𝗖𝗼𝗿𝗿𝗶𝘀𝗽𝗼𝗻𝗱𝗲𝗻𝘇𝗲 𝗖𝗮𝗿𝗻𝗮𝗹𝗶 - 𝗖𝗮𝗽𝗶𝘁𝗼𝗹𝗼 𝟴 - 𝗖𝗼𝗻𝗳𝗶𝗻𝗶 𝗗𝗶𝘀𝘀𝗼𝗹𝘁𝗶

di
genere
etero



Da quella sera nello studio, conclusasi con una particolare dichiarazione di intenti, erano oramai passate settimane. Roberta aveva trovato un nuovo lavoro che la rendeva molto più felice, aveva ripreso contatti con le sue vecchie amiche e, soprattutto, aveva trovato il tempo di godersi anche lui, Dago.

Dago aveva continuato il suo lavoro, andando a rivedere la modalità in cui erogava i servizi extra che offriva. Quando aveva raccontato tutto a Roberta, aveva colto una strana luce nei suoi occhi. Un mix di gelosia, eccitazione e, forse, anche altro. Ne avevano parlato e avevano trovato anche in quello un loro equilibrio. I servizi dovevano essere solo lavoro e offerti solo una volta e, su quello Roberta non era stata per nulla flessibile, non doveva mai togliersi la bandana.

Una notte, dopo una stupenda cena e dell’abbondante buon sesso, mentre un violento temporale estivo faceva da sottofondo sonoro e da effetti speciali, avevano iniziato a parlare di fantasie, dell’idea di provare cose un po’ diverse, sperimentare.

“C’è questa fantasia che mi perseguita da tempo,” aveva confessato Roberta, la voce che oscillava tra vulnerabilità e malizia. Distesa sul letto, nuda, una gamba abbandonata oltre il bordo del materasso, sembrava un’opera d’arte che si offriva all’interpretazione più che alla semplice contemplazione.

Dago, sdraiato accanto a lei, tracciava con l’indice arabeschi invisibili sulla pelle del suo ventre. “Raccontami,” aveva risposto, un invito che era più di semplice curiosità: era l’onorare quel patto di sincerità assoluta che avevano stretto. Era il dono dell’ascolto per ascoltare, senza giudizio, senza malizia.

“Ricordi quella storia che mi hai scritto? Quella in cui io…” Si era interrotta, un velo di pudore che contrastava con l’intimità appena condivisa, come se certe fantasie fossero più nude dei corpi stessi.

Dago aveva provato a passare in rassegna alcune delle scene raccontate nei racconti che aveva scritto per lei, poi l’illuminazione, qualcosa che li riportava a quella sera all’indiano: “Il pompino al ristorante,” aveva completato lui, ricordando perfettamente le reazioni di Roberta a quel racconto mentre lui glielo leggeva in videochiamata.

Negli occhi di Roberta c’era qualcosa di diverso, una luce che parlava di desideri più complessi, più sfaccettati di una semplice trasgressione pubblica. “Vorrei renderla reale, ma non esattamente come l’hai scritta tu. Vorrei… arricchirla con mie idee ….”

L’aria tra loro si era caricata di elettricità, quella particolare densità che si crea quando una fantasia inizia a prendere forma concreta, trasformandosi da pensiero in possibilità.

Roberta scivolò sul corpo di Dago con quel modo di fare classico di una donna che vuole ottenere qualcosa da un uomo. Mentre lo baciava, una mano raggiunse il suo sesso accarezzandolo con in modo calcolato, un’arte appresa in età adolescenziale.

“Devi scegliere tu il ristorante,” mormorò con le labbra che sfioravano l’orecchio, la voce che colava dentro la sua testa come olio caldo. “E deve esserci un gran bel pubblico.” Le labbra raggiunsero il collo, poi il petto. “Se il locale non mi soddisfa…” La lingua tracciò una linea umida lungo lo sterno, poi più giù, Dago sentiva la mente offuscarsi, dissolta nell’anticipazione di quel piacere familiare di cui non si saziava mai “…niente pompino e niente sesso, fino a quando…” Il calore umido della sua bocca lo avvolse improvvisamente, un’intimità totale che gli strappò un gemito dalle profondità del petto. Il suo sesso scomparve tra quelle labbra sapienti, succhiato, leccato, venerato con una devozione quasi violenta nella sua intensità. “…fino a quando non renderai questa mia fantasia realtà.”

Continuò a portarlo verso l’orlo del precipizio del piacere, mantenendolo sul limitare dell’estasi senza mai concedergli il passo finale. Si muoveva con la precisione di un’artista che conosce esattamente dove un tocco in più altererebbe irrimediabilmente l’opera. Poi, quando lo sentì vibrare contro la lingua, sull’orlo stesso della dissoluzione, si ritrasse.

Si pulì lentamente la bocca col dorso della mano, un gesto deliberatamente teatrale. Lo guardava mentre iniziava a vestirsi frettolosamente, osservando con malcelata soddisfazione lo spettacolo del suo cazzo teso, pulsante, vibrante e del suo proprietario stranamente spiazzato.

