tu sei nata per questo, troia,» le ringhiai, e affondai ancora più forte.
All’improvviso la girai, la piegai in avanti sul tavolo della cucina, il culo alzato, le gambe divaricate. Il costume le stava appeso a metà coscia, inutile, solo un ostacolo che la rendeva ancora più porca. Le allargai le chiappe con le mani e la penetrai di nuovo, questa volta con colpi secchi, profondi, fino a farla urlare.
«Cristo, sì!» gridò Marina, sbattendo i pugni sul tavolo. «Più forte!»
«Vuoi che ti rompa il culo, puttana?» le sibilai all’orecchio, spingendo ancora più dentro.
«Sì! Voglio che mi scopi finché non riesco più a camminare!»
Le infilai due dita in bocca, gliele feci succhiare. La guardavo da sopra, piegata, sudata, i capelli incollati al viso, le tette che ballavano a ogni spinta. Un’immagine da porno sporco, ma vera, viva, lì davanti a me.
A un certo punto si inginocchiò da sola, mi prese il cazzo con la mano e lo infilò nella sua bocca. E lì capii che avevo avuto ragione dal primo istante: era una pompinara nata. Succhiava profondo, inghiottiva senza fare una piega, la lingua che mi massaggiava tutto il cazzo. Le tenevo la testa con le mani, la guidavo, le davo colpi dentro fino alla gola. Gli occhi mi guardavano dal basso, lucidi, sporchi, mentre la saliva le colava sul mento.
«Così, brava troia,» la incitavo, «fammi vedere come lavori la bocca.»
Lei gemeva con il cazzo in gola, e quelle vibrazioni mi facevano impazzire.
La rialzai di scatto, la buttai sul divano e mi ci infilai sopra. Le gambe aperte, la figa fradicia, e io dentro di nuovo, senza respiro. Ogni spinta era più violenta della precedente, le nostre pelli sudate che scivolavano insieme, l’odore di sesso che impregnava la stanza.
«Non fermarti, Mario!» urlava. «Scopami fino a farmi svenire!»
«Non smetto finché non gridi che sei una puttana!»
«Sono una puttana!» gridò, graffiandomi la schiena. «Sono la tua puttana!»
Sentivo l’orgasmo montare, un’ondata che mi saliva dalla pancia. Continuai a spingerle dentro finché non esplosi, sborrando con violenza, riempiendola tutta. Lei urlò insieme a me, venne tremando, le unghie piantate nella mia pelle.
Rimanemmo lì, incollati, sudati, i respiri che si mescolavano. Poi lei si staccò, si rivestì in fretta, il costume umido, i capelli arruffati. Mi guardò con quel sorriso da troia soddisfatta, si leccò di nuovo le labbra e disse:
«Ci sentiamo presto. Ma ora devo tornare dal coglione.»
E uscì, lasciandomi col cazzo ancora mezzo duro e la testa che girava. Sessant’anni, e avevo appena scopato la moglie di un altro come se fossi un ventenne.
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