Ombre dal passato

di
genere
corna

C’erano una volta due anime legate da un amore antico come i loro anni di convivenza: Marco e Giulia.

 

Lui aveva 38 anni e uno sguardo romantico come il suo cuore; lei ne aveva 33 e portava sulle spalle il peso di sogni mai confessati. Erano entrambi avvocati nello stesso studio, abituati a vincere battaglie altrui ma spesso persi nelle loro. Avevano tutto, o quasi: denaro, prestigio, un appartamento con vista su di un bel giardino, eppure c’era qualcosa che mancava. Qualcosa che non si compra con i soldi né si trova tra le pieghe di un contratto legale.

 

Giulia aveva imparato da tempo a convivere con il proprio corpo, con quelle curve che la società non sempre accettava, ma che Marco amava con dedizione quasi reverenziale; del resto anche lui era sempre stato un uomo con un fisico morbido. Il sesso tra loro non mancava, certo Marco non era un virtuoso dell’arte amatoria, ma per Giulia quel piccolo momento di piacere era diventato ormai una routine che le confermava il loro amore. Eppure, ogni notte, sotto le lenzuola di seta, lei sognava qualcun altro. Qualcuno che non esisteva nel suo mondo: un ragazzo giovane, bellissimo, con un sorriso che sapeva di pericolo e un carattere che non si piegava a nessuno. Non voleva ferire Marco, lo amava davvero, ma dentro di sé c’era un fuoco che non riusciva a spegnere.

 

Quell’estate, il destino decise di mettersi in mezzo.

 

Sotto le finestre del loro appartamento, nel quartiere elegante della città, iniziarono dei lavori stradali. E tra gli operai, spiccava una figura che sembrava uscita da un sogno proibito: un ragazzo di 19 anni, bellissimo, di origine africana, con una pelle scura come il cioccolato e muscoli che danzavano sotto il sole. Lavorava a torso nudo, senza vergogna né pudore, con la consapevolezza di chi sa di essere guardato. Il suo nome era Amir, e aveva uno sguardo che non chiedeva permesso.

 

Giulia lo vide per la prima volta una mattina, mentre sorseggiava il caffè affacciata al balcone. Fu come se il tempo si fermasse. E in quel momento, il desiderio, fino a quel momento nascosto tra le pieghe dei suoi pensieri, prese forma.

 

Marco, ignaro, preparava la colazione. Non sapeva che, da lì a poco, la loro favola avrebbe incontrato un’ombra. Una di quelle ombre che non si possono cancellare, ma solo accogliere o rifiutare.

 

Da quel primo sguardo, Giulia non fu più la stessa.

 

Amir era lì ogni mattina, sotto il balcone, a scavare, a sollevare, a muoversi con una grazia quasi animale. Il sole lo baciava senza risparmio, illuminando il gioco dei muscoli sotto la pelle ambrata. Il sudore gli scendeva lungo il collo, giù per la schiena, fino a perdersi sotto l’elastico dei pantaloni da lavoro. Ogni movimento sembrava studiato per tentare, per provocare. Ogni suo gesto era una promessa non detta.

 

E Giulia, da dietro le tende o appoggiata al parapetto, lo divorava con gli occhi.

 

Non era solo la bellezza di Amir a sconvolgerla – ce n’erano tanti, belli, giovani, irraggiungibili – era il modo in cui la faceva sentire: sveglia, viva, desiderante. Era come se qualcosa dentro di lei, sepolto da anni di abitudine, di silenzi a letto, di carezze gentili ma poco eccitanti, si fosse improvvisamente risvegliato.

 

La sua pelle rispondeva prima ancora della mente. Ogni volta che lo vedeva, avvertiva un brivido lungo la schiena, una tensione al basso ventre che la faceva arrossire. Aveva l’impressione di essere una ragazza adolescente, impreparata, sconvolta da una sensazione che non sapeva controllare.