“Come ulteriore stimolo per te” disse con voce roca. “Solo quando sarò sotto quel tavolo potrai sborrare.”

Dago rimase immobilizzato, sospeso in quel territorio crudele tra desiderio e appagamento. Il sangue, drenato dal cervello verso regioni più elementari del corpo, lo aveva privato della capacità di formulare pensieri coerenti. La guardava con lo sguardo velato di chi è stato strappato a un sogno sul punto di concretizzarsi, un’espressione che oscillava tra adorazione e una frustrazione così profonda da rasentare la rabbia.

Era una sensazione nuova per lui, questa impotenza vestita di desiderio. Abituato a orchestrare i piaceri altrui, a mantenere il controllo sulle dinamiche dell’intimità, si ritrovava ora prigioniero di un copione che lui aveva scritto e di cui aveva perso il controllo. La contraddizione lo disorientava e, paradossalmente, lo eccitava ancora di più.

“E mi raccomando,” aggiunse lei, piegandosi per un ultimo bacio sulla punta del suo membro ancora pulsante, “niente servizi extra. Non pensare di sfogarti in quel modo.”

Nella sua mente si scatenò una battaglia silenziosa. Non era abituato a imposizioni, la sua natura ribelle si agitava contro quelle restrizioni. Eppure, contemporaneamente, sentiva crescere un’eccitazione nuova, quella particolare forma di desiderio che nasce proprio dai limiti, dai confini tracciati con mano sicura. Adorava le sfide, e questa si presentava come la più intrigante di tutte: la sottomissione volontaria alle regole di un gioco che prometteva ricompense inesplorate.

Non appena Roberta gli diede il bacio della buonanotte—un gesto innocente che contrastava con l’innocenza sottratta poco prima—e un’ultima carezza al suo sesso abbandonato, si precipitò al computer. Dormire, con quell’eccitazione che gli pulsava nelle vene come un secondo battito cardiaco, era un’ipotesi remota quanto l’indifferenza.

Tentò di darsi sollievo, ma la mano si fermò a metà del gesto. Non era solo la promessa fatta a trattenerlo, ma la comprensione istintiva che quella tensione insoddisfatta faceva parte dell’esperienza, un ingrediente essenziale della ricetta che stavano preparando insieme. La frustrazione stessa diventava un afrodisiaco, un carburante che avrebbe alimentato ciò che sarebbe seguito.

Chiese aiuto ad alcuni amici discreti e, infine, alla sua prima cliente, quella che aveva inaugurato la sua carriera parallela e che conservava ancora un posto particolare nella sua vita professionale. Francesca, una donna dalla sensualità sofisticata e dall’intuito quasi soprannaturale per le sfumature del desiderio, aveva capito al volo, senza necessità di spiegazioni eccessive. C’era sempre stata, tra loro, quella capacità di leggere oltre le parole, di intuire i desideri nascosti nelle pieghe delle frasi.

Le aveva raccontato della fantasia, evitando i dettagli più intimi ma lasciando abbastanza spazio all’immaginazione. Ne era uscito il nome di un locale particolare, un ristorante elegante con cucina regionale, strutturato in diversi ambienti che garantivano la giusta dose di privacy. A detta di Francesca, quel posto avrebbe permesso qualcosa del genere. L’aveva detto con un sorriso che conteneva più di quanto le parole esprimessero, un’allusione a esperienze personali che Dago poteva solo immaginare.

“Mi offro di prenotare io stessa,” aveva aggiunto, la voce che tradiva un interesse che andava oltre la semplice cortesia professionale. “Conosco personalmente i proprietari, posso garantire… la massima comprensione.”

Il tavolo era stato prenotato per quattro sere dopo quell’incontro con quel mezzo pompino. Quattro giorni e cinque notti che per Dago si erano trasformati in un tempo elastico, dilatato dall’ossessione. La sua mente, normalmente disciplinata e metodica, era diventata un teatro di immagini compulsive. Il sesso di lei, la sua bocca, le sue tette, la sua figa, il suo culo – queste parole primitive, elementari, risuonavano nella sua coscienza con un’eco che sovrastava pensieri più articolati. Più il tempo passava, più la voglia cresceva, una fame che si alimentava di sé stessa, un fuoco che trovava ossigeno proprio nel tentativo di contenerlo.

Quando finalmente arrivò a prenderla, Roberta si era fatta trovare pronta, esageratamente puntuale rispetto alle sue abitudini, un dettaglio apparentemente insignificante che rivelava quanto fosse importante per lei questa serata. L’aspettativa aveva lavorato anche sulla sua immaginazione, scolpendo anticipazioni e desideri in forme sempre più definite.

Indossava un vestito nero che le calzava come una seconda pelle, che rivelava più di quanto nascondesse. Anche all’occhio meno esperto appariva evidente che non indossasse intimo sotto. I capezzoli premevano contro la stoffa sottile creando piccole tende, un invito tattile al tocco. Portava un paio di scarpe con tacchi vertiginosi che ridisegnavano completamente la sua biomeccanica, trasformando ogni passo in una dichiarazione di intenti. Il trucco, decisamente oltre i suoi standard abituali, era esagerato e provocatorio. Il mascara pesante che disegnava ciglia da bambola, labbra dipinte in un rosso che gridava promesse carnali.

