Viaggiando verso sud

di
genere
etero

LUI
Milano, pioggia battente. Di quelle che non scendono, ma picchiano, come se avessero fretta di lavare via tutto. Ed io lì, sotto una pensilina fradicia, a guardare l’acqua scivolare lungo i bordi della mia giacca e chiedermi, per l’ennesima volta, perché continuo a farlo.
Lo vedo arrivare. Il numero sul display è quello giusto, identico a quello stampato sul mio biglietto spiegazzato. Stringo meglio lo zaino, scatto fuori dalla pensilina e mi fiondo sull’autobus, schivando pozzanghere e raffiche di vento. Salgo con un mezzo salto, mi appoggio alla barra di ferro ancora fredda e tiro un sospiro.
L’autobus è quasi vuoto. Sette, otto persone al massimo. Un attimo dopo, altri due autobus identici si fermano dietro al mio. Stracolmi. Delirio natalizio. Devono aver messo più mezzi ed io, per una volta, sono finito su quello giusto.
Scelgo il posto migliore: quello vicino alla porta posteriore, dove c’è spazio per stendere le gambe. Una piccolissima comodità, ma in dieci ore di viaggio fa la differenza. Mi lascio cadere sul sedile, sposto lo zaino ai piedi e chiudo gli occhi. Il rumore della pioggia continua a tamburellare sul tetto del bus, ma qui dentro sembra già un altro mondo.
LEI
La pioggia batte insistente, ostinata, come se volesse farmi cambiare idea. L’autobus si ferma proprio davanti a me. Controllo il numero tre volte: è quello giusto. Stringo il cappuccio sulla testa, trascinando il trolley con la mano destra e il biglietto umido nell’altra. Ogni passo è uno schizzo, ogni respiro è freddo. Non dovevo essere qui.
Avevo prenotato un volo. Parigi–Bari, diretto, comodo, veloce. Dovevo essere già a casa a quest’ora. Invece il maltempo ha bloccato tutto. Volo cancellato, zero alternative. Ho passato due ore su internet, finché non ho trovato l’unica soluzione possibile. Treno per Milano e poi autobus fino in Puglia. È stato un azzardo, ma l’ho fatto. Dovevo.
Mi chino e sistemo la valigia nel vano bagagli con un gesto veloce, meccanico. Salgo di corsa, quasi inciampo sul primo gradino. Dentro c’è caldo, e per un attimo il vetro degli occhiali si appanna. Mi guardo intorno. L’autobus è stranamente vuoto. Una signora dorme già, rannicchiata nel cappotto. Più in là, due ragazzi con lo sguardo perso. In fondo, una coppia parla a bassa voce. Poi lo vedo. Un ragazzo è seduto nel posto migliore: quello con più spazio per le gambe.
Per un attimo esito. Potrei sedermi ovunque, l’autobus è quasi vuoto. Ma quel posto… è perfetto. E poi sembra un ragazzo a modo. Se devo viaggiare su uno “sposta-poveri” preferisco scegliere da me il vicino di posto. È quasi una regola. Lui apre gli occhi. Mi guarda. “Scusa… questo è libero?” La mia voce è più ferma di quanto mi aspettassi. Sembra sorpreso, ma non infastidito. Fa un cenno con il capo. Sorrido appena e mi siedo.
LUI
Sento i passi prima di vederla. Rapidi, leggeri. Apro gli occhi appena in tempo per scorgerla avvicinarsi. Con tutto l’autobus vuoto, viene proprio qui? Davvero? Chiede se il posto accanto al mio è libero. Annuisco senza dire nulla. Lei sorride appena e si siede. Istintivamente, mi sposto un po’ verso il finestrino. Non è una gran mossa, c’è meno spazio ora. Avevo scelto questo posto proprio perché potevo allungare le gambe senza intralciare nessuno. Silenzio, comfort, anonimato. E invece mi ritrovo con la borsa tra le ginocchia e un braccio incastrato tra la spalla e il vetro.