 

Era ridicolo, lo sapeva. Aveva una relazione stabile, un uomo che la amava davvero, che la rispettava, che le preparava il tè la sera con un sorriso. Ma nonostante tutto, nonostante Marco, nonostante la sua stessa ragione, non riusciva a smettere di pensare ad Amir. Di desiderarlo.

 

Marco, nel frattempo, non notava nulla. Era troppo preso dai suoi casi, dalle sue cause perse in mezzo a pile di documenti. Aveva quel corpo morbido, rassicurante, pieno di peli scuri e di calore. Un corpo che Giulia conosceva bene, ma che ormai non la emozionava più. Non come quello di Amir. Non come il corpo di quel ragazzo che, senza nemmeno saperlo, le stava stravolgendo la vita.

 

Lei lo immaginava in mille modi: mentre lo guardava lavorare, mentre lo vedeva bere da una bottiglia, il collo che si contraeva, le labbra lucide. Mentre lo sentiva ridere con gli altri operai, un suono basso, roco, quasi una minaccia. Lo immaginava mentre la prendeva, senza delicatezza, senza domande. Con forza. Con desiderio. Con fame.

 

Era una cosa folle. Era una cosa pericolosa.

 

Ma era anche irresistibile.

 

Fu un pomeriggio afoso, di quelli in cui l’aria sembra pesare sul petto e ogni respiro è un lamento. Giulia era scesa a prendere il giornale, il condizionatore in casa non funzionava e aveva bisogno di qualcosa per distrarsi. Qualsiasi cosa.

 

Mentre tornava verso il portone, lo vide. Amir era appoggiato a un muretto, da solo, a bere da una bottiglia di plastica. L’acqua gli colava lungo il mento, giù per il collo, lungo il petto. Indossava solo un paio di pantaloni da lavoro, slacciati in alto, e una maglietta strappata che aveva smesso di essere bianca da tempo.

 

I loro sguardi si incrociarono.

 

Fu come un colpo di scena inatteso. Giulia avrebbe voluto abbassare gli occhi, fingere di non averlo notato, ma non ci riuscì. E lui, con la tranquillità di chi sa di vincere, le rivolse un sorriso. Lento. Sfrontato. Elettrico.

 

«Buongiorno, signora» disse, con voce bassa, quasi una carezza. «Fa caldo, eh?»

 

Lei deglutì. «Sì… sì, fa molto caldo.»

 

Lui si avvicinò di un passo, senza fretta, come un predatore che studia la sua preda. «Lei vive lassù, vero? Al piano alto. L’ho vista… guardare.»

 

Giulia sentì il sangue salirle al viso. «Non so di cosa parli.»

 

«Sì che lo sai.» Il sorriso di Amir si fece più largo. «E non ti preoccupare. Non è un crimine. Anzi.»

 

Lei rimase immobile, come incantata. Non sapeva se arrabbiarsi, scappare o abbandonarsi lì, in quel momento, tra le sue braccia. Il cuore le batteva all’impazzata, le mani tremavano leggermente. Era ridicola, lo sapeva. Una donna adulta, una professionista, ridotta a una ragazza spaesata davanti a un ragazzo di diciannove anni.

 

«Sei sposata, vero?» chiese lui, senza alcun giudizio, quasi per divertimento.

 

«Convivo.»

 

«E lui lo sa che sogni cose che non ti appartengono?»

 

Giulia non rispose. Non poteva. Era come se ogni parola fosse una freccia che la inchiodava al suolo. Amir giocava con lei, e lo sapeva. Le parlava con quella voce che sapeva di fumo e miele, le si avvicinava con un’aria di sfida negli occhi, eppure non c’era crudeltà in lui, solo la pura consapevolezza di essere irresistibile.

 

«Scommetto che non ti fai toccare da giorni. Settimane.» Le si fece più vicino, fino a che i loro corpi quasi si sfioravano. «E scommetto che non hai mai sentito davvero un uomo. Uno vero.»

 

Lei avrebbe voluto dirgli di smettere, di allontanarsi, di non giocare con lei. Ma le parole non uscirono. La sua bocca era secca. Il suo corpo era in fiamme.