“Vedo che hai deciso di non passare inosservata questa sera…” osservò Dago, il tono compiaciuto e divertito che nascondeva a malapena l’eccitazione. La guardava come un collezionista davanti a un’opera d’arte particolarmente preziosa, ammirato e possessivo in egual misura.

Durante il viaggio, tuttavia, lei non gli concesse di toccare ed esplorare i suoi segreti. Ogni volta che la sua mano tentava di avventurarsi sotto l’orlo del vestito, Roberta lo bloccava con gentile fermezza. “Più tardi,” sussurrava, una promessa che intensificava l’attesa invece di alleviarla. Questo diniego calcolato lo eccitava più di quanto l’avrebbe fatto il.

Al ristorante furono accolti come fossero ospiti di riguardo. Il locale era esattamente come Francesca l’aveva descritto: elegante senza essere pretenzioso, intimo senza risultare soffocante. Un’atmosfera che combinava raffinatezza e libertà nella giusta proporzione. Li accompagnarono in una saletta tranquilla, dove l’illuminazione era calibrata per creare un’intimità quasi teatrale. La *mise en place* era diversa dagli altri tavoli, con tovaglie più lunghe che arrivavano a sfiorare il pavimento, un dettaglio che faceva parte dell’architettura segreta della loro serata.

Durante il tragitto al tavolo, il modo di muoversi di Roberta, combinato con la sua scelta stilistica provocante, causò una scia di sguardi e mormorii. Uomini che interrompevano le loro conversazioni, donne che oscillavano tra ammirazione e disapprovazione, camerieri che tentavano malamente di nascondere il loro apprezzamento. Quell’attenzione collettiva, invece di metterla a disagio, sembrava alimentare qualcosa dentro di lei, come se ogni sguardo fosse un filo invisibile che la connetteva a un’energia che aumentando la sua carica erotica.

Si accomodarono al tavolo secondo il vecchio galateo, con la donna spalle al muro in modo da poter osservare la sala. Dago cercò di verificare che la scelta soddisfacesse le fantasie di Roberta.

“Cosa ne pensi?” chiese, scrutando il suo viso alla ricerca di indizi.

Lei si guardò intorno con ostentata lentezza, studiando lo spazio come un’esperta d’arte che valuta un’opera controversa. Poi, con tono fintamente snob, dichiarò: “Sì, può andare…” Prima di scoppiare in una risata che conteneva eccitazione e nervosismo in egual misura.

Per tutta risposta, Dago le prese il menu dalle mani con un gesto deliberatamente dominante.

“Decido io cosa mangerai…” Il tono della sua voce era cambiato, diventando più basso e decisivo, una frequenza che vibrava nelle viscere più che nelle orecchie. Era il suo modo di vendicarsi delle imposizioni di lei, ristabilendo l’ordine di potere che fluttuava continuamente tra loro.

Dopo aver ordinato, chiese al cameriere di portare via le posate di Roberta. Il giovane esitò per un momento, ma qualcosa nello sguardo di Dago lo convinse a non fare domande.

“Sarò io a imboccarti,” continuò, la voce un registro ancora più basso. “Deciderò io cosa, quanto e quando mangerai…” Si interruppe, creando una sospensione carica di promesse mentre la guardava con un sorriso che mescolava tenerezza e predazione. “A te resta scegliere quando farmi il pompino,” concluse, le parole appena un soffio contro l’aria.

Roberta sentì un fremito percorrerle la spina dorsale. Non era solo la promessa di piacere imminente, ma qualcosa di più complesso: il riconoscimento del linguaggio silenzioso che si era creato tra loro. Quel “Sarò io a imboccarti” non era una semplice frase, ma una dichiarazione di intenti, una risposta calibrata alla sua provocazione.

L’aveva spinto vicino al limite, lo aveva costretto ad abbandonare la sua zona di comfort, ed ecco che lui rispondeva con una controffensiva che la sorprendeva e, doveva ammetterlo, la eccitava profondamente. Questa danza di controllo e abbandono, di potere ceduto e riconquistato, era esattamente ciò che aveva sempre cercato senza saperlo nominare.

“Mi piace quando fai così,” sussurrò, piegandosi leggermente in avanti, consapevole di come il movimento accentuasse la curva del seno sotto il tessuto del vestito. “Quasi quanto ti piacerà quello che ho in serbo per te.”

Il suo sguardo si spostò per un istante oltre le spalle di Dago, incrociando quello di una donna che osservava la scena da una discreta distanza. Non un’occhiata casuale, ma un’attenzione deliberata che Roberta riconobbe immediatamente. L’estranea, seduta da sola, emanava un’aura di eleganza vissuta che trascendeva la semplice bellezza. Un’intesa femminile, complice e sofisticata allo stesso tempo, passò tra loro come una corrente invisibile. Sotto quello sguardo, Roberta sentì la propria trasgressione amplificarsi, come se quegli occhi che la scrutavano trasformassero un atto intimo in qualcosa di più universale, più potente. Poi la donna distolse lo sguardo con studiata nonchalance, lasciando comunque Roberta contaminata da una piacevole complicità invisibile.

