Lucia 4
di
LuciaEmiliana
genere
prime esperienze
La verità è che non riesco più a dormire.
Da quando ho visto mia madre inginocchiata davanti a quella vecchia bastarda e Bortolo che la sfondava da dietro come un toro, non mi funziona più niente.
Il cibo mi fa schifo. Le mani non mi bastano. I sogni sono marci.
Ho i pensieri incastrati sotto pelle.
Mi basta chiudere gli occhi per sentire ancora il rumore secco dei colpi, le risate sorde della moglie mezza morta, il fiato grosso di mia madre che godeva come una vacca piena.
E adesso sono qui.
Davanti alla stalla.
È sabato. La nebbia si è alzata, l’aria sa di terra e di ferro. Ho il cuore che batte nelle orecchie.
Non ho messo le mutande. Voglio che se ne accorga.
Lo trovo dietro il carro, piegato a controllare la ruota posteriore.
La camicia aperta sul petto peloso. Il fianco sporco di grasso. I pantaloni larghi, tenuti su da una cintura logora.
Quando si raddrizza, si toglie il berretto e si asciuga la fronte con l’avambraccio. Poi mi guarda.
«Tua madre sa che sei qui?»
«No.»
«E la vecchia?»
«Non mi interessano né l’una né l’altra.»
Lui mi squadra da cima a fondo.
«Sei venuta a giocare?»
«Sono venuta a godere.»
Il silenzio che segue è denso, ruvido.
I suoi occhi si fanno stretti.
Cammina verso di me.
Il terreno scricchiola sotto i suoi scarponi.
Quando mi è davanti, allunga una mano e mi afferra il mento.
«Sai quanto sei piccola?»
«Abbastanza per starci tutta.»
Mi sputa addosso.
Non sul viso, non sulla bocca. Ma sul collo.
Caldo, salato, animalesco.
Non è odio. È possesso.
«Se adesso ti spoglio, non fiati.»
«Spogliami.»
Le sue mani mi strappano la maglietta. Le cuciture cedono, i bottoni saltano.
Mi rimane addosso solo la pelle.
Quando si accorge che sotto la gonna non ho nulla, sorride. Un ghigno di lupo.
«Lo sai che non ti farò nessuna carezza, vero?»
«Lo spero.»
Mi sbatte contro il portone della stalla. Il legno è ruvido, le assi mi graffiano la schiena.
Mi alza la gonna e me la infila in bocca.
«Mordi. E stai zitta.»
Mi infila due dita dentro, senza chiedere, senza rallentare.
Affondo il viso contro il legno e lascio che il corpo parli al posto mio.
Sono bagnata. Più di quanto credevo.
Sento le sue dita scavarmi, premere, dilatare.
Quando le tira fuori, me le fa vedere. Lucide, viscide, grondanti.
«Guardati. Sei già tutta mia.»
Poi si apre i pantaloni.
Il rumore della zip è un colpo di frusta.
Esce.
E io lo guardo.
È grosso. Grosso e duro. Come nei miei sogni peggiori.
Ma qui non si sogna. Qui si prende.
Mi gira. Mi piega.
Le mani sulle mie anche, forti, strette. Mi sistema in posizione come si sistema una bestia prima di scannarla.
«Se mi dici di no adesso, ti lascio andare.»
«Prova a fermarti e ti mordo il cazzo.»
Il primo colpo è brutale.
Mi fa urlare, ma ho la gonna in bocca.
Il secondo mi scuote fino allo stomaco.
Il terzo mi fa sbattere la testa contro il legno.
Lui spinge. Spinge con tutto il corpo. Il suo ventre sbatte contro il mio culo. Le sue mani mi tengono ferma, mi affondano le dita nella carne, mi fanno male.
Ogni colpo è una ferita. Ogni affondo è una resa.
Non sono io, non più. Sono carne. Sono umore. Sono un buco pieno.
«Non sei tua madre» sussurra.
«No. Io sono peggio.»
Mi tira i capelli, mi tira su la testa. Vuole sentire la mia voce. Ma io non parlo. Mi limito a spingere indietro il bacino.
Il suo cazzo entra fino al fondo. Mi scava. Mi spezza. Mi riempie.
Poi mi gira.
Mi afferra sotto le cosce, mi solleva e mi porta dentro la stalla.
Mi butta sopra una balla di fieno.
La paglia punge. Il corpo mi brucia. Il sudore mi cola tra le tette.
Sopra di me, lui si spoglia del tutto. Il petto largo, le cicatrici vecchie, il ventre gonfio.
Mi apre le gambe con forza, senza riguardo.
Si stende su di me. Il suo peso mi toglie il fiato.
Quando rientra, è come un’esplosione.
Le pareti della stalla tremano. Il fieno vola. Le galline scappano.
Io stringo le braccia attorno al suo collo e gli mordo la spalla.
Mi spacca.
Mi sbatte.
Mi prende.
Ogni volta che entra, la carne si tende.
Ogni volta che esce, la pelle resta vuota.
Veniamo insieme.
Un urlo che non è voce, non è suono: è carne che si spezza.
Resto sotto di lui, piena, aperta, stanca.
Il suo seme mi cola lungo le cosce.
Mi sento sudata, graffiata, umiliata.
Eppure mi sento anche viva.
Più viva di quanto sia mai stata.
Si alza, si riveste.
Mi lancia una maglietta vecchia.
Io me la infilo, ancora nuda sotto.
Mi alzo a fatica, le gambe molli, il ventre che pulsa.
«Lo rifaremo?» chiedo.
Lui mi guarda, serio.
«Lo rifaremo finché non ti spezzo.»
«Allora spera che io non ti spezzi prima.»
