Lucia 3
di
LuciaEmiliana
genere
prime esperienze
Fuori la notte sa di nebbia e sterco. Le sue scarpe affondano nella ghiaia, io le sto dietro senza farmi vedere. Arriviamo alla casa di Bortolo: una cascina scrostata, le finestre basse, la luce gialla che filtra. Lei entra senza bussare.
Mi avvicino e spio da una finestra laterale.
Dentro c’è la moglie di Bortolo, su una sedia a rotelle. Una donna secca, con i capelli bianchi raccolti e la bocca storta. Gli occhi le brillano cattivi.
Mia madre si toglie la giacca, ancora ansimante.
«Mia figlia ci spia» gli dice, la voce dura. «Mi ha visto. Si è toccata guardandoci. Non devi sfiorarla. Giuro che ti taglio il cazzo se le metti addosso un dito.»
Bortolo scoppia a ridere. Una risata grossa, cavernosa, che riempie la stanza.
«Così la piccola si è eccitata? Cristo, Dina, l’hai tirata su bene.»
Mia madre lo insulta, gli tira uno straccio addosso, ma lui ride ancora, e ride la moglie, la paralitica, con quel ghigno storto che mi gela il sangue. Una risata secca, rauca, che sembra un rantolo.
Io stringo il davanzale, le unghie che graffiano il legno. Li odio, tutti. Mia madre che mi nega il piacere, Bortolo che si prende gioco di lei, la moglie che se la gode a guardarli come fosse uno spettacolo.
Il sangue mi martella alle tempie. Sento che questa storia non finirà così.
Resto incollata al vetro, la fronte che mi brucia contro il legno umido. Dentro è caldo, la luce gialla ondeggia sulle pareti scrostate. Mia madre si muove come una marionetta. Quella vecchia sulla sedia non ha bisogno di urlare: basta un cenno, e Dina obbedisce.
La vedo scivolare giù, in ginocchio, le mani tremanti che si appoggiano sul tappeto lurido. Le cosce nude spuntano da sotto il vestito, il culo sollevato appena, il capo chino davanti alla vecchia.
«Avvicinati» ordina quella voce storta, e mia madre striscia come un cane.
Io trattengo il fiato. Mi sembra di essere lì dentro, di sentire l’odore della polvere, del sudore, della muffa che sale dal pavimento. La vecchia ride piano, un riso secco che le trema nelle ossa. Alza il vestito, mostra la pelle.
«Lecca» dice, e Dina si piega. Non c’è esitazione, non c’è vergogna: solo un gesto lento, rassegnato, come se fosse naturale.
Il rumore che sento è basso, un suono viscido che mi arriva alle orecchie come una bestemmia. Mi si stringe la pancia.
Dietro di lei, Bortolo non aspetta. Ha già i pantaloni a terra, le cosce pelose e il ventre che sporge. Le mani grosse le afferrano i fianchi, la piegano un po’ di più. La posizione è oscena, bestiale: mia madre a carponi, divisa tra i due.
La moglie paralitica allunga una mano e le accarezza i capelli. Bortolo si avvicina e ride, quel riso grasso che riempie la stanza.
«Brava Dina… così ti voglio.»
Le spinge il corpo, e lei non oppone resistenza. Il suono che segue è secco, carnale, mi trapana le orecchie. La stanza si riempie di respiri ansimanti, gemiti spezzati, risate.
Io fuori tremo. Le mani mi graffiano il davanzale, le unghie scheggiate. Mi sento soffocare, ma non posso staccarmi. Ogni istante mi sporca di più.
E quando la vecchia, con la bocca storta, inizia a ridere più forte, mi sembra di sentire quella risata dentro di me, come se fosse la mia.
Scappo via prima che mi vedano. I piedi nella ghiaia fanno un rumore che mi sembra un tuono, ma nessuno mi insegue. Corro a casa col fiato corto, la testa piena di gemiti e risate, il cuore che batte più forte delle campane.
Chiudo la porta della mia stanza e mi butto sul letto. Ho le mani che tremano, le cosce bagnate, la gola secca. L’immagine mi divora: mia madre piegata, il culo spalancato, e dietro Bortolo che la prendeva come un toro che monta la vacca.
Mi infilo la mano tra le gambe senza nemmeno togliermi i vestiti. Le dita trovano subito il caldo, lo sbavo che cola. Spingo, forte, più forte, e sussurro tra i denti.
«Il suo cazzo… Cristo, il suo cazzo…»
Lo vedo nella mia testa, enorme, venoso, gonfio di sangue, che spinge dentro fino a sparire. Vedo la pancia di lui, pelosa, che batte contro il culo di mia madre, e penso a me al suo posto.
Il letto scricchiola sotto i miei colpi. Mi mordo il polso per non urlare, ma dentro urlo lo stesso. Mi scopo con le dita come se fossero le sue, come se Bortolo fosse qui sopra di me, a schiacciarmi, a farmi tremare.
Sento il calore che sale, mi si annebbia la vista, e vengo. Un’onda che mi scuote tutta, le cosce che battono contro il materasso, il sudore che mi cola dalla fronte. Vengo pensando al cazzo di Bortolo che mi sfonda, vengo bestemmiando piano, con le dita bagnate che non smettono di muoversi.
Resto lì, ansimante, con la figa che pulsa e le mani sporche. Mi guardo le dita luccicanti nella penombra. Le porto alla bocca e le lecco piano, come ho visto fare a mia madre.