Nel frattempo era arrivata la cena. Dago orchestrava con precisione misurata l’alternanza tra conversazione e nutrimento, scegliendo con cura ogni boccone che le offriva. Osservava le sue labbra chiudersi attorno al cibo con un’intensità che andava oltre la semplice attenzione. C’era qualcosa nel modo in cui lei accettava questo rituale di nutrimento, arrendevole ma presente, sottomessa eppure vibrante di potere latente, che stimolava in loro nuove fantasie.

Roberta, nel frattempo, aveva studiato tutto quello che li circondava, assorbendo dettagli che Dago, dando le spalle alla sala, non poteva percepire. La tensione tra loro cresceva con ogni boccone, con ogni sorsata di vino, una corrente sotterranea che scorreva sotto la superficie della conversazione.

Al momento del dolce, inclinò leggermente la testa e, con quella voce che solo le donne sanno modulare, un tono che occupa quello spazio preciso tra innocenza e malizia, una frequenza che va oltre la razionalità maschile per parlare direttamente a zone più primitive del cervello, chiese di avere un gelato al fior di latte.

Lui concesse, ovviamente. Come avrebbe potuto rifiutare? C’era nei suoi occhi quella luce particolare che aveva imparato anticipava momenti particolarmente intensi con lei.

Quando il gelato arrivò, Roberta lo assaggiò con una lentezza ritualistica, ogni leccata del cucchiaino un preludio a ciò che stava per accadere. Dago la osservava, ipnotizzato dal movimento della sua lingua, dal modo in cui le labbra si chiudevano attorno al metallo, sentendo ogni gesto risuonare direttamente nel proprio corpo. Fu in un momento di distrazione, causata da un tavolo vicino, che lei e il gelato svanirono, scivolando sotto il tavolo.

Dago si guardò attorno, il battito cardiaco improvvisamente alterato, un tamburo accelerato che gli rimbombava nelle orecchie. Eppure, per qualche misteriosa alchimia sociale, nessuno attorno a loro sembrava essersi accorto di cosa fosse successo. Il mondo continuava nella sua ordinaria danza di conversazioni e tintinnii di posate, completamente ignaro del dramma erotico che si stava svolgendo a pochi metri di distanza.

La metà superiore del suo corpo era impegnata a mantenere un’apparenza di normalità, l’altra metà precipitata in un vortice di sensazioni quando sentì le mani di lei, furiose, slacciargli i pantaloni e abbassare la zip. Il suo sesso reagì più velocemente del suo pensiero, un’intelligenza autonoma che riconosceva e rispondeva prima che il cervello elaborasse.

Poi il contatto con le sue labbra, un attimo di calore umano, familiare, subito seguito dal freddo scioccante del gelato. Una combinazione brutale di temperature che gli strappò ogni pretesa di controllo. Dovette mordersi l’interno della guancia per non gemere, per non imprecare, per non disintegrarsi in quell’istante in puro piacere vocale.

Sotto il tavolo, Roberta abitava un universo parallelo. Il territorio sotto la tovaglia era un mondo diverso, intimo, sotterraneo. Il tempo stesso sembrava seguire regole diverse in quello spazio liminale, espandendosi e contraendosi secondo logiche non lineari, legate al piacere che dava e che riceveva. La sensazione di illecito, di proibito, amplificava ogni gesto rendendolo più significativo, più essenziale.

Sentì le cosce di lui contrarsi, e quello era esattamente il feedback che aspettava, che sperava. Non era solo un atto sessuale era la materializzazione fisica di qualcosa che avevano costruito insieme nel territorio dell’immaginazione, parole trasformate in carne, promesse diventate realtà. Era la conferma di come assieme erano capaci di trasformare una serata apparentemente normale in qualcosa di speciale, unico, indimenticabile.

Fu seguendo tutti questi pensieri, la presa di coscienza di ciò che stavano facendo, a farle perdere il controllo. Mentre lo spompinava con crescente ferocia, una parte di lei, che faticava a riconoscere come propria, guidò la sua mano a spingere delicatamente il piede di lui verso di sé. Iniziò a strofinare la propria figa contro la sua scarpa, un gesto che non aveva previsto né pianificato. Non sapeva nemmeno da dove fosse emersa quella fantasia, un desiderio che sembrava appartenere simultaneamente a lei e a qualcun altro, un pensiero inconsapevole e incontrollabile emerso dalle profondità del suo essere.

L’orgasmo li colse con una sincronia quasi mistica, come se una corrente invisibile li attraversasse entrambi simultaneamente, connettendoli in un circuito perfetto. Lei venne contro la sua scarpa mentre lui si riversava in bocca un’esplosione silenziosa e condivisa che sembrò momentaneamente alterare le leggi della fisica, creando una bolla temporale in cui esistevano solo loro e questa comunione carnale.

