Diario Sessuale – La Vacanza 05
di
Eli_AnimaNuda
genere
prime esperienze
Capitolo 5 - Quello che Clara sa
Il vino bianco era quasi finito nel mio bicchiere, e la goccia che colava dalla bottiglia lungo il vetro freddo mi aveva ipnotizzata per un attimo. Parlava Elisa, stava raccontando qualcosa a Clara, che rideva con quella risata piena, morbida, quasi materna. Io cercavo di sorridere, ma non sentivo più nulla in bocca. La lingua era umida, ma non per il vino. Mi accarezzavo il bicchiere con le dita e non capivo più se volevo bere o se stavo solo cercando qualcosa da toccare.
Sotto il tavolo, la sua mano si era appoggiata di nuovo sulla mia coscia.
Ferma. Sicura. Con le dita larghe. Calde. Avevo i muscoli tesi, la pelle umida, il respiro appena trattenuto.
Non potevo guardare in basso. Ma lo sentivo. Era Guido. Sapevo che era lui.
Mi aveva già sfiorata all’inizio della cena, ma poi si era limitato a sorridere a Elisa, a brindare con Clara. Aveva lasciato che mi dimenticassi. Che mi distraessi. Fino a quel momento.
La sua mano era risalita lentamente, mentre la conversazione proseguiva sopra le tovaglie. Clara stava parlando di un’escursione tra le dune, Elisa faceva battute. Io non sentivo più le parole. Solo il calore della mano di Guido.
Saliva. La pelle delle mie cosce si tendeva a ogni centimetro. E quando arrivò a sfiorare l’attaccatura dell’inguine, ricordai di colpo che non indossavo le mutandine. Le avevo lasciate nella HU House, dentro la borsa. Lo avevo fatto apposta.
Chiusi gli occhi. Il mio cuore accelerò. Sotto il tavolo, lui lo sapeva. Lo sapeva. E stava sorridendo.
Le sue dita non si muovevano a caso. Era come se sapessero dove andare, quanto spingere, quanta pelle toccare per farmi dimenticare tutto il resto. Non accarezzavano: scrutavano. Testavano. La stoffa sottile del vestito aderiva alle cosce, umida del mio stesso calore, e ogni suo tocco sembrava infilarsi sotto, piegare l’aria, aprirmi senza che potessi impedirlo.
Avevo le gambe unite solo in apparenza. Dentro tremavo. Il cuore correva. Il respiro restava in alto, trattenuto tra le scapole.
Mi sembrava che la forchetta tra le dita tremasse appena. Ma nessuno se ne accorse. Elisa stava raccontando qualcosa sul vino, Clara le faceva eco, con quel tono divertito che sembrava tenermi al sicuro. Ma la verità era che ero già stata presa. Lì. A tavola. In mezzo a loro.
Quando il dito medio di Guido scivolò lentamente verso l’interno della coscia, sfiorando il punto in cui le gambe si uniscono, il mio ventre si contrasse da solo. Lui non tremava. Non esitava. Premeva piano. Voleva la conferma. E ce l’aveva.
Sotto il vestito, niente. Niente mutandine. Niente barriera. Niente difesa.
Avevo la pelle umida e tesa, le grandi labbra pulsavano contro il vuoto. Il sesso aperto, appena unto, odorava di desiderio fresco e trattenuto. Lo sapevo. Lo sentivo. E anche lui lo sentì.
Una pressione appena più forte, con il pollice, sopra il pube. Dritto sulla piega. Un tocco che non cercava piacere, ma affermazione. Come a dire: sei esattamente come ti volevo.
Serravo le cosce per istinto, ma era inutile. Lui se ne andò prima. Ritirò la mano con lentezza, senza una parola. E io rimasi lì, incollata alla sedia, con le gambe bagnate, le labbra che non riuscivano a dire nulla, il cuore che batteva nel sesso.
Mi alzai. Così, senza guardare nessuno. Nessuno mi fermò. Nessuno disse una parola. Solo Clara mi osservò.