Il sapore mi riempie la lingua.
Mi fa schifo.
Mi eccita.
E capisco che ormai non c’è via d’uscita.
Segue..
Mi avvicino e spio da una finestra laterale.
Dentro c’è la moglie di Bortolo, su una sedia a rotelle. Una donna secca, con i capelli bianchi raccolti e la bocca storta. Gli occhi le brillano cattivi.
Mia madre si toglie la giacca, ancora ansimante.
«Mia figlia ci spia» gli dice, la voce dura. «Mi ha visto. Si è toccata guardandoci. Non devi sfiorarla. Giuro che ti taglio il cazzo se le metti addosso un dito.»
Bortolo scoppia a ridere. Una risata grossa, cavernosa, che riempie la stanza.
«Così la piccola si è eccitata? Cristo, Dina, l’hai tirata su bene.»
Mia madre lo insulta, gli tira uno straccio addosso, ma lui ride ancora, e ride la moglie, la paralitica, con quel ghigno storto che mi gela il sangue. Una risata secca, rauca, che sembra un rantolo.
Io stringo il davanzale, le unghie che graffiano il legno. Li odio, tutti. Mia madre che mi nega il piacere, Bortolo che si prende gioco di lei, la moglie che se la gode a guardarli come fosse uno spettacolo.
Il sangue mi martella alle tempie. Sento che questa storia non finirà così.
Resto incollata al vetro, la fronte che mi brucia contro il legno umido. Dentro è caldo, la luce gialla ondeggia sulle pareti scrostate. Mia madre si muove come una marionetta. Quella vecchia sulla sedia non ha bisogno di urlare: basta un cenno, e Dina obbedisce.
La vedo scivolare giù, in ginocchio, le mani tremanti che si appoggiano sul tappeto lurido. Le cosce nude spuntano da sotto il vestito, il culo sollevato appena, il capo chino davanti alla vecchia.
«Avvicinati» ordina quella voce storta, e mia madre striscia come un cane.
Io trattengo il fiato. Mi sembra di essere lì dentro, di sentire l’odore della polvere, del sudore, della muffa che sale dal pavimento. La vecchia ride piano, un riso secco che le trema nelle ossa. Alza il vestito, mostra la pelle.
«Lecca» dice, e Dina si piega. Non c’è esitazione, non c’è vergogna: solo un gesto lento, rassegnato, come se fosse naturale.
Il rumore che sento è basso, un suono viscido che mi arriva alle orecchie come una bestemmia. Mi si stringe la pancia.
Dietro di lei, Bortolo non aspetta. Ha già i pantaloni a terra, le cosce pelose e il ventre che sporge. Le mani grosse le afferrano i fianchi, la piegano un po’ di più. La posizione è oscena, bestiale: mia madre a carponi, divisa tra i due.
La moglie paralitica allunga una mano e le accarezza i capelli. Bortolo si avvicina e ride, quel riso grasso che riempie la stanza.
«Brava Dina… così ti voglio.»
Le spinge il corpo, e lei non oppone resistenza. Il suono che segue è secco, carnale, mi trapana le orecchie. La stanza si riempie di respiri ansimanti, gemiti spezzati, risate.
Io fuori tremo. Le mani mi graffiano il davanzale, le unghie scheggiate. Mi sento soffocare, ma non posso staccarmi. Ogni istante mi sporca di più.
E quando la vecchia, con la bocca storta, inizia a ridere più forte, mi sembra di sentire quella risata dentro di me, come se fosse la mia.
Scappo via prima che mi vedano. I piedi nella ghiaia fanno un rumore che mi sembra un tuono, ma nessuno mi insegue. Corro a casa col fiato corto, la testa piena di gemiti e risate, il cuore che batte più forte delle campane.
Chiudo la porta della mia stanza e mi butto sul letto. Ho le mani che tremano, le cosce bagnate, la gola secca. L’immagine mi divora: mia madre piegata, il culo spalancato, e dietro Bortolo che la prendeva come un toro che monta la vacca.
Mi infilo la mano tra le gambe senza nemmeno togliermi i vestiti. Le dita trovano subito il caldo, lo sbavo che cola. Spingo, forte, più forte, e sussurro tra i denti.
«Il suo cazzo… Cristo, il suo cazzo…»
Lo vedo nella mia testa, enorme, venoso, gonfio di sangue, che spinge dentro fino a sparire. Vedo la pancia di lui, pelosa, che batte contro il culo di mia madre, e penso a me al suo posto.
Il letto scricchiola sotto i miei colpi. Mi mordo il polso per non urlare, ma dentro urlo lo stesso. Mi scopo con le dita come se fossero le sue, come se Bortolo fosse qui sopra di me, a schiacciarmi, a farmi tremare.
Sento il calore che sale, mi si annebbia la vista, e vengo. Un’onda che mi scuote tutta, le cosce che battono contro il materasso, il sudore che mi cola dalla fronte. Vengo pensando al cazzo di Bortolo che mi sfonda, vengo bestemmiando piano, con le dita bagnate che non smettono di muoversi.
Resto lì, ansimante, con la figa che pulsa e le mani sporche. Mi guardo le dita luccicanti nella penombra. Le porto alla bocca e le lecco piano, come ho visto fare a mia madre.
Il sapore mi riempie la lingua.
Mi fa schifo.
Mi eccita.
E capisco che ormai non c’è via d’uscita.
Segue..
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