Cruda verità
di
Giu!!!
genere
etero
Non era il sesso a tenerci uniti. Nemmeno la passione, né alcun sentimento riconoscibile.
Non era la noia, né l'abitudine, né il calcolo con cui si costruiscono vite che sembrano perfette.
A volte c’era qualcosa di indefinibile. Altre volte era qualcosa di più banale. Quella cosa era invisibile, eppure io la vedevo. La vedevo nelle mie relazioni, in quelle degli altri.
Una presenza che si confonde facilmente con la stanchezza, con il capriccio, con il bisogno di provare altro. Ma non era questo. Era paura. La paura di andare a fondo.
O forse, la paura di toccare il fondo. E così, io e lei eravamo questo: un nodo stretto di cose che la gente non vuole vedere. Non era una semplice traditrice, non una donna spinta solo dalla carne.
Lei era qualcosa di più. Era una paura che mi attraeva. Una crepa da cui potevo entrare. Io ero l’uomo nero. Quello che si nutre di donne come lei. Quello che non fa l’amore: le sfonda. Le attraversa a colpi di carne, fino a consumarle. Ma non era il sesso, no. Era il buio. Era la vertigine. E forse, era solo questo che cercavamo entrambi. Lei non era quella che diceva di non aver bisogno di uomini come me…
Ricordo quella sera. Mi scrivesti: "Dimmi quando sei vicino, ti lascio il portone aperto."
Entrai. Il tuo appartamento sapeva di candeggina e silenzi. Tutto in ordine, tutto immobile.
Odore di pavimenti puliti e solitudine repressa. Tranne te.
Tu, nota stonata in quell’ambiente così curato. Seduta tavolo del soggiorno, gambe incrociate, autoreggenti bianche, tacchi così alti voler raggiungere la salvezza.
Mi avvicinai. Sorriso da bambina che ha visto l’inferno. Mi spogliai.
Il tuo sguardo, calmo come il fuoco che precede l’incendio. Le dita che tamburellano sul tavolo come se chiamassero la guerra.
“Che vuoi esattamente?” ti chiesi.
“Voglio essere distrutta.”
“Distrutta da me? Lo faccio tutte le sere.”
“No,” dicesti.
“Voglio essere distrutta da ciò che si nasconde dietro di te.”
E in quel momento capii. Non volevi me. Volevi l’ombra. Quel lato sepolto da anni di volti senza volto. Il freddo sociopatico. Il drogato. Il mostro sessuale.
Ti dicevo che non eri come le altre. Non come quelle che cercano dolore per sentirsi vive:
corde, schiaffi, cazzi in gola fino a soffocare, e inculate fino a cagare sangue.
Ma tu non volevi dolore. Volevi verità. Volevi che il mio buio ti entrasse dentro,
e ti riscrivesse. Volevi che la mia ombra ti sfondasse nella figa e ti cambiasse per sempre. E io non ti evitavo per il tuo bene. Ti evitavo per il mio. Perché tu, scaldavi qualcosa che avevo dimenticato.
Tu scaldavi l’anima.
Quella sera non fu sesso. Fu esorcismo. Fu abisso. Due corpi che si uccidono per salvarsi. Due ombre che si riconoscono. Due ferite che si aprono, insieme.
Mi avvicinai, tu apristi le gambe ma io ti presi dal collo, strinsi così forte che portasti le tue mani, per un attimo provasti la sensazione più vicina alla morte.
“Masturbati puttana!” ti dissi. E tu obbedisti.
Tenevo il tuo collo nella mia morsa, leccavo i tuoi capezzoli turgidi mentre tu, toccavi la tua bellissima figa aperta. Diventava lucida, i tuoi umori scivolavano via.
“Sei sicura di volere andare oltre?”
“Si”
Ti feci cadere a terra e ti penetrai senza dire nulla, senza dolcezza, solo carne. Ti scopai forte, tu gemevi.
Mi graffiavi, mi sussurrasti: “più forte, fammi male, scopami come una puttana”
Ti presi come volevi. Come una puttana, come una cosa mia. Ti tenevo a terra, contro il pavimento freddo, i tuoi gemiti sporchi, feroci. Ti sbattevo dentro con tutta la rabbia che avevo addosso.
