Lucia 5

di
genere
prime esperienze

Fa caldo.
Un caldo che s’incolla al corpo come la bava di un uomo dopo che ti è venuto addosso.
Un caldo che puzza di letame, di galline, di sudore e di pelle.
E io, in mezzo a tutto questo schifo, ci sto bene.
La gonna che indosso è leggera, vecchia, l’ho messa apposta. Niente mutande.
Il tessuto si appiccica alle cosce nude, al sesso nudo, e ogni passo è uno sfregamento lento, voluto.
Mi dondolo mentre cammino. Piano. Lo so che mi guardano. Tutti. Sempre. Ma oggi è diverso.
Oggi ho deciso di abbassare gli occhi. Fingere timidezza. Occhi bassi, bocca chiusa. Come una brava e innocente ragazza di campagna.
Fumo una sigaretta, ma non la finisco. La tengo tra le dita solo per leccare il filtro con la punta della lingua, con gesto lento, molle, da porca in preghiera.
Bortolo mi osserva. Lo sento, anche se sta girato. Sta fingendo di legare una balla di fieno, ma ha gli occhi che mi spogliano. Mi ha già presa una volta. Nella stalla, con le mutande intorno alle caviglie e il fiato grosso. Ora non mi parla. Non osa. Gli è rimasto addosso l’odore della mia pelle e il terrore che non gli basti più.
Mi piace. Mi piace l’idea che mi abbia avuta e ora non sappia come gestirmi. Mi piace sapere che il suo cazzo si sveglia appena sente i miei passi.
E mi piace far finta di niente. Occhi bassi, faccia seria, finta distrazione.
Intanto penso al suo cazzo, che ieri ho disegnato nella mente mentre venivo con le dita in bocca.
Poi sento il rumore. Un motore. Ma non come quelli soliti. Non il trattore. Non la Panda sgangherata di mia madre. È un suono liscio, rotondo. Una macchina che non dovrebbe sporcarsi con la polvere della nostra aia.
Un SUV. Nero. Lucido. Si ferma lento, come se non volesse far rumore. Dentro ci sono due uomini.
Uno scende per primo. Giovane, pettinato, troppo liscio per questo mondo. Mocassini beige. Camicia bianca stirata. Sembra uno che se si sporca le mani le cambia. Ma ha gli occhi scuri.
E io li vedo. Mi guarda. Mi guarda come si guarda una figa ben rasata in un film porno.
L’altro scende dopo. Vecchio. Ma non sfatto. Adelmo Ferrarini. Il padrone. Lo so già chi è.
Lo riconosco anche senza presentazioni. Ha il fisico di uno che comanda con lo sguardo. La voce non serve. Le mani grosse. Le vene sulle braccia. I peli che escono dalla camicia aperta.
Puzza di sigaro e soldi.
Io abbasso gli occhi. Fingo di sistemarmi la gonna. In realtà voglio solo far intravedere la pelle, quel punto tra la coscia e la figa dove la luce s’infila e diventa segreto.
Bortolo si alza, va incontro a loro col cappello in mano. Fa il servo. Come se non fosse quello che una settimana fa mi sbatteva nella stalla con le mani sulle anche.
«Lucia!» mi chiama, ma la voce gli trema.
Io mi avvicino. Passi piccoli. Testa bassa.
Li sento addosso. Tre sguardi. Tre maschi. Tre cazzi che pensano.
Bortolo che mi ha già sentita godere. Adelmo che sa che mi sentirà. E il figlio, Nicola, che prega di potermi sentire un giorno.
Sono nel mezzo. E so di piacere. Perché ho la pelle lucida, la bocca socchiusa, i capezzoli duri sotto la stoffa. E tengo gli occhi bassi.
Timida. Il cazzo. Dentro sto urlando.
Sto dicendo: guardatemi mentre apro le gambe.
«Lucia,» dice Adelmo. «Piacere. Io sono Adelmo Ferrarini. Questo è mio figlio, Nicola.»
Stringo la mano. La tengo molle. Poi stringo piano. Umida. Calda. Un po’ di più. Un secondo in più. Quanto basta perché senta il mio sudore. La mia temperatura. Il mio invito.
«Lucia,» ripeto. Occhi bassi. Ma la voce ferma.
«Un nome che si ricorda.»
«Anche altro si può ricordare, se si guarda bene.»
Non mi risponde. Ma mi scruta.
Gli occhi passano sulle tette. Le seguono. Scendono. Tornano su. Si fermano sulla bocca.
Io lecco piano il labbro superiore. Ma faccio finta di farlo per caso.
Nicola si sistema la cintura. Sta in silenzio. Ma ha il cazzo duro. Lo so. Lo so perché lo vedo respirare male. Si gratta il collo.
Ha paura che il padre lo veda guardarmi come mi guarda.
«Sto cercando una domestica per la casa padronale,» dice Adelmo.
«Una casa grande. Troppo grande per uno solo. Serve qualcuno che ci sappia stare dentro… senza rompere i coglioni.»
Ride.
Io abbasso lo sguardo. Timida. Come se la parola “coglioni” mi scandalizzasse. Invece mi inumidisce. Penso a quella casa. Alle lenzuola stirate. Alla cucina. Al letto grande. Ai gradini di marmo dove mi inginocchierò a succhiarlo.
Mi parla di lavoro, ma non è lavoro. È un invito. È un modo per dire: vieni a farti aprire le cosce dove non c’è nessuno che guarda.
«Se ti va, vieni a vedere la casa. Poi decidi.»
Lo dice senza sorriso.
Non è una proposta. È una certezza.
«Sì, signore,» mormoro.
La voce bassa, gli occhi bassi.
Ma dentro urlo: Sì, vengo. Vengo in tutti i sensi.
Nicola mi guarda. Mi spoglia. Ha la bocca aperta appena. Io la socchiudo anch’io. Fingo di mordere le labbra. Piano.
Bortolo non dice nulla. Ma fuma. Ammucchia la rabbia nella gola.
Mi ha già vista inginocchiata, urlante, piena. Ora mi guarda e sa che sto per fare lo stesso… ma con chi comanda lui.
La macchina riparte. Polvere. Silenzio. Calore. Resto lì. Con la figa bagnata. Le gambe molli. E la testa piena di immagini.
Penso a Adelmo che mi schiaccia sul tavolo della cucina. Alla sua mano che mi afferra per il collo. Al cazzo che entra, lento, grosso, e non si ferma. A Nicola che guarda da dietro la porta. Con le mani in tasca e la bocca che trema. Penso a me che li faccio venire entrambi, uno per volta, a comando.
Penso. E già mi bagno di nuovo.
scritto il
2025-09-19
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