Tutto era stato molto più veloce di quanto avesse immaginato. O almeno, questo era il pensiero che le attraversò la mente mentre emergeva dal sotto del tavolo. La realtà era che non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso in quella dimensione alternativa. Minuti? Un’eternità? Le percezioni temporali si erano distorte completamente.

Riemerse con la compostezza studiata di chi non ha fatto nulla di straordinario, nulla che modificasse irrimediabilmente la realtà condivisa. Si sistemò sulla sedia, controllò rapidamente che tutto fosse a posto, e solo allora si concesse di guardare la sala. Il suo sguardo, come attratto da una forza magnetica, si posò di nuovo su quella donna.

I loro occhi si incontrarono nuovamente, ma qualcosa era cambiato. Non era più lo sguardo di una sconosciuta, ma quello di qualcuno che aveva assistito a una metamorfosi. C’era in quegli occhi una comprensione più profonda, un’approvazione che trascendeva il giudizio morale convenzionale. Quello sguardo le disse, senza bisogno di parole, che la donna non solo aveva intuito cosa fosse accaduto, ma che aveva riconosciuto in quell’atto qualcosa di essenziale, di autentico. Non era più una spettatrice casuale, ma un testimone consacrato della loro intimità.

La donna che li aveva osservati si alzò dal suo tavolo con una grazia che sembrava distillata attraverso decenni di consapevolezza corporea. Si avvicinò a loro con la certezza naturale di chi possiede completamente il proprio spazio nel mondo, ogni passo preciso ma mai calcolato. C’era in lei quella qualità magnetica che trascende l’aspetto fisico, una presenza che alterava sottilmente l’atmosfera attorno a lei.

“Dago,” disse quando raggiunse il loro tavolo, la voce piacevolmente roca, graffiante come vinile pregiato che racconta storie dense di vita vissuta.

Lui si voltò e il suo viso si aprì in un riconoscimento immediato. “Francesca,” rispose alzandosi per baciarla sulle guance, un gesto che si muoveva con precisione nello spazio sottile tra formalità sociale e intimità condivisa. “Che sorpresa vederti qui.”

“Non così sorprendente,” replicò lei con un sorriso che conteneva strati di significati sovrapposti. “Ho pensato che fosse il momento di conoscere finalmente Roberta.” Si voltò verso di lei, tendendo una mano scolpita dal tempo e dall’esperienza. “È un piacere conoscerti. Dago mi ha parlato molto di te.”

Roberta strinse quella mano, percependo un calore che sembrava comunicare oltre la pelle. Osservò la donna ora che l’aveva di fronte. Francesca doveva avere tra i cinquanta e i sessant’anni, ma indossava quell’età come un gioiello prezioso, non come un peso. I suoi capelli argentei tagliati in un caschetto perfetto erano attraversati da audaci ciocche color cobalto e viola profondo. Un manifesto di anticonformismo che parlava di una donna che rifiutava le convenzioni dell’invecchiare.

Il suo corpo, avvolto in un abito di seta color turchese intenso con accenti di corallo che sembravano danzare sulla stoffa ad ogni movimento, raccontava una storia di celebrazione invece che di resa. La scollatura, calcolata al millimetro, rivelava un décolleté sorprendentemente provocante, sostenuto con l’orgoglio di chi ha fatto pace con le trasformazioni del tempo. Ai piedi, un paio di scarpe con tacchi vertiginosi che sembravano catturare tutti i colori dell’arcobaleno, ogni centimetro un’opera d’arte che contraddiceva l’idea stessa di sobrietà o invisibilità che la società spesso impone alle donne della sua età. L’insieme non gridava attenzione, ma la catalizzava, la comandava con l’autorità di chi ha smesso da tempo di chiedere permesso per esistere in technicolor.

“Dago non mi ha raccontato abbastanza di te, invece,” rispose Roberta con una franchezza che scavalcò le sue intenzioni, lanciando uno sguardo minaccioso a Dago.

Francesca rise, un suono sorprendentemente giovane che scioglieva la compostezza della sua presenza. “C’è sempre tempo per colmare le lacune.” Si sedette con loro senza chiedere permesso, abitando lo spazio come se le appartenesse da sempre.

Con un gesto chiamò un cameriere, che apparve al loro tavolo con una prontezza che suggeriva un rispetto particolare. “Un Franciacorta Satèn millesimato,” ordinò con la precisione di chi conosce intimamente l’arte del vino. “Il Bellavista 2015, se ne avete ancora.”

Il cameriere annuì con deferenza autentica. “Certamente, signora. Ne abbiamo ancora qualche bottiglia nella riserva speciale.”

Mentre il cameriere si allontanava, un silenzio gravido di possibilità si depositò tra loro. Fu Dago a dissolverlo.

“Roberta,” iniziò con voce calibrata tra trasparenza e delicatezza, “Francesca è la cliente di cui ti ho parlato. La prima.”

Le implicazioni di quella frase si ramificarono nella mente di Roberta come un sistema nervoso che si attiva. Non una semplice cliente, ma la donna che aveva inaugurato la sua trasformazione da fotografo a Dax, quella che aveva aperto la porta a un territorio parallelo della sua identità.