Non resisto, Per curiosità la guardo meglio. È bella! Avrà ventidue, forse ventitré anni. I capelli scarmigliati e un po’ umidi, mossi dal vento e dalla corsa, immagino. Gli occhi sono di un verde acceso, profondo, quasi inquietante nella loro bellezza. Verde smeraldo, penso. Non esagero. Ha il naso piccolo, sottile, le labbra disegnate come se fossero uscite da uno schizzo a matita, morbide. Non è molto alta, ma attraverso l’aderente cappotto che indossa si intuisce una silhouette snella e curve generose.
Mi chiedo perché abbia scelto di sedersi proprio qui. Poi penso che forse, su un autobus notturno, è meglio scegliere un vicino apparentemente tranquillo. C’è sempre il rischio di ritrovarsi accanto al primo maleducato, o a qualche tipo invadente. E se ha scelto me… forse do l’idea di essere innocuo. In effetti, lo sono. Probabilmente sono solo mie elucubrazioni mentali. Meglio rilassarsi e basta. Il viaggio è lungo e il motore comincia a vibrare sotto i piedi.
LEI
Il viaggio inizia tranquillo, anche se lento a causa del maltempo. Il ragazzo accanto a me è silenzioso e mi lascia molto più spazio di quanto necessito. Provo a rilassarmi, ma i pensieri mi assalgono senza pietà. Penso a quello che mi aspetta giù, ai giudizi sulla mia vita. Studio a Firenze, ma vivo in Francia con il mio compagno; non mi piace la parola "fidanzato". Lui è molto più grande di me, quasi sessantenne. È benestante, probabilmente ricco, e tutti pensano che io sia solo una ragazza stupida che spreca la sua giovinezza accanto a un uomo vecchio solo per i soldi. La mia famiglia, giù in Puglia, la pensa così. È per questo che non volevo tornare a casa.
Ma mia nonna, però, sta poco bene, e voglio rivederla. Lei è l’unica che mi ha sempre difesa. Così, per la prima volta dopo un paio d’anni, ho deciso di affrontare tutti e tutto e tornare a casa per le vacanze di Natale. Vorrei solo che i miei genitori capissero che l’uomo con cui condivido la mia vita non è solo ricco, ma soprattutto affascinante, intraprendente, intelligente. Vorrei che non mi giudicassero.
Mentre questi pensieri mi travolgono, ho la sensazione che la temperatura nell’autobus si stia abbassando. Poco dopo, l’annuncio dell’autista conferma la mia impressione: sembra che l’aria calda si sia guastata. Un brivido mi percorre la schiena.
LUI
L’annuncio sull’aria rotta mi porta a riaprire gli occhi. Guardo di lato e noto che la mia vicina si stringe un po’ nelle spalle, visibilmente infreddolita. Tiro fuori dalla borsa una coperta, una di quelle leggere ma calde, e gliela offro. “Ecco, ho imparato a portarla sempre con me”, le dico. “Sono un habitué dei viaggi in autobus, l’aria si inceppa sempre.”
Lei mi guarda sorpresa, poi sorride e prende la coperta. “Grazie, davvero. Ti va di condividerla? Così la mettiamo sulle gambe di entrambi.” “Certo”, rispondo, annuendo con un mezzo sorriso. La stendiamo insieme, con gesti un po’ impacciati ma spontanei. Le nostre mani si sfiorano per un istante mentre sistemiamo la coperta, e nessuno dei due si affretta a ritrarle. È un momento semplice, quasi goffo, dolce.
“Io sono Leo”, dico, rompendo il ghiaccio. “Giulia”, risponde lei, porgendomi la mano. Con naturalezza, cominciamo a chiacchierare del più e del meno. “Faccio l’avvocato a Milano, in uno studio legale grande, importante”, racconto tentando di vantarmi. Ovviamente tengo per la parte della storia sulla paga da fame e sugli affitti impossibili.
