Troietta
di
Giu!!!
genere
dominazione
Sarei stato la sua rovina. E lei, per me, solo un’altra notte da dimenticare. Un incastro di piacere e dolore. Una relazione di sesso e vuoto. Lei era una di quelle per cui vale la pena sfasciare un matrimonio, di gettare nel cesso tutti i legami. Dannata e bella, ma paragonata a me, era solo una rosa nel letame. Mi sentivo invincibile, il cazzo era la mia arma. Le fottevo tutte, quelle povere illuse che credevano di aver trovato qualcosa di vero o forse, lo dicevo a me stesso per non affogare nel rimorso di un ipocrita. Spesso ero io la preda, strano per un lupo.
Mi alzai dal suo letto sfatto, nella stanza troppo piccola di una un’università qualunque. Nell’aria c’era ancora l’odore denso del sesso, qualcosa di sudato e amaro. Girai nudo, cercando un bagno. Credevo fosse tardi, che il sole facesse ombra sui miei peccati, invece il cielo era ancora buio. Rientrai nella stanza. Lei dormiva nuda e quieta. Distesa di lato, la schiena scoperta, le gambe semiaperte. Il culo sembrava scolpito nel marmo. Quel genere di culo per cui si diventa dei schifosi depravati.
Presi il cazzo in mano, senza pensare. Movimenti lenti, viziosi. Avrei voluto intonacarle il culo di sborra ma… la svegliai. Volevo fottermela di nuovo. La coca pulsava ancora nel mio corpo.
Si voltò, mezza addormentata, mi guardò senza dire nulla con lo sguardo perso e il trucco sbavato. Poi venne a prenderlo in bocca. Come se fosse normale, come se non servissero parole. Aveva ragione lei.
La studentessa ci sapeva fare. Non era solo brava, era addestrata. Mi spompinava come se volesse svuotarmi l’anima, non solo le palle. Che troia. Aveva la maestria di chi ne aveva presi tanti cazzi e gli piaceva. Si muoveva come se sapesse esattamente cosa provocava, con quella lingua che sembrava una lama e una carezza assieme.
Il mio cazzo era un monumento, una colonna greca, eretta in onore del mio dominio o per la coca. L’importante che era duro per fotterla.
Mi sarei fatto volentieri una sega, le avrei sborrato il culo e sarei tornato a letto ma, quando lo prese in bocca l’idea svanì.
“Girati,” le dissi, con voce roca e senza pazienza.
Lei obbedì, ancora mezza addormentata, mettendosi a quattro zampe come una cagna fedele. Le infilai due dita tra le cosce: era già umida, o forse era una sborrata liquefatta nella sua figa. Le entrai dentro piano, ma solo per un attimo, per godermi quell’istante in cui tutto si tende e si apre. Poi iniziai a muovermi, senza grazia, senza sentimento. Solo il suono della pelle contro la pelle. Le mani sui suoi fianchi come a non volerla farla sfuggire, gemiti sotto tono e rassegnati. Io che la prendevo come una troia e lei che si lasciava prendere. Eppure non bastava. L’avevo scopata qualche ora prima, ora volevo di più o forse solo spezzarla. Premetti il mio pollice contro il suo ano, forte, spingendo a limite ed entrando. Lei si scostò, si irrigidì, gridò di no, ma non poteva fermarmi. E non mi fermai, del suo piacere non mi fregava nulla, pensavo solo al mio.
Le afferrai i capelli e la tirai a me, con forza, con foga. Il mio cazzo era ancora dentro di lei, e nel movimento, il suo corpo si inarcò come una lama piegata dal fuoco.
“Ti scopo il culo troia!” Non era una proposta, solo la mia sentenza.
Lei non rispose subito. Lasciò cadere un sospiro tra di noi, denso, umido. Io attendevo. Pretendevo una resa, una parola, un qualsiasi gesto, anche solo un sì accennato. Ma lei restò in silenzio. In quel silenzio c’era sfida, consenso, resistenza e invito. Quel silenzio era più potente di una supplica. Quel silenzio era benzina.
Mi disse: “se hai il coraggio, fallo!”
“Non mi serve ne coraggio ne consenso troietta!”
“Si, sono la tua troietta!”
Lo avevo sentito dire così tante volte che neppure mi eccitava più.
La lasciai andare solo un istante, giusto il tempo di sputarmi nel palmo, sul glande e lubrificarlo rudemente. Il mio pollice tornò li, a premere, a sondare quel buco di culo perfetto. Lei trattenne il fiato.
“Brava troietta!”
“Bastardo, fottimi e basta!”
“Oh, così ti voglio,” sibilai tra i denti. Le tirai i capelli e la portai a me nuovamente, le sussurrai all’orecchio le peggiori offese come se fossero la promessa di un piacere eterno.
Poi la spinsi in avanti, faccia contro il materasso e con l’altra mano divaricai le natiche.
Era stretta, calda e tristemente viva ed io troppo duro e spietato per avere pietà e pazienza. La penetrai con forza, centimetro dopo centimetro, ringhiando, sentendomi un dio conquistatore e profanatore.