Tu urlavi mi sputavi addosso. “Cazzo. Sfondami.” E io lo feci. Ma qualcosa cambiò. Ti guardai in faccia. Vidi una crepa: all’interno una fragilità che non avevo mai visto. Una frazione di secondo. Stavi recitando. Vidi che non cercavi godimento. Volevi sparire. Ti stavo scopando per farti sentire viva, ma in quel momento capii che non volevi vivere. Volevi essere vista. Mi fermai, senza uscire da te. Tu ansimavi. Mi guardasti con odio.
“Perché ti fermi?” Ti presi la faccia tra le mani, ancora dentro di te. Ma non ti muovevo più.Solo ti guardavo.
E tu, piano, come un animale ferito, hai smesso di graffiarmi.Hai respirato.
Una, due volte.
E poi hai detto, a voce bassissima: “non fermarti.”
Allora iniziai a scoparti di nuovo. Ma diverso. Stesso ritmo, stessa forza. Ma non più per cancellarti.
Per scriverti. Ti prendevo come prima, ma non per usarti. Per restare con te. Ti scopavo mentre ti baciavo, mentre ti stringevo, mentre ti ascoltavo. Mentre ti sentivo crollare sotto di me, e rialzarti. Le tue gambe mi afferravano come se stessi cadendo. E forse sì. Stavamo cadendo. Ma insieme. Nessuno parlava. Solo pelle, solo sudore. Solo io dentro di te. Noi.
E in quel momento, ho capito che non ti stavo scopando più. Ti stavo amando.
Alla mia maniera. Alla nostra. Cruda. Violenta. Vera. Esattamente come la vita.
Quando sentii che era il momento, ti presi tra le braccia.
Senza fretta, ti sollevai e ti portai via da quel pavimento, verso un rifugio più caldo: la tua camera da letto. Lì, tra le lenzuola morbide, la nostra intimità si fece e consapevole.
Ogni carezza, ogni sguardo, era una promessa non detta, un abbraccio silenzioso.
Ci muovevamo insieme, seguendo un ritmo che era solo nostro, intenso. Continuavo a scoparti più uniti che mai e quando venni, rimanemmo abbracciati, i cuori ancora tremanti, respirando la stessa aria, con la certezza di aver trovato qualcosa di vero.
Non era la noia, né l'abitudine, né il calcolo con cui si costruiscono vite che sembrano perfette.
A volte c’era qualcosa di indefinibile. Altre volte era qualcosa di più banale. Quella cosa era invisibile, eppure io la vedevo. La vedevo nelle mie relazioni, in quelle degli altri.
Una presenza che si confonde facilmente con la stanchezza, con il capriccio, con il bisogno di provare altro. Ma non era questo. Era paura. La paura di andare a fondo.
O forse, la paura di toccare il fondo. E così, io e lei eravamo questo: un nodo stretto di cose che la gente non vuole vedere. Non era una semplice traditrice, non una donna spinta solo dalla carne.
Lei era qualcosa di più. Era una paura che mi attraeva. Una crepa da cui potevo entrare. Io ero l’uomo nero. Quello che si nutre di donne come lei. Quello che non fa l’amore: le sfonda. Le attraversa a colpi di carne, fino a consumarle. Ma non era il sesso, no. Era il buio. Era la vertigine. E forse, era solo questo che cercavamo entrambi. Lei non era quella che diceva di non aver bisogno di uomini come me…
Ricordo quella sera. Mi scrivesti: "Dimmi quando sei vicino, ti lascio il portone aperto."
Entrai. Il tuo appartamento sapeva di candeggina e silenzi. Tutto in ordine, tutto immobile.
Odore di pavimenti puliti e solitudine repressa. Tranne te.
Tu, nota stonata in quell’ambiente così curato. Seduta tavolo del soggiorno, gambe incrociate, autoreggenti bianche, tacchi così alti voler raggiungere la salvezza.
Mi avvicinai. Sorriso da bambina che ha visto l’inferno. Mi spogliai.
Il tuo sguardo, calmo come il fuoco che precede l’incendio. Le dita che tamburellano sul tavolo come se chiamassero la guerra.
“Che vuoi esattamente?” ti chiesi.
“Voglio essere distrutta.”
“Distrutta da me? Lo faccio tutte le sere.”
“No,” dicesti.