La conversazione scorre piacevole, tra sorrisi e sguardi che sembrano in sintonia, come se ci conoscessimo da tempo. Poi, un altro annuncio interrompe le nostre chiacchiere: “C’è neve sull’autostrada… è chiusa per un lungo tratto. Dovremo lasciarla e proseguire sulla statale… andremo molto più lentamente. Il viaggio si allungherà ancora, purtroppo.” Un brusio arriva dal fondo, ma io, per qualche ragione, sono felice.
LEI
Il viaggio prosegue lentamente, quasi a passo d’uomo, mentre il freddo si fa via via più pungente. Tiro su la coperta di Leo fin sotto il mento, e lui, senza dire nulla, me ne cede ancora un po'. L’autista ci avverte con voce stanca che non sono previste soste per diverse ore. Possiamo usare il bagno a bordo, dice, ma per quanto riguarda cibo e acqua non può fare nulla.
Leo, però, sembra preparatissimo anche a questo. Dalla sua borsa, come se fosse quella di Mary Poppins, tira fuori biscotti, patatine e due bottigliette d’acqua. Facciamo tutto a metà. Con un velo di sconforto, penso che se è così esperto in questo tipo di viaggi, la sua vita non deve essere facile. L’autobus costa un decimo dell’aereo.
Nella testa riaffiorano severe ed implacabili le parole di mia madre, che neanche troppo velatamente mi accusa di condurre una vita leggera, superficiale. Mi rimprovera di sottovalutare le cose veramente importanti: la famiglia, gli amici, i valori. Compro cose costose perché posso. Frequento balli con persone che potrebbero essere miei genitori, stringendo mani piene di anelli. Spesso vengo paragonata alle loro figlie. Me ne sono sempre infischiata di tutti, ma ora…
Abbasso lo sguardo e incrocio quello di Leo. I suoi occhi hanno qualcosa di intenso, quasi disarmante. C’è una forza silenziosa in lui, una gravità che mi attira. Penso che se la mia vita fosse “normale”, come quella delle mie coetanee che vanno a lezione con l’autobus e comprano libri di seconda mano, di un ragazzo così - che ti fa spazio sotto una coperta, in un autobus freddo, senza dire una parola - potrei anche innamorarmici. Per la prima volta nella mia vita mi chiedo seriamente chi potrei essere, se togliessi tutto il superfluo. Cancello tutto. Provo a riposare.
LUI
Giulia dorme. La sua testa è sulla mia spalla. All’inizio non so come comportarmi, mi sento a disagio. Poi, con delicatezza, mi sposto leggermente per offrirle una posizione più comoda. Senza rendersene conto, credo, si gira completamente verso di me. Mi avvolge in un abbraccio. La mano sinistra si stringe al mio petto e le sue gambe si intrecciano alle mie, come in una ricerca disperata di calore umano.
Sono sopraffatto. È bellissima, ma resta una sconosciuta. Temo che, se si svegliasse in quella posizione, potrebbe pensar male di me. Eppure, non riesco a fare nulla per allontanarla. Quando finalmente si ferma, trovando una posizione comoda e calda, mi rendo conto che è praticamente avvinghiata a me. Mi arrendo. La copro meglio con la coperta, chiudo gli occhi e cerco di non pensarci troppo. Di riposare con lei.
Circa una mezz’ora dopo, però, qualcosa mi risveglia di colpo. Il braccio di Giulia, che fino a poco prima mi stringeva il petto, è scivolato lentamente verso il basso. La sua mano riposa, con innocente naturalezza, proprio sopra la patta dei miei pantaloni. Il mio corpo reagisce senza chiedere il permesso. Un’erezione corposa pulsa sotto il tessuto dei pantaloni,. L’imbarazzo mi assale. Cerco di respirare piano, come se il solo movimento potesse peggiorare la situazione. Con un gesto lento e silenzioso, provo a sollevare delicatamente la sua mano, a riportarla sul mio petto. Per un attimo sembra funzionare. Rimane lì, sospesa in una quiete apparente. Ma bastano pochi secondi, e la sua mano torna esattamente dov’era prima, come se fosse il suo posto naturale.