“E anche la persona che ha suggerito questo ristorante,” aggiunse Francesca con naturalezza. “Un luogo dove la discrezione è considerata una virtù quanto l’eccellenza culinaria.”

L’allusione era traslucida ma mai volgare. Roberta comprese che Francesca aveva assistito intenzionalmente a quanto accaduto poco prima, che la scelta del locale faceva parte di una coreografia più ampia, che nulla nell’architettura della serata era veramente accidentale.

“Quindi non è stata una coincidenza,” osservò Roberta, una constatazione che non necessitava risposta.

“Le vere coincidenze sono rare quanto i diamanti puri,” rispose Francesca. “La maggior parte di ciò che chiamiamo caso è semplicemente un disegno che non riusciamo ancora a leggere nella sua interezza.”

Il cameriere tornò con la bottiglia, eseguendo l’apertura con la riverenza che quel nettare meritava. Avvolse la bottiglia in un panno di lino, inclinandola a quarantacinque gradi mentre ruotava delicatamente il tappo. Un sospiro sibilante, appena percettibile, sostituì il volgare “pop” che i profani associano a quel tipo di vino.

Quando tutti ebbero i calici pieni, Francesca sollevò il proprio in un brindisi silenzioso prima di bere, lo sguardo ancorato a quello di Roberta. “Un vino eccellente richiede tempo,” disse infine. “Come le relazioni che meritano di essere coltivate.”

Roberta percepì una trasformazione nell’atmosfera, una tensione palpabile che sembrava intrecciare i tre in un circuito invisibile. Non semplice attrazione, ma una geometria emotiva più complessa, stratificata come una formazione geologica.

“Dago mi ha raccontato della vostra separazione,” continuò Francesca, “e del vostro ritrovamento. Devo dire che la profondità del vostro legame è notevole.” Le sue parole portavano un’ammirazione genuina, non mera cortesia sociale.

“E lui mi ha raccontato del vostro incontro,” replicò Roberta, sorpresa dalla propria audacia. “Non nei dettagli, ma abbastanza per comprenderne la portata.” Esitò un istante, poi aggiunse con voce che aveva trovato una nuova morbidezza: “Devo ringraziarti, in un certo senso. Quella bandana che hai scelto per lui… ha creato uno spazio diverso, un territorio dove le identità possono essere simultaneamente nascoste e rivelate. Senza quel gesto, forse non avrei mai conosciuto davvero l’uomo che siede accanto a me ora.”

Le parole sembravano cambiare consistenza nell’aria tra loro, acquisendo un peso specifico che trascendeva il loro significato letterale. Era un riconoscimento che attraversava strati di intimità, un’accettazione di come una donna sconosciuta avesse, anni prima, posato le fondamenta di un’architettura emotiva che ora abitava con Dago.

Un sorriso attraversò il viso di Francesca, non di imbarazzo ma di apprezzamento per quella trasparenza. “Gli incontri significativi lasciano impronte indelebili,” disse semplicemente. “Anche quando i sentieri divergono.”

Dago osservava lo scambio con attenzione ipnotica. C’era qualcosa di profondamente erotico nel vedere queste due donne, così diverse eppure complementari, tessere un linguaggio comune davanti ai suoi occhi.

Francesca si inclinò leggermente verso Roberta, un movimento minimo che tuttavia ricalibrava completamente la geometria dello spazio condiviso. “Sai,” disse, la voce abbassata a una tonalità più intima, “raramente ho visto qualcuno irradiare piacere come te qualche minuto fa. C’è una bellezza particolare nel vedere una donna che conosce esattamente il proprio desiderio e ha il coraggio di manifestarlo.”

Roberta sentì un calore inaspettato salirle alle guance, non vergogna ma eccitazione, riconoscimento. Non era abituata a essere vista con quella precisione, soprattutto da un’altra donna, specialmente da una donna come Francesca, che sembrava possedere la capacità di attraversare gli strati superficiali per toccare l’essenza nascosta.

“La vera libertà,” continuò Francesca, “è desiderare senza vergogna e manifestare quel desiderio senza paura.” Bevve ancora, lasciando che le parole si depositassero come sedimenti. “È una libertà che pochi conquistano davvero.”

Dago finì il suo bicchiere e mentre riempiva le coppe delle signore, con il suo tono di voce sornione disse “Fai attenzione, quando Francesca si muove in questo modo ha qualcosa in mente” non riuscì a trattenere un sorriso “e di solito ottiene sempre quello che vuole.”

Il vino scorreva, arrivarono altre bottiglie. Le chiacchiere diventarono sempre più sciolte e libere, i discorsi sempre più audaci, le risate più fragorose e sincere. Restarono a chiacchierare fino a tardi, gli ultimi clienti ad uscire. “Che ne direste di concludere la serata a casa mia?” La proposta aveva, poco velatamente, qualche secondo fine. A Dago tutto questo era abbastanza chiaro, nonostante l’alcol, mentre Roberta sembrava solo affascinata e divertita da Francesca.

