Mario sessantenne – La moglie del fruttivendolo

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Mario sessantenne – La moglie del fruttivendolo
Sessant’anni e le abitudini non muoiono: ogni mattina vado al mercato a prendere due mele, quattro banane e un po’ di verdura. Ma da quando ci ha pensato il destino, il banco della frutta è diventato il mio vizio preferito. Perché dietro alle cassette di pesche e meloni c’è lei: la moglie del fruttivendolo. Quarant’anni portati come un invito al peccato. Fianchi larghi, culo pieno, tette che la canottiera non riesce a contenere. Sempre sudata, col grembiule legato in vita e il reggiseno che lascia i capezzoli tesi sotto la stoffa.
Io la guardo e mi immagino subito le sue mani che stringono un melone e il mio cazzo in mezzo, uguale.
Il marito è un omone che corre avanti e indietro: camioncino, fornitori, casse da scaricare. Sempre con la testa altrove. Lei invece resta dietro al banco, a servire. E quando mi vede arriva sempre quel mezzo sorriso sporco, come se sapesse cosa mi gira in testa.
«Mario!» mi chiama quella mattina. «Banane fresche, oggi. Belle dritte.»
E me le mostra, tenendole in mano come cazzi. Io rido, ma dentro sento il sangue che scende giù.
«Quelle mi piacciono,» le dico. «Dure, grosse… ci si fa colazione meglio che col latte.»
Lei abbassa lo sguardo, sorride, le guance che si colorano. Ma non smette di stringere la banana tra le mani, lenta, come se la accarezzasse. Io la fisso, senza ritegno.
La gente intorno compra, paga, non vede. Io però noto tutto. La canottiera incollata alla pelle, i capezzoli che premono, il sudore che le scivola tra le tette. Il grembiule le stringe i fianchi, ma la gonna corta si muove, lasciando intravedere la coscia bianca.
«E i meloni?» chiedo, tanto per provocare.
Lei prende due meloni dal cesto, li regge all’altezza del petto, proprio davanti alle sue tette enormi. «Li vuole duri o maturi?»
Io rido, ma la mia risata è un ringhio. «Maturi, così li succhio meglio.»
Lei mi guarda un attimo troppo a lungo. Quel silenzio sporco che vale più di mille parole.
Poi arriva il marito, sudato, bestemmia perché deve andare a scaricare altra roba. «Occhio al banco!» le urla, e se ne va di corsa.
Restiamo soli, tra cassette di frutta e odore di pesca matura. Lei finge di sistemare, ma si piega apposta, il culo alto sotto la gonna. Io non resisto: faccio un passo avanti e glielo appoggio, duro, contro la coscia.
Lei si blocca, non dice niente. Resta piegata, col respiro più veloce. Poi si gira, piano, e mi guarda con quegli occhi lucidi. Nessuna parola. Ma il messaggio è chiaro: il banco della frutta non è più solo un banco. È un invito.
Io sorrido. Ho capito che è fatta.
Torno a ora di pranzo, come ci siamo detti con uno sguardo. Il mercato è chiuso, le serrande abbassate. Busso al retro. Lei mi apre subito, canottiera sudata, la gonna corta, niente reggiseno. Dietro di noi, il silenzio del mercato addormentato; dentro, l’odore dolce e aspro di frutta matura e cassette di legno.
Non perdo tempo. Le afferro il fianco, la piego in avanti contro una pila di cassette. La gonna si solleva, le abbasso le mutande. La figa è calda, lucida… e rossa. Lei si volta a guardarmi, con un ghigno sporco.
«Ho il ciclo,» dice sottovoce, «ma se sei uomo non ti fermi.»
Io rido, con il cazzo già duro. «Meglio così. Almeno non resti incinta, troia.»
E glielo pianto dentro di colpo. Il sangue si mescola alla sua umidità, cola giù sulle cosce. Io spingo senza pietà, la tengo per i fianchi e la pompo sempre più forte. Lei geme, mordendo una mela che ha preso dalla cassetta per non urlare troppo.
All’improvviso si apre la porta del retro. Entra Hamed, il marocchino che dà una mano per pochi spicci, con lo straccio ancora in mano. Ci vede. Io che la scopo come un toro, lei piegata, la faccia stravolta. Penso che si coprirà, che urlerà. Invece alza la testa, guarda lui e dice:
«Chiudi la porta e vieni qui. Non guardarmi soltanto. Tiralo fuori.»
