Mario sessantenne – La vicina coreana
di
Mario1960
genere
corna
Mario sessantenne – La vicina coreana
Sessant’anni e vivo ancora come un cane randagio: sigarette, vino e cazzo in testa a comandare. Ma da quando sul mio pianerottolo sono arrivati i coreani, non c’è sera che non vada a letto duro.
Stanno proprio accanto: porta di fronte alla mia. Lui sempre in giacca, sempre di corsa, con quell’aria da manager del cazzo. Lei invece è sempre a casa, minuta, pelle bianca, occhi neri taglienti. Ha partorito da poco, e Cristo, che corpo. Due tette enormi, sproporzionate su quel fisico piccolo, gonfie di latte. Ogni volta che apre la porta per buttare la spazzatura mi arriva addosso l’immagine: il kimono che non regge, il tessuto macchiato all’altezza dei capezzoli. Latte che le scappa da solo. Io me lo immagino subito: infilare il cazzo tra quelle due bombe, scivolare bagnato dal suo stesso latte, sborrarle in faccia mentre succhio quei capezzoli gonfi.
La coreana mi fa diventare matto solo a guardarla.
Una sera, mentre sto fumando davanti alla tv, bussano alla porta. È lei, trafelata, scalza, il kimono bianco che le si apre sul petto.
«Signor Mario… per favore… lavatrice… acqua dappertutto…»
La voce bassa, un po’ rotta. Io la guardo e vedo lo scollo: i seni enormi che spuntano, i capezzoli scuri gonfi, il latte che le cola sul tessuto. Mi scende il sangue al cazzo in un colpo.
«E tuo marito?» le chiedo.
«Fuori lavoro. Torna molto tardi.»
Cristo, era come un invito scritto sul muro.
La seguo dentro casa. È identica alla mia: corridoio stretto, la cucina sulla destra, il bagno in fondo. Solo che qui l’aria sa di latte e detersivo, odore dolciastro che ti prende allo stomaco. In bagno la lavatrice sputa acqua sul pavimento. Mi inginocchio, chiudo il rubinetto. Lei si piega per raccogliere lo straccio. Il kimono si apre ancora: culo minuto, pelle liscia, e io che ce l’ho lì davanti. Non resisto: le appoggio una mano sul culo.
Si ferma. Non urla, non si scansa. Si gira, mi guarda dritto negli occhi. Quegli occhi neri che non dicono niente ma dicono tutto.
Io allungo la mano e le slaccio la cintura. Il kimono cade a terra. È nuda. Capezzoli grossi, gonfi di latte che già cola. Pancia piatta, cosce strette, la figa rasata che brilla.
Lei fa un passo avanti, si inginocchia senza dire una parola. Mi tira giù i pantaloni della tuta, prende il cazzo in mano. Con la sua manina minuta sembra ancora più grosso. Lo guarda un attimo e poi se lo mette in bocca.
Che pompino. La bocca calda, la lingua che gira, la gola che mi accoglie fino in fondo. Le spingo la testa, la guido. Le lacrime le colano agli occhi, la saliva le scende dal mento. Tossisce ma continua a succhiare, a ingoiare, a farmi vibrare il cazzo come non mi succedeva da anni.
«Brava troia,» le sibilo. «Succhia il cazzo al vicino, mentre tuo marito fa gli straordinari.»
Lei geme con la bocca piena, e quelle vibrazioni mi fanno impazzire. La tiro su, la porto in camera da letto, che è a due metri. La stanza è buia, solo la lampada accesa sul comodino. La butto sulla schiena, le gambe spalancate da sole. La figa è già bagnata, lucida. Ci infilo la lingua, le succhio il clitoride, lei urla piano, si piega tutta, mi graffia la testa.
Intanto le stringo le tette. Dure, gonfie, il latte che mi cola tra le dita. Ci passo la lingua, lo bevo, lo mischio con la saliva. Poi ci piazzo il cazzo in mezzo e comincio a spingere. Lei lo stringe, mi guarda e sorride. Latte e sperma che si mescolano, il cazzo che scivola tra quelle bombe.
«Così, sì,» ansimo. «È questo che volevo: scoparmi le tue tette piene di latte.»
Lei geme in coreano, non capisco, ma so che significa “continua”. Allora le scosto le gambe e glielo pianto dentro.