Li convinse a lasciare l’auto nel posteggio e salire sulla sua auto con autista, sottolineando che avevano bevuto un po’ troppo per guidare. Dago non era mai stato a casa sua, i loro incontri si era sempre tenuti allo studio, quindi la curiosità saliva. Cosa aveva in mente? Come era la casa di un personaggio come Francesca. Roberta era seduta in mezzo, inconsapevolmente costantemente contesa tra Dago e Francesca o forse si godeva quelle attenzioni, quella tensione crescente.

Dago, guardando fuori dal finestrino, riconobbe le varie zone di Milano che attraversavano. Dalla zona della vecchia fiera svoltarono in direzione dello stadio e, ad un certo punto, si infilarono in una zona abbastanza esclusiva, fatta di stradine strette e ville misteriose, nascoste da alti muri e siepi. E fu proprio in una di quelle che l’auto si infilò. Una costruzione abbastanza moderna, uno stile semplice, lineare, piena di vetrate, con un bel giardino in cui era incastonata una piscina.

L’ingresso era direttamente in un’ampia zona giorno. Le luci erano accese come se qualcuno li stesse aspettando, ma quando entrarono sembrava deserta. Probabilmente merito di quel super potere che ha un certo livello di staff. Francesca aveva riempito i bicchieri con con del vino simile a quello che avevano bevuto per tutta la sera versandolo da una bottiglia che, casualmente, era aperta e tenuta al fresco in un secchiello con il ghiaccio. Mentre Roberta faceva i doverosi complimenti per la casa, Dago osservava e studiava, cercava di capire cosa Francesca avesse in mente. Poi finalmente lei si decise e li guidò verso quello che poteva sembrare la zona notte, aveva magicamente sbloccato qualcosa che non sembrava una porta ma dava accesso a delle scale e si ritrovarono in un ambiente molto diverso.

Le luci soffuse e calde lasciavano intravedere il tipico ambiente di un dungeon BDSM. Cavalletti, gogne, una croce di sant’Andrea e un grande letto a baldacchino. Le pareti ricoperte di strumentazione varia. Cinghie, fruste, vari strumenti per sculacciare, cane piuttosto che dildo e cazzi di varie dimensioni, vibratori di ogni foggia. Ci sarebbe voluto un esperto in inventari per catalogare tutto correttamente.

Mentre Francesca scompariva dietro il separé, Roberta si trovò sospesa in quel territorio liminale tra l’esserci e lo svanire. Il vino le scorreva nelle vene non come nebbia che offusca, ma come un catalizzatore che cristallizzava pensieri rimasti troppo a lungo in soluzione.

Osservò la stanza, non con lo shock che ci si aspetterebbe da una neofita, ma con il riconoscimento viscerale di chi scopre una geografia che ha sempre abitato nei sogni. Ogni strumento di dominazione e piacere le parlava in un linguaggio che il suo corpo comprendeva prima ancora che la mente potesse tradurlo. La croce, le fruste, le corde, erano traduzioni fisiche di fantasie che aveva seppellito sotto strati di rispettabilità.

La sua mente tornò al ristorante, a quell’impudente abbandono sotto il tavolo. La donna che si era inginocchiata tra le gambe di Dago era una versione di sé che aveva sempre temuto e desiderato simultaneamente. E poi lo sguardo di Francesca, quegli occhi che non l’avevano semplicemente vista, ma *riconosciuta*. Sotto quello sguardo, si era sentita messa a nudo molto prima di togliersi un solo indumento.

Quella donna, con la sua carnalità senza apologie, i suoi tacchi che dichiaravano guerra a ogni aspettativa di decoro, le sue ciocche viola che sfidavano l’irreversibilità del tempo, aveva spalancato una porta dentro di lei.

C’era stata una comunicazione silenziosa tra loro al tavolo, un linguaggio fatto di micro-espressioni e sguardi trattenuti. Francesca aveva fatto qualcosa che nessun uomo, neppure Dago con tutta la sua abilità erotica, era riuscito a fare: l’aveva letta. Aveva guardato oltre la superficie di Roberta, la professionista competente, l’amante appassionata, la donna che esplorava la propria sessualità, e aveva visto la creatura selvaggia che vi abitava dentro, quella che sognava di essere posseduta e di possedere con egual ferocia.

Le sue dita trovarono la zip del vestito prima ancora che la decisione cosciente si formasse. Non era uno spogliarello, non c’era nulla di performativo. Era un’abdicazione. Stava abbandonando i costumi che aveva indossato nella commedia sociale della sua vita. Il vestito cade a terra come pella vecchia che non le serviva più.

Ciò che voleva non era solo il sesso o solo la trasgressione. Voleva essere vista. Completamente. Senza i veli di ironia o pudore che aveva sempre usato come scudi. Voleva la libertà di cui Francesca aveva parlato, quella di desiderare senza vergogna e manifestare senza paura.

C’era, nella sua nudità, una dichiarazione che superava il semplice erotismo. Una reclamazione. Il suo corpo, che la società aveva sempre insegnato essere o un oggetto di desiderio o un tempio sacro, non era né l’uno né l’altro, era semplicemente suo. Un territorio da esplorare secondo le proprie regole.