 

E Amir lo capì. Capì che aveva vinto.

 

Le mise una mano sul fianco. Non forte. Non violento. Ma con una sicurezza che la fece tremare. «Solo un assaggio» sussurrò. «Solo per vedere cosa ti sei persa.»

 

E Giulia, con un singulto che le morì in gola, si lasciò andare.

 

La bocca di Amir fu su di lei come un fulmine. Calda, esigente, quasi brutale. La baciò come se non avesse mai baciato nessuno, eppure come se sapesse esattamente come farla sciogliere. Giulia sentì le ginocchia cedere, sentì il mondo girare, sentì ogni cellula del suo corpo urlare di piacere. Nessun bacio di Marco l’aveva mai fatta sentire così. Nessun uomo l’aveva mai fatta sentire così.

 

Era sbagliato. Era folle. Ma era anche vero. Era reale.

 

E per la prima volta in vita sua, Giulia non si sentì mai così viva.

 

Quel bacio fu solo l’inizio.

 

Ne seguirono altri, rubati tra una pausa e l’altra, tra l’ombra del cantiere e lo sguardo distratto dei passanti. Amir giocava con lei come un gatto con un topo: con grazia, con malizia, con una consapevolezza disarmante. Le parlava sottovoce, le sfiorava la mano, le sussurrava parole che sapevano di peccato e di libertà. Non c’era dolcezza nei suoi gesti, solo un desiderio leggero, quasi superficiale. Per lui era un gioco. Per Giulia, diventava ogni giorno di più un bisogno.

 

Lui non le chiedeva niente. Non le faceva promesse, non le offriva sguardi d’amore. Eppure, Giulia non riusciva a staccarsi da lui. Si sorprendeva a cercarlo con gli occhi appena usciva di casa, a trattenere il respiro quando lo sentiva ridere, a immaginare le sue mani su di sé, ovunque, in ogni momento.

 

Marco, nel frattempo, continuava a vivere la loro vita tranquilla. Le preparava il tè la sera, le leggeva ad alta voce i titoli dei giornali, le accarezzava i capelli mentre guardavano un film. Ma Giulia era lontana. Sempre più lontana.

 

Una sera, dopo un incontro più audace degli altri – un bacio rubato dietro il muretto del cantiere, le mani di Amir che le scivolavano lungo la schiena, il respiro caldo che le faceva perdere il controllo – Giulia non ce la fece più.

 

«Prendimi» sussurrò, la voce rotta dal desiderio. «Fammi tua. Ti prego.»

 

Amir sorrise, come se si aspettasse quella richiesta da giorni. «Sei sicura? Non è un gioco, stavolta.»

 

Lei annuì, gli occhi lucidi. «Sì. Lo voglio. Lo voglio da morire.»

 

E Amir accettò. Ma non per amore. Non per passione. Per un motivo più semplice: perché poteva.

 

La portò in un posto nascosto, lontano da occhi indiscreti. Un piccolo appartamento sopra al cantiere, usato come deposito. Non c’era nulla di romantico, nessuna delicatezza. Solo un materasso per terra, un letto improvvisato per chi non ha casa o non cerca un rifugio.

 

Eppure, per Giulia, fu come entrare in un altro mondo.

 

Amir la spogliò senza fretta, con la sicurezza di chi sa cosa sta facendo. Le sue mani erano calde, decise, e Giulia si sentì piccola tra quelle braccia. Non c’era tenerezza, ma non ce n’era bisogno. C’era solo bisogno di sentire. Di essere toccata. Di essere presa.

 

E quando finalmente Amir entrò in lei, Giulia chiuse gli occhi e trattenne il fiato. Fu come se ogni parte del suo corpo esplodesse. Non aveva mai provato niente del genere. Nessun uomo l’aveva mai fatta sentire così: piena, viva, reale. Ogni movimento era un’onda, ogni respiro era un gemito, ogni istante era una rivelazione.