La figa è stretta come una morsa. Calda, viva. Lei urla, mi graffia le spalle, i capezzoli che spruzzano a ogni colpo. La prendo per i fianchi, la apro tutta, spingo come un toro. Ogni spinta fa scricchiolare il letto, il latte le cola sul petto e io ci infilo la bocca mentre continuo a scoparla.
La giro a pecora, il culo minuto in aria, glielo pianto dentro con violenza. Le tiro i capelli, le infilo due dita in bocca mentre la scopo da dietro. Lei succhia le dita, geme, la figa che mi strizza sempre più forte.
«Così, troietta,» le ringhio. «Ti apro in due davanti alla culla di tua figlia!»
Lei geme ancora più forte, come se quelle parole la facessero godere. Si torce, spinge indietro il culo per prendersi tutto. Io la scopo come un ossesso, sudato, il cuore che mi batte in gola.
Quando sento che sto per venire, la giro di nuovo, la metto a cavalcioni. Lei cavalca come una pazza, le tette che sbattono, il latte che cola sul mio petto. Mi stringe tra le mammelle mentre rimbalza sul cazzo. Io non resisto più, le afferro i fianchi, la tiro giù forte e mi svuoto dentro. Una sborrata calda che le riempie la figa. Lei urla, viene insieme a me, mi graffia il petto, tremando tutta.
Restiamo sudati, sporchi, l’odore di sesso e latte che impregna l’aria. Lei si scosta piano, prende il kimono, se lo rimette. Il tessuto bianco non nasconde niente: le tette gonfie che ancora colano, la fica che gocciola sperma. Mi guarda con gli occhi bassi, il respiro spezzato.
«Tuo marito non deve sapere niente,» le dico, accendendomi una sigaretta.
Lei annuisce. «Mai…»
Rido. «Abbiamo chiuso l’acqua della lavatrice, ma la prossima volta la lasciamo scorrere.»
Esco sul pianerottolo con il cazzo ancora mezzo duro, il fumo in bocca e la certezza che non era finita lì. Sessant’anni, e avevo appena pompato la mammina coreana del piano di fronte come una troia qualsiasi.
Sessant’anni e vivo ancora come un cane randagio: sigarette, vino e cazzo in testa a comandare. Ma da quando sul mio pianerottolo sono arrivati i coreani, non c’è sera che non vada a letto duro.
Stanno proprio accanto: porta di fronte alla mia. Lui sempre in giacca, sempre di corsa, con quell’aria da manager del cazzo. Lei invece è sempre a casa, minuta, pelle bianca, occhi neri taglienti. Ha partorito da poco, e Cristo, che corpo. Due tette enormi, sproporzionate su quel fisico piccolo, gonfie di latte. Ogni volta che apre la porta per buttare la spazzatura mi arriva addosso l’immagine: il kimono che non regge, il tessuto macchiato all’altezza dei capezzoli. Latte che le scappa da solo. Io me lo immagino subito: infilare il cazzo tra quelle due bombe, scivolare bagnato dal suo stesso latte, sborrarle in faccia mentre succhio quei capezzoli gonfi.
La coreana mi fa diventare matto solo a guardarla.
Una sera, mentre sto fumando davanti alla tv, bussano alla porta. È lei, trafelata, scalza, il kimono bianco che le si apre sul petto.
«Signor Mario… per favore… lavatrice… acqua dappertutto…»
La voce bassa, un po’ rotta. Io la guardo e vedo lo scollo: i seni enormi che spuntano, i capezzoli scuri gonfi, il latte che le cola sul tessuto. Mi scende il sangue al cazzo in un colpo.
«E tuo marito?» le chiedo.
«Fuori lavoro. Torna molto tardi.»
Cristo, era come un invito scritto sul muro.
La seguo dentro casa. È identica alla mia: corridoio stretto, la cucina sulla destra, il bagno in fondo. Solo che qui l’aria sa di latte e detersivo, odore dolciastro che ti prende allo stomaco. In bagno la lavatrice sputa acqua sul pavimento. Mi inginocchio, chiudo il rubinetto. Lei si piega per raccogliere lo straccio. Il kimono si apre ancora: culo minuto, pelle liscia, e io che ce l’ho lì davanti. Non resisto: le appoggio una mano sul culo.