Lei gemette, una melodia eccitante e ipnotizzante. Un suono soffocato tra dolore, resa e abbandono. Le tenni strette le anche e cominciai a sbatterla. Colpi brevi, ogni volta più profondi. Ogni spinta era la mia possessività, ogni suo ansimo un tributo all’uomo che la stava inculando. La stanza odorava nuovamente di sudore, peccato e dolore.
Infine, persi in controllo, estasiato dalla mia brutalità e dal suo corpo giovane e perfetto. Le afferrai le braccia da dietro e la inculai sempre più velocemente. Ogni spinta faceva tremare il letto e le sue urla diventavano un aiuto disperato. Gridava talmente forte da svegliare tutti nel dormitorio. Voci preoccupate e colpi alla porta. Io non risposi, continuai più violento, più dentro.
Fu lei ad urlare: “Ah, si! Fottimi il culo! Più forte, fottimi il culo…”
Poi risate e passi che si allontanavano. Restò solo il nostro delirio. La mia pelle che si fondeva nel sudore con la sua. La carne che sfidava carne. Il respiro che non bastava mai, almeno per me. E poi… Sborrai! Esplosi in lei, con lo sguardo perso nel vuoto. Le schiaffeggiai il culo con due colpi secchi, poi la spinsi in avanti, facendola crollare sul letto. Mi sdraiai accanto a lei, sborrando quel che restava, e le portai il glande colante alle labbra.
“Ripulisci troietta!”
Da brava studentessa, lo ripulì con la lingua, lenta e meticolosa. Assaporava la mia sborra come se quasi fosse un dovere o un onore. Lo spremette, uscirono gocce che pensavo di avere schizzato nel suo culo e sulla sua faccia. Poi si girò, tirò la coca sul comodino direttamente dall’unghia e si stese di nuovo. Io accesi una sigaretta. Il fumo salì, denso e morbido.
“Che bastardo che sei, fa malissimo.”
“Potevi fermarmi,” replicai.
“Ti saresti fermato?”
Non risposi, non sapevo che rispondere. Presi il telefono ignorando il suo insulto, chi dormiva più? Non mi dispiacevano per nulla quelle situazioni, queste situazioni in cui sguazzo. A quarant’anni, con moglie e figli, scoparmi ragazze universitarie non è uno scandalo ma una consuetudine. Un vizio al pari di fumare una sigaretta.
Ragazzine lucide e illuse, curiose, porche, viziate dal porno e da instagram. Vogliono scopare quarantenni per moda. Non mi giustifico e godo.
Pago il mutuo, porto i figli a scuola e dico “ti amo”.
Poi ricomincio con una giostra di scuse. Mi scopo queste ventenni che cercano una figura maschile autoritaria da odiare con l’orgasmo.
Mi alzai dal suo letto sfatto, nella stanza troppo piccola di una un’università qualunque. Nell’aria c’era ancora l’odore denso del sesso, qualcosa di sudato e amaro. Girai nudo, cercando un bagno. Credevo fosse tardi, che il sole facesse ombra sui miei peccati, invece il cielo era ancora buio. Rientrai nella stanza. Lei dormiva nuda e quieta. Distesa di lato, la schiena scoperta, le gambe semiaperte. Il culo sembrava scolpito nel marmo. Quel genere di culo per cui si diventa dei schifosi depravati.
Presi il cazzo in mano, senza pensare. Movimenti lenti, viziosi. Avrei voluto intonacarle il culo di sborra ma… la svegliai. Volevo fottermela di nuovo. La coca pulsava ancora nel mio corpo.
Si voltò, mezza addormentata, mi guardò senza dire nulla con lo sguardo perso e il trucco sbavato. Poi venne a prenderlo in bocca. Come se fosse normale, come se non servissero parole. Aveva ragione lei.
La studentessa ci sapeva fare. Non era solo brava, era addestrata. Mi spompinava come se volesse svuotarmi l’anima, non solo le palle. Che troia. Aveva la maestria di chi ne aveva presi tanti cazzi e gli piaceva. Si muoveva come se sapesse esattamente cosa provocava, con quella lingua che sembrava una lama e una carezza assieme.
Il mio cazzo era un monumento, una colonna greca, eretta in onore del mio dominio o per la coca. L’importante che era duro per fotterla.
Mi sarei fatto volentieri una sega, le avrei sborrato il culo e sarei tornato a letto ma, quando lo prese in bocca l’idea svanì.
“Girati,” le dissi, con voce roca e senza pazienza.