Io resto un attimo a bocca aperta. Hamed si avvicina piano, incerto. Lei si allunga con una mano, gli abbassa la zip. Il cazzo del marocchino è già duro. Se lo porta in faccia e comincia a succhiarlo come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Io non mollo il ritmo. Continuo a scoparla da dietro, sempre più forte, mentre lei succhia Hamed con la bocca piena. Ogni tanto geme, sputa saliva, poi torna a ingoiarlo tutto. Io spingo dentro di lei, sento la figa stringermi, il sangue e la sborrata che già monta.
«Troia,» ansimo, «ti piace fare il servizio doppio, eh?»
Lei solleva un attimo la testa dal cazzo di Hamed, con la bocca sporca di saliva e un filo di sangue sulle cosce, e sibila: «Siete due maiali… e io vi voglio tutti e due insieme. Più forte.» Poi torna a succhiare, con ancora più foga.
Io le afferro i capelli, la tiro indietro mentre la pompo senza sosta. Le cassette scricchiolano, le mele cadono a terra. L’odore di frutta spaccata si mescola al sudore, al sangue, al seme. È una bolgia, e io sto per esplodere.
La pompo dentro come un ossesso, il sangue mestruale che mi cola sulle cosce e fa un odore ferroso mescolato a quello dolce della frutta. Lei, piegata sulle cassette, con la bocca piena del cazzo di Hamed, geme come una cagna. Gli occhi chiusi, il respiro che arrancava, ma non smette di succhiare.
La guardo dall’alto e mi viene un pensiero sporco: quel culo è troppo largo per una sola spiegazione. È che ci si è già passato qualcun altro. E guardando il cazzo del marocchino capisco subito chi.
«Ah, così va la storia…» ringhio, stringendole i fianchi. «Ti fai aprire pure dal ragazzino nero, eh? È per questo che hai il culo largo come una tangenziale.»
Lei non smette un secondo. Si stacca dal cazzo di Hamed solo per sputarci sopra, guardarmi negli occhi e dire: «Siete due porci… ma non fermatevi. Spaccatemi tutta, più forte.»
Non me lo faccio ripetere. Tiro fuori il cazzo dalla figa insanguinata e, senza preavviso, glielo infilo nel buco del culo. Un colpo secco. Lei urla, il corpo proteso in avanti, e il cazzo di Hamed le entra fino in gola. Sembra soffocare, ma dopo un secondo torna a succhiare con ancora più foga, le lacrime agli occhi e la bava che le cola sul mento.
Io la tengo per i fianchi, le spingo nel culo a tutta forza. Sento le pareti strette che mi strizzano il cazzo. Lei si dimena, ma invece di scappare si butta indietro per prenderselo tutto. Davanti, Hamed le tiene la testa e glielo dà in bocca fino al fondo. È incastrata tra due cazzi, e gode come una bestia.
«Così!» grida con la bocca libera un attimo. «Più forte, maiali! Voglio che mi riempiate tutta!»
E allora andiamo come due forsennati. Io la scopo nel culo con spinte violente, Hamed le affonda in gola senza pietà. Le cassette cadono, le mele rotolano a terra. Lei morde una mela per soffocare i gemiti, poi torna a succhiare.
Il mio corpo trema. Sento la sborrata che monta come un uragano. Guardo Hamed: anche lui è sul punto. E succede. Io esplodo dentro il suo intestino, una scarica calda che la riempie tutta dietro. Lei strilla, e nello stesso istante Hamed le spara in bocca. Lei deglutisce, tossisce, ma non smette finché non l’ha succhiato tutto.
Restiamo così, sudati, sporchi, col pavimento pieno di frutta schiacciata, mele morse e succo che si mischia a sangue e sperma. Lei si accascia contro le cassette, con il culo ancora aperto e il viso sporco di sborrata, e ride. Una risata roca, senza vergogna.
«Adesso sapete come si serve la frutta al mercato,» dice, con la voce arrochita.
Io mi tiro su i pantaloni, ancora col cuore in gola. Sessant’anni, e ho appena pompato la moglie del fruttivendolo insieme a un marocchino che lavora a giornata.
scritto il
2025-10-07
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