Un istante. Uno sguardo che non era stupito. Non era curioso. Era consapevole. Mi voltai. E andai in bagno.
Quando le dita di Guido si staccarono dalla mia pelle, ebbi l’impressione che lasciassero un’impronta viva. Calda. Come se mi avessero marchiata con il vuoto. Ma era tutto lì. Tra le cosce. Una pozza tiepida che scivolava lenta, invisibile, ma troppo reale per fingere che non fosse successo niente.
Mi mossi solo dopo qualche secondo, quando la mia coscia tremò da sola e capii che non potevo restare ferma. Le gambe si piegarono appena. La sedia graffiò il pavimento, e il mio respiro si fermò a metà.
––Vado un attimo in bagno.
Non guardai nessuno. Non chiesi il permesso. Lo dissi come se dovessi solo asciugarmi le mani. Ma dentro di me era un’alluvione. Le labbra umide, le pareti del sesso che pulsavano a vuoto, la gola stretta da un silenzio che mi faceva prudere la lingua.
Clara alzò gli occhi. Solo lei. Uno sguardo rapido, pieno di qualcosa che non era sorpresa. Era sapere. Era presenza. Era un
Mi voltai senza dire altro. Attraversai il ristorante come se stessi sfilando nuda.
Ogni passo era una scossa. La stoffa del vestito, leggera e umida, si staccava e si riattaccava alla pelle come una carezza insistente. Non portavo nulla sotto. Il mio sesso era esposto solo alla trama del tessuto. E sentivo la goccia. Una. Lunga. Calda. Che scendeva lentamente lungo l’interno coscia.
Mi pizzicai le labbra con i denti per non aprire la bocca. L’aria era calda. Profumava di cucina, di vino, di sudore maschile e profumi femminili mescolati. Ma il mio odore era più forte. Lo sentivo salire dalle gambe, passarmi tra le pieghe del vestito, mescolarsi al battito che spingeva nel ventre.
Aprii la porta del bagno. Il neon era pallido, tremolante. La luce aveva un suono. E l’odore dentro era acido, maschile, disinfettato. Ma sotto… c’era qualcosa di umano. Di sporco. Di vero.
Mi appoggiai alla parete. Chiusi gli occhi.
Poi… sentii il rumore. Uno schiocco secco. La porta che si apriva alle mie spalle. E Guido. Dentro. Silenzioso.
Non disse nulla. Solo il rumore dei suoi passi. Lenti. Sicuri. Dietro di me.
Mi girai. E lo guardai.
La porta si richiuse con un colpo secco. Il rumore metallico della serratura che scatta mi fece vibrare la cassa toracica. Nessuna parola. Solo quel suono. E il vuoto attorno. Sapevo già che non ci sarebbe stato nulla da dire.
Guido avanzò di un passo. Io restai lì, con la schiena appoggiata alla piastrella ruvida e fredda. Il neon sopra di noi tremolava, e con lui l’aria, l’ombra, i margini del suo corpo. Sembrava più grande in quello spazio stretto. Più animale. Ogni volta che lo guardavo, sembrava riempire più spazio del dovuto.
Mi osservava. Ma non come si osserva una persona. Come si guarda una cosa.
Poi si mosse. Due dita nella mia nuca. Un gesto preciso, ruvido. Strinse forte. Non per affetto. Per possesso.
Il fermaglio tra i miei capelli cedette in un istante. I denti di plastica si spezzarono e scivolarono a terra. Sentii le ciocche scendere sulle spalle, liberarsi, sciogliersi. Ma le sue dita restarono lì, affondate tra le radici, a guidarmi verso il basso.
Mi inginocchiai. Non c’era scelta. Le ginocchia nude toccarono il pavimento freddo, umido, sporco. Sentii il liquido che avevo tra le cosce colare lento fino a lambire il bordo della mattonella. Un brivido mi attraversò le scapole.
Lui si sbottonò i pantaloni senza guardarmi. Il suono della zip riempì il bagno come un colpo. Poi lo tirò fuori.