Esco dalla stalla zoppicando.
Segue
Da quando ho visto mia madre inginocchiata davanti a quella vecchia bastarda e Bortolo che la sfondava da dietro come un toro, non mi funziona più niente.
Il cibo mi fa schifo. Le mani non mi bastano. I sogni sono marci.
Ho i pensieri incastrati sotto pelle.
Mi basta chiudere gli occhi per sentire ancora il rumore secco dei colpi, le risate sorde della moglie mezza morta, il fiato grosso di mia madre che godeva come una vacca piena.
E adesso sono qui.
Davanti alla stalla.
È sabato. La nebbia si è alzata, l’aria sa di terra e di ferro. Ho il cuore che batte nelle orecchie.
Non ho messo le mutande. Voglio che se ne accorga.
Lo trovo dietro il carro, piegato a controllare la ruota posteriore.
La camicia aperta sul petto peloso. Il fianco sporco di grasso. I pantaloni larghi, tenuti su da una cintura logora.
Quando si raddrizza, si toglie il berretto e si asciuga la fronte con l’avambraccio. Poi mi guarda.
«Tua madre sa che sei qui?»
«No.»
«E la vecchia?»
«Non mi interessano né l’una né l’altra.»
Lui mi squadra da cima a fondo.
«Sei venuta a giocare?»
«Sono venuta a godere.»
Il silenzio che segue è denso, ruvido.
I suoi occhi si fanno stretti.
Cammina verso di me.
Il terreno scricchiola sotto i suoi scarponi.
Quando mi è davanti, allunga una mano e mi afferra il mento.
«Sai quanto sei piccola?»
«Abbastanza per starci tutta.»
Mi sputa addosso.
Non sul viso, non sulla bocca. Ma sul collo.
Caldo, salato, animalesco.
Non è odio. È possesso.
«Se adesso ti spoglio, non fiati.»
«Spogliami.»
Le sue mani mi strappano la maglietta. Le cuciture cedono, i bottoni saltano.
Mi rimane addosso solo la pelle.
Quando si accorge che sotto la gonna non ho nulla, sorride. Un ghigno di lupo.
«Lo sai che non ti farò nessuna carezza, vero?»
«Lo spero.»
Mi sbatte contro il portone della stalla. Il legno è ruvido, le assi mi graffiano la schiena.
Mi alza la gonna e me la infila in bocca.
«Mordi. E stai zitta.»
Mi infila due dita dentro, senza chiedere, senza rallentare.
Affondo il viso contro il legno e lascio che il corpo parli al posto mio.
Sono bagnata. Più di quanto credevo.
Sento le sue dita scavarmi, premere, dilatare.
Quando le tira fuori, me le fa vedere. Lucide, viscide, grondanti.
«Guardati. Sei già tutta mia.»
Poi si apre i pantaloni.
Il rumore della zip è un colpo di frusta.
Esce.
E io lo guardo.
È grosso. Grosso e duro. Come nei miei sogni peggiori.
Ma qui non si sogna. Qui si prende.
Mi gira. Mi piega.
Le mani sulle mie anche, forti, strette. Mi sistema in posizione come si sistema una bestia prima di scannarla.
«Se mi dici di no adesso, ti lascio andare.»
«Prova a fermarti e ti mordo il cazzo.»
Il primo colpo è brutale.
Mi fa urlare, ma ho la gonna in bocca.
Il secondo mi scuote fino allo stomaco.
Il terzo mi fa sbattere la testa contro il legno.
Lui spinge. Spinge con tutto il corpo. Il suo ventre sbatte contro il mio culo. Le sue mani mi tengono ferma, mi affondano le dita nella carne, mi fanno male.
Ogni colpo è una ferita. Ogni affondo è una resa.
Non sono io, non più. Sono carne. Sono umore. Sono un buco pieno.
«Non sei tua madre» sussurra.
«No. Io sono peggio.»
Mi tira i capelli, mi tira su la testa. Vuole sentire la mia voce. Ma io non parlo. Mi limito a spingere indietro il bacino.
Il suo cazzo entra fino al fondo. Mi scava. Mi spezza. Mi riempie.
Poi mi gira.
Mi afferra sotto le cosce, mi solleva e mi porta dentro la stalla.
Mi butta sopra una balla di fieno.
La paglia punge. Il corpo mi brucia. Il sudore mi cola tra le tette.
Sopra di me, lui si spoglia del tutto. Il petto largo, le cicatrici vecchie, il ventre gonfio.
Mi apre le gambe con forza, senza riguardo.
Si stende su di me. Il suo peso mi toglie il fiato.
Quando rientra, è come un’esplosione.
Le pareti della stalla tremano. Il fieno vola. Le galline scappano.
Io stringo le braccia attorno al suo collo e gli mordo la spalla.
Mi spacca.
Mi sbatte.
Mi prende.
Ogni volta che entra, la carne si tende.
Ogni volta che esce, la pelle resta vuota.
Veniamo insieme.
Un urlo che non è voce, non è suono: è carne che si spezza.
Resto sotto di lui, piena, aperta, stanca.
Il suo seme mi cola lungo le cosce.
Mi sento sudata, graffiata, umiliata.
Eppure mi sento anche viva.
Più viva di quanto sia mai stata.
Si alza, si riveste.
Mi lancia una maglietta vecchia.
Io me la infilo, ancora nuda sotto.
Mi alzo a fatica, le gambe molli, il ventre che pulsa.
«Lo rifaremo?» chiedo.
Lui mi guarda, serio.
«Lo rifaremo finché non ti spezzo.»
«Allora spera che io non ti spezzi prima.»
Esco dalla stalla zoppicando.
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