Chiudo gli occhi, disperato. Resto immobile, diviso tra il desiderio e il pudore, tra la bellezza di quel momento e il timore che possa trasformarsi in un malinteso. Poi, d’improvviso, sento il suo tocco diventare più deciso. Bisticcia con la cintura, con i bottoni dei miei pantaloni, poi finalmente concede libertà alla mia alta e solida erezione. 
La sua mani si muove con una dolcezza istintiva, sfiorando e accarezzando lentamente la pelle del mio membro eretto. Il contatto è leggero, quasi timido, mi attraversa come un brivido caldo che si diffonde. Il battito del mio cuore accelera, ogni respiro diventa più profondo. Non c’è fretta, non c’è pressione, solo erotiche carezze; un’intimità improvvisa e fragile.
LEI
Succede tutto velocemente. Non so perché. Semplicemente… mi va. Leo è un bel ragazzo, sì. È stato gentile, si. Ma non è solo questo. C’è qualcosa in lui, e in me. Sto provando un’attrazione che non avevo mai provato. Non solo fisica - anche se, okay, quegli occhi scuri colpiscono eccome - ma c’è qualcosa che va oltre. Un richiamo. Un impulso. Come se la sua presenza mi tranquillizzasse e mi agitasse insieme.
E allora, forse per la stanchezza, o forse per la libertà di essere una sconosciuta in un autobus notturno, sento il bisogno di fargli un regalo. Qualcosa di semplice, intenso, segreto. Una gratitudine che non so spiegare, ma che mi brucia dentro. E lui… si lascia condurre. Docile, ma non passivo. Tra le mie mani, in senso metaforico e non solo. Si lascia andare, come chi si fida, e lo fa fino in fondo.
La tensione cresce a poco a poco, silenziosa. La mia mano è stretta sul suo membro. Scivola dolcemente, accarezza. Il suo respiro è affannato. Risponde ai miei gesti con un fremito sommesso. Poi, d’improvviso, un’ondata di caldo e liquido piacere travolge lui e la mia mano. Infine… solo silenzio.
La sua fronte appoggiata al vetro del finestrone. Il suo fiato tremante. Ci guardiamo. Lui un po’ imbarazzato, io sorridente. Il tipo di sorriso che viene solo quando ti diverti a prenderti gioco del momento, con dolcezza. “Dimmi, Leo…” Lo fisso “…in quella borsa miracolosa, per caso hai anche un fazzoletto per ripulire questo pasticcio?” Scoppia a ridere, incurante del sonno degli altri passeggeri. Fruga nella borsa come se fosse una missione. “Ecco a te. un pacchetto intero. Fazzoletti extra morbidi.” “Non avevo dubbi”, rido anch’io.
Ripulirsi, di nascosto, a bordo di un autobus traballante non è esattamente la scena più sexy del mondo, ma in quel momento tutto sembra buffo, perfetto. Ci aiutiamo l’un l’altra, cercando di mantenere un minimo di riserbo. Poi, come se nulla fosse, ci ritroviamo di nuovo sotto la coperta. Più vicini di prima. Lui mi cinge la vita, io appoggio la testa sul suo petto.
Il suo cuore batte ancora veloce. Non diciamo nulla. Fuori, la pioggia si è trasformata in neve. Scende lenta, silenziosa, illuminata appena dai lampioni della strada. Dentro, il mondo si è fermato. Le gambe intrecciate, il calore condiviso. La coperta è diventata un rifugio. E tra il silenzio della notte, i respiri calmi, le guance ancora arrossate… ci addormentiamo. In un abbraccio che non era previsto, e che probabilmente non rivivrò mai più.
scritto il
2025-08-06
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