“Voglio essere distrutta da ciò che si nasconde dietro di te.”
E in quel momento capii. Non volevi me. Volevi l’ombra. Quel lato sepolto da anni di volti senza volto. Il freddo sociopatico. Il drogato. Il mostro sessuale.
Ti dicevo che non eri come le altre. Non come quelle che cercano dolore per sentirsi vive:
corde, schiaffi, cazzi in gola fino a soffocare, e inculate fino a cagare sangue.
Ma tu non volevi dolore. Volevi verità. Volevi che il mio buio ti entrasse dentro,
e ti riscrivesse. Volevi che la mia ombra ti sfondasse nella figa e ti cambiasse per sempre. E io non ti evitavo per il tuo bene. Ti evitavo per il mio. Perché tu, scaldavi qualcosa che avevo dimenticato.
Tu scaldavi l’anima.
Quella sera non fu sesso. Fu esorcismo. Fu abisso. Due corpi che si uccidono per salvarsi. Due ombre che si riconoscono. Due ferite che si aprono, insieme.
Mi avvicinai, tu apristi le gambe ma io ti presi dal collo, strinsi così forte che portasti le tue mani, per un attimo provasti la sensazione più vicina alla morte.
“Masturbati puttana!” ti dissi. E tu obbedisti.
Tenevo il tuo collo nella mia morsa, leccavo i tuoi capezzoli turgidi mentre tu, toccavi la tua bellissima figa aperta. Diventava lucida, i tuoi umori scivolavano via.
“Sei sicura di volere andare oltre?”
“Si”
Ti feci cadere a terra e ti penetrai senza dire nulla, senza dolcezza, solo carne. Ti scopai forte, tu gemevi.
Mi graffiavi, mi sussurrasti: “più forte, fammi male, scopami come una puttana”
Ti presi come volevi. Come una puttana, come una cosa mia. Ti tenevo a terra, contro il pavimento freddo, i tuoi gemiti sporchi, feroci. Ti sbattevo dentro con tutta la rabbia che avevo addosso.
Tu urlavi mi sputavi addosso. “Cazzo. Sfondami.” E io lo feci. Ma qualcosa cambiò. Ti guardai in faccia. Vidi una crepa: all’interno una fragilità che non avevo mai visto. Una frazione di secondo. Stavi recitando. Vidi che non cercavi godimento. Volevi sparire. Ti stavo scopando per farti sentire viva, ma in quel momento capii che non volevi vivere. Volevi essere vista. Mi fermai, senza uscire da te. Tu ansimavi. Mi guardasti con odio.
“Perché ti fermi?” Ti presi la faccia tra le mani, ancora dentro di te. Ma non ti muovevo più.Solo ti guardavo.
E tu, piano, come un animale ferito, hai smesso di graffiarmi.Hai respirato.
Una, due volte.
E poi hai detto, a voce bassissima: “non fermarti.”
Allora iniziai a scoparti di nuovo. Ma diverso. Stesso ritmo, stessa forza. Ma non più per cancellarti.
Per scriverti. Ti prendevo come prima, ma non per usarti. Per restare con te. Ti scopavo mentre ti baciavo, mentre ti stringevo, mentre ti ascoltavo. Mentre ti sentivo crollare sotto di me, e rialzarti. Le tue gambe mi afferravano come se stessi cadendo. E forse sì. Stavamo cadendo. Ma insieme. Nessuno parlava. Solo pelle, solo sudore. Solo io dentro di te. Noi.
E in quel momento, ho capito che non ti stavo scopando più. Ti stavo amando.
Alla mia maniera. Alla nostra. Cruda. Violenta. Vera. Esattamente come la vita.
Quando sentii che era il momento, ti presi tra le braccia.
Senza fretta, ti sollevai e ti portai via da quel pavimento, verso un rifugio più caldo: la tua camera da letto. Lì, tra le lenzuola morbide, la nostra intimità si fece e consapevole.
Ogni carezza, ogni sguardo, era una promessa non detta, un abbraccio silenzioso.
Ci muovevamo insieme, seguendo un ritmo che era solo nostro, intenso. Continuavo a scoparti più uniti che mai e quando venni, rimanemmo abbracciati, i cuori ancora tremanti, respirando la stessa aria, con la certezza di aver trovato qualcosa di vero.
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