Il suo cazzo uscì a metà. Non ancora del tutto in erezione, ma enorme già così. Pesante. Spesso. La pelle era chiara, segnata da vene gonfie, vive, che disegnavano una mappa virile e implacabile lungo tutto l’asse. La cappella era grossa, esagerata, più larga del corpo. Un fungo carnoso, gonfio, appena umido. Aveva il colore del sangue trattenuto.
E poi… l’odore. Mi travolse come uno schiaffo.
Era un misto di pelle calda, sudore maschile, urina trattenuta, sperma secco e profondo. Un odore pieno. Crudo. Fermentato. Mi entrò nel naso, nella bocca, tra le ciglia. Lo sentii scendere in gola ancora prima di toccarlo. Il mio respiro cambiò. Il ventre si contrasse. Le labbra tremarono da sole.
Guido non disse nulla. Mai. Mi tirò ancora i capelli, mi fece inclinare la testa. E senza preavviso, mi infilò il cazzo in bocca. Tutto.
Fino alla gola.
Quando mi entrò in bocca, fu come se il mio viso fosse diventato una cosa. Una fessura. Una funzione. Il suo cazzo spinse le labbra con la forza di qualcosa che non cercava accoglienza, ma spazio. Mi aprì la bocca senza aspettare. Senza fermarsi. Mi attraversò la lingua, premette sul palato, poi andò giù. Verso la gola. Non fui io a prenderlo. Fu lui a infilarsi. In profondità.
Il mio corpo reagì. La gola si chiuse d’istinto. Ma era troppo tardi. Guido mi tirava i capelli con una mano, con l’altra mi teneva sotto la mandibola, spingendomi verso di lui come se dovessi incastrarmi in quel cazzo grosso, spesso, gonfio come una vena esplosa.
Il mio mento premeva contro le sue palle calde, dure, pelose.
Ogni centimetro dentro portava un odore più forte. Non solo di pelle. Ma di maschio. Di cazzo sudato, di urina rimasta nella carne, di sperma vecchio. Un odore che mi entrava nel naso, negli occhi, nei pori. Mi si attaccava alle ciglia, al fondo della gola, e si mescolava con l’umido caldo della mia saliva.
Il sapore era salato, ferroso, corposo. Ogni affondo me lo lasciava addosso. Quando lo sentivo rientrare, la cappella mi accarezzava l’ugola con uno strato più spesso, più pieno, come se mi stesse pitturando dentro.
Ingoiavo senza volerlo. Ma non bastava mai.
Mi mancava il respiro. Il viso si arrossava. Le lacrime iniziarono a scendere senza controllo. Non per dolore. Per invasione. Avevo la gola spezzata. Aperta. Lui non gemeva. Respirava solo più forte. Un suono cavernoso, profondo, che vibrava nel suo petto e nella mia testa.
Ogni spinta era più decisa. Più violenta. Ma mai fuori controllo. Guido sapeva esattamente quanto farmi soffocare. Quando trattenere. Quando spingere. E quando non lasciarmi scappare. Sentii il primo scatto nei fianchi. Il cazzo si gonfiò ancora.
Poi venne.
Un getto improvviso. Denso. Caldo. Mi colpì la gola come una colata.
Il secondo arrivò subito. Più forte. Il terzo fu uno schiaffo profondo. Ogni sussulto del suo bacino mi obbligava a ingoiare. Non c’era spazio per altro. Nessuna possibilità di rifiutare.
E io… lo feci. Ingoiai tutto. Per istinto. Per istupidimento. Per fame che non capivo.
Il cazzo gli pulsava ancora tra le labbra, umido, gonfio, vivo. Lo tenne lì un istante. Poi lo sfilò piano. La cappella era viola, lucida, coperta del mio stesso pianto. Mi guardò. Come si guarda qualcosa che è servita.
Poi lo passò sulla mia guancia. Lentamente. Come a pulirsi.
E su quella pelle, che aveva tremato sotto il suo odore… lasciò la sua ultima goccia.
Poi si voltò.
E se ne andò.