Sentì un potere strano nello stare nuda mentre loro erano ancora vestiti. Non vulnerabilità, ma controllo. Come se, denudandosi per prima, avesse preso il comando di quello che sarebbe accaduto dopo.

Non sapeva esattamente cosa sarebbe potuto accadere dopo, e questa era forse la più grande libertà di tutte. Il non sapere. Il permettersi di essere sorpresa. Il lasciare che il desiderio, non il pensiero, guidasse i suoi movimenti.

Roberta si guardava in giro con un’espressione che oscillava tra sorpresa ed eccitazione mentre Dago studiava la stanza con l’occhio di chi riconosce un territorio familiare; eppure, gravido di nuove possibilità. A differenza dei set che allestiva per le sue sessioni fotografiche, qui ogni oggetto trasudava autenticità, non strumenti di scena ma estensioni dell’anima, testimoni silenziosi di piaceri reali, non simulati. Qualcosa dentro di lui scattò in posizione, l’ultimo tassello di un enigma finalmente risolto.

“Qualcosa avevo intuito di te, ma non fino a questo punto…” disse, la voce controllata che tradiva l’eccitazione sotterranea mentre catalogava metodicamente ogni pezzo di quell’arsenale erotico con l’attenzione di un archeologo davanti a un tesoro inviolato. C’era quasi sollievo nel suo tono, come un esiliato che ritrova finalmente qualcuno che parla la sua lingua madre. “Non avrei mai immaginato che avessi… un posto del genere… in casa…” La frase si allungò nell’aria come una domanda non formulata.

La sua voce giunse disincarnata da dietro il separè, un oracolo sospeso nell’ombra. “Ognuno ha i propri vizi e le proprie virtù.” Si percepiva il fruscio di tessuti, il sussurro di lacci tirati. “Quando hai la possibilità di fare troppe cose, rischi di annoiarti, di diventare apatica, insensibile al piacere ordinario…” Una pausa carica di memorie non condivise. “Fu così che una sera, dopo una generosa dose di sostanze ricreative, io e la mia migliore amica fummo trasformate in giocattoli di piacere da un gruppo di intellettuali da cui ci aspettavamo dissertazioni filosofiche, non l’alfabeto carnale che ci insegnarono.” Un’altra pausa, la mente immersa in quell’epifania lontana. “Mi si aprì un mondo che ho esplorato gradualmente, come un continente sconosciuto, sentiero dopo sentiero, confine dopo confine.”

Emerse trasformata: il corpetto di pelle non semplicemente indossato ma fuso con la sua carne, le stecche che ridisegnavano la sua anatomia, sostenendo i seni come offerte sacrali, stringendo i fianchi in una promessa di controllo e abbandono. I tacchi di vernice lucida ridefinivano completamente la sua biomeccanica, conferendole quella camminata che sempre risvegliava nelle viscere di Dago il ragazzo adolescente affamato di prime volte.

“Appena ti ho visto, ho respirato la tua… forza, un’energia innata. Dominante.” Un sorriso nella sua direzione mentre restava immobile accanto al separé, concedendo ad entrambi il tempo di ammirarla nella sua metamorfosi. “Io invece mi adatto alle situazioni. Sottomessa con alcuni,” il tono improvvisamente remissivo, lo sguardo deliberatamente abbassato verso Dago, “con altri dominante.” Il ritorno all’autorità nella voce era una dimostrazione di quella fluidità, non una contraddizione ma un completamento. “Ma nella mia posizione, avevo bisogno di uno spazio dove la verità non fosse censurata dalle aspettative, dove potermi esprimere senza maschere, con la sicurezza che tutto restasse segreto e protetto. Ecco perché ho costruito tutto questo.”

Si mosse verso Roberta con la decisione di un predatore che riconosce non una preda ma un’uguale in un territorio diverso. Le dita affondarono nei capelli di Roberta con una fermezza che non ammetteva resistenza, ma il bacio che seguì non era un atto di conquista quanto di rivendicazione, un riconoscimento carnale. L’altra mano tracciava percorsi elettrici sulla pelle nuda, trovando con infallibile precisione sentieri nervosi che nemmeno Roberta sapeva di possedere. Le dita incontrarono i capezzoli già eretti, già imploranti, un dialogo silenzioso tra corpi che si riconoscevano oltre la consapevolezza.

Dago sentì ogni molecola della sua carne rispondere a quella chiamata primordiale. Gli abiti lo infastidivano come cilici medievali, insopportabili ora che il suo corpo reclamava libertà. Il suo cazzo pulsava dolorosamente contro la stoffa, una bestia ingabbiata che ruggiva per essere liberata. Cazzo, quanto lo eccitava vedere quelle due donne, femmine, creature fatte di una materia composta di carne e desiderio, il loro modo di muoversi, fondersi in quell’abbraccio fottutamente perfetto.

Si mosse verso di loro con l’inevitabilità di un pianeta catturato in un campo gravitazionale, i passi lenti ma inesorabili, mentre la sua erezione cresceva fino a diventare dolorosa, il glande già umido e pronto a marcare territorio.

La serata stava prendendo decisamente una direzione inaspettatamente interessante.

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scritto il
2025-06-09
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