 

Quando finì, rimase immobile, il cuore ancora in gola, il corpo tremante. Amir si alzò, si rivestì, le diede un bacio veloce sulle labbra.

 

«Grazie» disse Giulia, si sentiva in debito per ciò che aveva avuto, per le nuove sensazioni che aveva provato.

 

E, ancora sdraiata, con il sapore di lui ancora addosso, seppe in quel momento che non era finita.

 

Era appena iniziata.

 

Perché, per la prima volta nella sua vita, non provava solo desiderio.

 

Provava amore.

 

Un amore folle, irrazionale, impossibile.

 

Ma reale.

 

Dopo quella notte, Giulia non fu più la stessa.

 

Si aspettava che tutto cambiasse. Che Amir, in qualche modo, provasse qualcosa. Che si accorgesse di lei, non come oggetto di gioco, ma come donna. Come amante. Come qualcuno che lo amava davvero.

 

Ma Amir non tornò.

 

Lei lo cercò con gli occhi ogni mattina, ma lui non era più lì. Non si appoggiava più al muretto, non beveva più con quel sorriso sfrontato. Gli altri operai le dissero che era stato trasferito a un altro cantiere, senza spiegazioni. E Giulia capì: non era stato amore. Non era stato nemmeno desiderio vero. Era stato solo un gioco, e lei ne era stata la vittima.

 

Tentò di vederlo di nuovo. Cercò il nuovo cantiere, si inventò scuse per uscire da lavoro, ma Amir non c’era mai. O forse non voleva esserci.

 

Un giorno, però, lo incontrò per caso. Fu lui a fermarla, con un sorriso distratto, come se tra loro non fosse mai successo nulla.

 

«Ti sei divertita?» le chiese, senza pudore.

 

Giulia arrossì. «Io… volevo rivederti.»

 

Lui la guardò per un attimo, poi scosse la testa. «Non posso, signora. Ho già abbastanza problemi.»

 

«Io non sono un problema» sussurrò lei, con voce rotta.

 

«Per me sì.»

 

E se ne andò. Senza voltarsi.

 

Quella sera, Giulia si chiuse in bagno e pianse. Poi, con le mani tremanti, si toccò. Immaginò di nuovo le sue labbra, le sue mani, il suo corpo su di lei. Venne con un singhiozzo soffocato, il cuore spezzato e il corpo ancora desiderante.

 

Da allora, fu solo un susseguirsi di solitudine.

 

Marco se ne accorse. Le sue carezze, una volta ricambiate con un sorriso stanco, ora venivano respinte con fastidio. I baci non avevano più sapore. Il letto, che una volta era un rifugio, divenne un carcere. Giulia non voleva più toccare Marco. Non poteva. Ogni volta che lui la sfiorava, sentiva solo il ricordo di Amir. Di quel corpo perfetto, di quelle mani decise, di quel piacere che non aveva eguali.

 

«Che succede?» le chiese una notte, con voce ferma ma gentile. «Non mi vuoi più bene?»

 

Lei non rispose. Non poteva dirgli la verità. Non poteva confessare che aveva ceduto a un ragazzo che non la voleva, che si era persa in un sogno che non era mai stato reale.

 

E così, scelse di fuggire.

 

Tornò a casa dei suoi genitori, senza dare troppe spiegazioni. Disse che aveva bisogno di prendersi una pausa, che il lavoro la stancava, che aveva bisogno di ritrovare se stessa. Ma nessuno ci credette davvero.

 

Giulia si chiuse in camera, passò le giornate a guardare il soffitto, a pensare a lui, a rivivere ogni momento, ogni parola, ogni sguardo. Si toccava ogni notte, con la speranza di esorcizzare quel desiderio, ma ogni volta era peggio. Ogni volta, il vuoto cresceva.

 

Era come se, dopo aver assaggiato il paradiso, non potesse più tornare indietro.

 

Ma il paradiso non l’aveva voluta.

 

E lei, ormai, non apparteneva più a nessun posto.
di
scritto il
2025-07-20
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