Rimasi lì. In ginocchio. La bocca semiaperta. Il respiro lento, denso, come se stessi ancora ingoiando. Ma era finito. Era tutto dentro. E qualcosa di me… era cambiato.
Il cazzo di Guido mi aveva spezzato la gola. Ma non solo. Mi aveva fatto venire.
Me ne accorsi con un ritardo irreale. Come se il corpo l’avesse saputo prima di me. Come se avesse goduto mentre soffocava. Mentre il naso si schiacciava contro la sua pancia ruvida, mentre le lacrime mi scendevano sugli zigomi. In quel momento, mentre cercavo l’aria… avevo sentito la vibrazione. Era successo. E ora… colavo.
Le cosce erano bagnate, letteralmente fradice. Il pavimento sotto di me era sporco, ma quello che sentivo non era il sudore. Era altro. Il mio sesso era ancora scosso da piccoli spasmi, contrazioni involontarie, lente. Dolci. Ero venuta senza toccarmi. Solo con la gola. Solo accogliendolo. Solo subendo.
La cappella di Guido mi aveva lasciato una traccia sulla guancia. Lo sentivo seccarsi. Una goccia spessa, appiccicosa, con un odore acido e pungente. Mi toccai con due dita. La raccolsi. La portai al naso. Inspirai a fondo.
L’odore era lui. Forte, maschio, sudato. Una miscela di carne e volontà. Ma sotto… c’era anche me. Il mio alito, la mia saliva, il mio sbocco.
Mi toccai tra le cosce, piano. Solo con la punta delle dita. Scivolai su una lingua di umido che mi bagnava tutta. Fino all’ano. Era tiepida, scivolosa. Un piccolo lago personale.
“Mi ha fatto godere. Con la bocca piena. Senza che me ne accorgessi.”
Mi sedetti lentamente sul pavimento, le gambe molli, le ginocchia aperte, il sesso esposto all’aria stantia del bagno. Mi guardai il ventre: teso. Il petto si sollevava ancora a scatti. Le spalle erano abbassate. Sfinita. Ma viva.
Appoggiai la testa al muro e lasciai uscire il fiato. Piano. Il sapore era ancora lì. Più in basso. Come se avesse lasciato un’impronta. Un peso.
Non avevo solo ingoiato. Avevo preso dentro. Fino in fondo. Avevo accolto. E quella goccia sulla guancia… la lasciai lì.
Perché era la prova che non avevo sognato niente.
Mi tirai su lentamente, come se ogni fibra del mio corpo dovesse reintegrarsi in una forma nuova. Le ginocchia bruciavano. La pelle era rigata dal contatto ruvido con il pavimento. E tra le gambe… sentivo ancora colare.
Non mi rivestii. Non mi sistemai.
Mi osservai allo specchio, e quel riflesso non ero più io. O forse lo ero finalmente. Le labbra gonfie, aperte appena. Il naso lucido di lacrime asciugate. I capelli spettinati dal pugno di Guido, appiccicati alle tempie. La pelle aveva un riflesso diverso: umida, viva, macchiata di qualcosa che non si vede ma si sente. Avevo ancora la sua goccia sulla guancia. La lasciavo lì. Come un segno.
Abbassai lentamente la mano tra le gambe. Toccai la piega interna delle cosce. Umida. Viscida. Piena.
Le dita si posarono sul sesso. Aperto. Gonfio. Ancora pulsante. Il clitoride duro, sensibile. La fessura calda, morbida, bagnata della mia stessa resa. Mi toccai solo un secondo. Bastò per sentire la scossa. Il corpo ricordava. La gola ricordava.
Presi un pezzo di carta, lo passai tra le cosce. Il rumore fu umido, lento. Quando lo guardai, era sporco. Lascivo. Aveva un alone scuro, e l’odore salato del mio godere. Lo annusai piano. E lo buttai.
Uscire dal bagno fu come emergere da un’altra dimensione. L’aria del ristorante era più fredda, più leggera, ma non abbastanza per lavarmi via.
Camminai tra i tavoli. A piedi nudi dentro i sandali. Ogni passo era un promemoria.