Si ferma. Non urla, non si scansa. Si gira, mi guarda dritto negli occhi. Quegli occhi neri che non dicono niente ma dicono tutto.
Io allungo la mano e le slaccio la cintura. Il kimono cade a terra. È nuda. Capezzoli grossi, gonfi di latte che già cola. Pancia piatta, cosce strette, la figa rasata che brilla.
Lei fa un passo avanti, si inginocchia senza dire una parola. Mi tira giù i pantaloni della tuta, prende il cazzo in mano. Con la sua manina minuta sembra ancora più grosso. Lo guarda un attimo e poi se lo mette in bocca.
Che pompino. La bocca calda, la lingua che gira, la gola che mi accoglie fino in fondo. Le spingo la testa, la guido. Le lacrime le colano agli occhi, la saliva le scende dal mento. Tossisce ma continua a succhiare, a ingoiare, a farmi vibrare il cazzo come non mi succedeva da anni.
«Brava troia,» le sibilo. «Succhia il cazzo al vicino, mentre tuo marito fa gli straordinari.»
Lei geme con la bocca piena, e quelle vibrazioni mi fanno impazzire. La tiro su, la porto in camera da letto, che è a due metri. La stanza è buia, solo la lampada accesa sul comodino. La butto sulla schiena, le gambe spalancate da sole. La figa è già bagnata, lucida. Ci infilo la lingua, le succhio il clitoride, lei urla piano, si piega tutta, mi graffia la testa.
Intanto le stringo le tette. Dure, gonfie, il latte che mi cola tra le dita. Ci passo la lingua, lo bevo, lo mischio con la saliva. Poi ci piazzo il cazzo in mezzo e comincio a spingere. Lei lo stringe, mi guarda e sorride. Latte e sperma che si mescolano, il cazzo che scivola tra quelle bombe.
«Così, sì,» ansimo. «È questo che volevo: scoparmi le tue tette piene di latte.»
Lei geme in coreano, non capisco, ma so che significa “continua”. Allora le scosto le gambe e glielo pianto dentro.
La figa è stretta come una morsa. Calda, viva. Lei urla, mi graffia le spalle, i capezzoli che spruzzano a ogni colpo. La prendo per i fianchi, la apro tutta, spingo come un toro. Ogni spinta fa scricchiolare il letto, il latte le cola sul petto e io ci infilo la bocca mentre continuo a scoparla.
La giro a pecora, il culo minuto in aria, glielo pianto dentro con violenza. Le tiro i capelli, le infilo due dita in bocca mentre la scopo da dietro. Lei succhia le dita, geme, la figa che mi strizza sempre più forte.
«Così, troietta,» le ringhio. «Ti apro in due davanti alla culla di tua figlia!»
Lei geme ancora più forte, come se quelle parole la facessero godere. Si torce, spinge indietro il culo per prendersi tutto. Io la scopo come un ossesso, sudato, il cuore che mi batte in gola.
Quando sento che sto per venire, la giro di nuovo, la metto a cavalcioni. Lei cavalca come una pazza, le tette che sbattono, il latte che cola sul mio petto. Mi stringe tra le mammelle mentre rimbalza sul cazzo. Io non resisto più, le afferro i fianchi, la tiro giù forte e mi svuoto dentro. Una sborrata calda che le riempie la figa. Lei urla, viene insieme a me, mi graffia il petto, tremando tutta.
Restiamo sudati, sporchi, l’odore di sesso e latte che impregna l’aria. Lei si scosta piano, prende il kimono, se lo rimette. Il tessuto bianco non nasconde niente: le tette gonfie che ancora colano, la fica che gocciola sperma. Mi guarda con gli occhi bassi, il respiro spezzato.
«Tuo marito non deve sapere niente,» le dico, accendendomi una sigaretta.
Lei annuisce. «Mai…»
Rido. «Abbiamo chiuso l’acqua della lavatrice, ma la prossima volta la lasciamo scorrere.»
Esco sul pianerottolo con il cazzo ancora mezzo duro, il fumo in bocca e la certezza che non era finita lì. Sessant’anni, e avevo appena pompato la mammina coreana del piano di fronte come una troia qualsiasi.
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