Lei obbedì, ancora mezza addormentata, mettendosi a quattro zampe come una cagna fedele. Le infilai due dita tra le cosce: era già umida, o forse era una sborrata liquefatta nella sua figa. Le entrai dentro piano, ma solo per un attimo, per godermi quell’istante in cui tutto si tende e si apre. Poi iniziai a muovermi, senza grazia, senza sentimento. Solo il suono della pelle contro la pelle. Le mani sui suoi fianchi come a non volerla farla sfuggire, gemiti sotto tono e rassegnati. Io che la prendevo come una troia e lei che si lasciava prendere. Eppure non bastava. L’avevo scopata qualche ora prima, ora volevo di più o forse solo spezzarla. Premetti il mio pollice contro il suo ano, forte, spingendo a limite ed entrando. Lei si scostò, si irrigidì, gridò di no, ma non poteva fermarmi. E non mi fermai, del suo piacere non mi fregava nulla, pensavo solo al mio.
Le afferrai i capelli e la tirai a me, con forza, con foga. Il mio cazzo era ancora dentro di lei, e nel movimento, il suo corpo si inarcò come una lama piegata dal fuoco.
“Ti scopo il culo troia!” Non era una proposta, solo la mia sentenza.
Lei non rispose subito. Lasciò cadere un sospiro tra di noi, denso, umido. Io attendevo. Pretendevo una resa, una parola, un qualsiasi gesto, anche solo un sì accennato. Ma lei restò in silenzio. In quel silenzio c’era sfida, consenso, resistenza e invito. Quel silenzio era più potente di una supplica. Quel silenzio era benzina.
Mi disse: “se hai il coraggio, fallo!”
“Non mi serve ne coraggio ne consenso troietta!”
“Si, sono la tua troietta!”
Lo avevo sentito dire così tante volte che neppure mi eccitava più.
La lasciai andare solo un istante, giusto il tempo di sputarmi nel palmo, sul glande e lubrificarlo rudemente. Il mio pollice tornò li, a premere, a sondare quel buco di culo perfetto. Lei trattenne il fiato.
“Brava troietta!”
“Bastardo, fottimi e basta!”
“Oh, così ti voglio,” sibilai tra i denti. Le tirai i capelli e la portai a me nuovamente, le sussurrai all’orecchio le peggiori offese come se fossero la promessa di un piacere eterno.
Poi la spinsi in avanti, faccia contro il materasso e con l’altra mano divaricai le natiche.
Era stretta, calda e tristemente viva ed io troppo duro e spietato per avere pietà e pazienza. La penetrai con forza, centimetro dopo centimetro, ringhiando, sentendomi un dio conquistatore e profanatore.
Lei gemette, una melodia eccitante e ipnotizzante. Un suono soffocato tra dolore, resa e abbandono. Le tenni strette le anche e cominciai a sbatterla. Colpi brevi, ogni volta più profondi. Ogni spinta era la mia possessività, ogni suo ansimo un tributo all’uomo che la stava inculando. La stanza odorava nuovamente di sudore, peccato e dolore.
Infine, persi in controllo, estasiato dalla mia brutalità e dal suo corpo giovane e perfetto. Le afferrai le braccia da dietro e la inculai sempre più velocemente. Ogni spinta faceva tremare il letto e le sue urla diventavano un aiuto disperato. Gridava talmente forte da svegliare tutti nel dormitorio. Voci preoccupate e colpi alla porta. Io non risposi, continuai più violento, più dentro.
Fu lei ad urlare: “Ah, si! Fottimi il culo! Più forte, fottimi il culo…”
Poi risate e passi che si allontanavano. Restò solo il nostro delirio. La mia pelle che si fondeva nel sudore con la sua. La carne che sfidava carne. Il respiro che non bastava mai, almeno per me. E poi… Sborrai! Esplosi in lei, con lo sguardo perso nel vuoto. Le schiaffeggiai il culo con due colpi secchi, poi la spinsi in avanti, facendola crollare sul letto. Mi sdraiai accanto a lei, sborrando quel che restava, e le portai il glande colante alle labbra.
“Ripulisci troietta!”
Da brava studentessa, lo ripulì con la lingua, lenta e meticolosa. Assaporava la mia sborra come se quasi fosse un dovere o un onore. Lo spremette, uscirono gocce che pensavo di avere schizzato nel suo culo e sulla sua faccia. Poi si girò, tirò la coca sul comodino direttamente dall’unghia e si stese di nuovo. Io accesi una sigaretta. Il fumo salì, denso e morbido.
“Che bastardo che sei, fa malissimo.”
“Potevi fermarmi,” replicai.
“Ti saresti fermato?”
Non risposi, non sapevo che rispondere. Presi il telefono ignorando il suo insulto, chi dormiva più? Non mi dispiacevano per nulla quelle situazioni, queste situazioni in cui sguazzo. A quarant’anni, con moglie e figli, scoparmi ragazze universitarie non è uno scandalo ma una consuetudine. Un vizio al pari di fumare una sigaretta.
Ragazzine lucide e illuse, curiose, porche, viziate dal porno e da instagram. Vogliono scopare quarantenni per moda. Non mi giustifico e godo.
Pago il mutuo, porto i figli a scuola e dico “ti amo”.
Poi ricomincio con una giostra di scuse. Mi scopo queste ventenni che cercano una figura maschile autoritaria da odiare con l’orgasmo.
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