Sentivo il liquido secco sulla pelle, la guancia umida, le labbra aperte. I seni si muovevano sotto il vestito con un ritmo nuovo, come se sapessero di appartenere a qualcuno che li aveva già spogliati dentro.
Arrivai al nostro tavolo. Elisa stava ridendo. Clara sorseggiava lentamente il vino. Guido… già seduto. Il cazzo che mi aveva strozzata era tornato al suo posto. Ma io… io non ero tornata affatto.
Ero rimasta lì, con lui. In ginocchio.
Mi sedetti senza dire una parola.
Clara sollevò lo sguardo. I suoi occhi si posarono sulla mia bocca. Poi sul collo. Poi scesero sul petto, sulle gambe. Sapeva leggere la pelle. Sapeva vedere l’odore. Il suo sorriso fu lentissimo. E non era gentile. Era una carezza sadica.
Poi bevve.
E mi lasciò lì, col sapore addosso.
Mi svegliai di colpo, come scossa da un richiamo muto. Non un rumore. Una pressione dentro. La gola pulsava, la bocca aperta a metà, ancora gonfia. L’aria era densa, ferma, calda. La stanza era vuota. Elisa non c’era. Il letto accanto freddo. E in quell’assenza... il mio odore era più forte. Ma sotto... c’era lui. Portai le dita al volto. Lì, sulla guancia, c’era ancora quella goccia secca. La sentii sotto il polpastrello: appiccicosa, sottile, maschile. L’annusai. Era sperma. Duro, acido, ormai fuso con la mia pelle. Il sesso reagì prima di me. Un guizzo. Una fitta profonda. Mi accorsi che stavo gocciolando. Ancora. L’interno coscia era umido, appiccicoso, acceso. Mi alzai. I piedi nudi sul pavimento mi riportarono nella carne. Ogni passo era un’eco di quel cazzo che mi aveva spinta giù. Entrai in bagno senza luce. Solo il chiarore grigio della notte. Il mio riflesso mi respinse. Occhi dilatati, labbra lucide, capelli disordinati, gola aperta. Il mio corpo era ancora in ginocchio. E la gola... ancora marchiata. Mi sciacquai il viso con l’acqua. Ma senza strofinare. Non volevo pulirmi. Volevo tenerlo addosso. Indossai un vestitino leggero, bianco, senza pensare. Niente mutandine. Non per scelta. Per coerenza. Aprii la porta. L’aria della notte mi si appiccicò alla pelle come un sudore tiepido. Caldo. Umido. Viscoso. Camminai scalza sul legno della passerella. Ogni passo una pulsazione tra le gambe. Ogni odore portava a lui. Poi lo sentii. Secco. Ritmico. Sordo. Carne contro carne. Guido. Il mio ventre si contrasse da solo. La fessura si aprì, la pelle si fece più bagnata. Era lui. Era dentro qualcuna. E io lo sentivo. Non con le orecchie. Con la fica. E seguii il suono. Tremando. Fradicia. Sveglia. Aperta.
Camminavo senza rumore, il legno della passerella caldo sotto i piedi nudi, umido come la mia pelle. L’aria della notte mi accarezzava le gambe scoperte, ma non mi rinfrescava. Ero bagnata. Davvero. Il vestito leggero aderiva al ventre, al seno, al sesso. Senza mutande, ogni passo faceva sfiorare le grandi labbra tra loro. Il clitoride si gonfiava, sfregava. Mi faceva sussultare. E il suono… era sempre più chiaro. Colpi. Ritmici. Pieni. Umidi. Spinte vere. Il rumore del cazzo che entra. Che affonda. Che comanda. Guido. Lo riconoscevo dal suono. Dal modo in cui affondava. Dalla forza. Dalla carne che sbatteva. Mi fermai davanti alla HU House illuminata. Una finestra socchiusa. Luce calda. Dentro, il sesso. Vivo. Totale. Mi avvicinai in silenzio. Mi affacciai piano. Guido era in piedi, nudo, sudato, massiccio. Le mani affondate nei fianchi di una donna piegata sul letto. La prendeva da dietro con spinte lunghe, profonde, potenti. Le sue cosce si tendevano, il culo oscillava a ogni affondo, il cazzo scompariva tra le gambe di lei e poi tornava a brillare di umido. Il viso non si vedeva. Era schiacciato sul materasso. Il busto basso. Le braccia chiuse sotto di sé. Ma io la riconobbi. Dalla curva dei fianchi. Dai capelli lunghi e mossi. Dalla caviglia sottile e dal braccialetto dorato che portava sempre. Elisa. Piegata. Presa. Aperta. Con le chiappe rosse e la schiena che si inarcava a ogni colpo. Clara era lì. Nuda. Bellissima. La pelle chiara, i seni pieni, la bocca dischiusa. Era appoggiata al bordo del letto. Accarezzava Elisa. Lunga. Dolce. Sensuale. Le dita scorrevano dalla nuca alla base della schiena, sfioravano la colonna, disegnavano curve. Poi le prese i capelli. Li baciò. E baciò anche Guido. Mentre lui affondava dentro Elisa. La lingua nella sua bocca. Il cazzo nella figa dell’altra. Le mani in mezzo. E io… fuori. Immobile. Col fiato bloccato. Le cosce fradicie. La fessura aperta. Il cuore in gola. E Clara… sollevò lo sguardo. Lentamente. Mi vide. E non si stupì. Restò lì. A guardarmi. Senza smettere di accarezzare. Mentre lui… continuava ad affondare.
Clara mi guardava. Nuda. In piedi accanto al letto, illuminata da una luce gialla e bassa che accarezzava il suo corpo levigato, i seni pieni, il ventre disteso. Gli occhi nei miei. Lenti. Consapevoli. Sapeva. E non faceva nulla per nasconderlo. Guido stava scopando Elisa da dietro con una forza lenta e devastante. Ogni affondo era un colpo pieno, profondo, ritmato. Il bacino le schiaffeggiava il culo a ogni spinta, le mani le afferravano i fianchi con violenza, scavando nella carne, trattenendola. Elisa era completamente piegata in avanti, le braccia raccolte sotto il corpo, il viso affondato nel materasso, schiacciato. I capelli sparsi sulle lenzuola, le scapole sollevate, la schiena contratta. Gemiti spezzati le uscivano dalla gola, gutturali, sconnessi. Tremava. Il corpo si muoveva in onde scomposte. Era nel pieno. Un orgasmo feroce la stava attraversando. La vedevo irrigidirsi, poi contrarsi, poi crollare e subito risalire. Guido non rallentava. Anzi. Affondava ancora più forte, con i glutei contratti, le gambe ferme, la testa china. Sudava. Respirava con la bocca aperta, gli occhi fissi sulla figa che stava riempiendo. Clara era la regina della scena. Con una mano continuava ad accarezzare Elisa. La toccava sulla schiena, tracciando linee lungo la colonna, scivolando fino ai reni. Poi saliva. Le accarezzava i capelli. Le sussurrava qualcosa all’orecchio, vicino, senza smettere di sfiorarla. Con l’altra mano... prendeva Guido. Gli stringeva un capezzolo, gli sfiorava i pettorali, gli passava le dita tra i peli del petto. E ogni tanto... si bagnava le dita tra le gambe. Lentamente. Senza smettere di guardarmi. Perché sì. Mi guardava. I suoi occhi erano fermi nei miei. Il viso leggermente inclinato. Le labbra appena dischiuse. La lingua che sfiorava il labbro inferiore. Poi un sorriso. Lentissimo. Non tenero. Non ambiguo. Sadico. Come se mi stesse spogliando da lontano. Come se sapesse che il mio odore stava colando lungo le cosce. Che la mia fica stava palpitando sotto il vestito. Che mi ero svegliata solo per essere presa con lo sguardo. Clara si chinò. Baciò Guido sulla bocca, mentre lui affondava dentro Elisa, che gemette più forte, quasi gridò. Un singhiozzo di piacere la piegò in due. Clara allora le prese i capelli, li strinse, e le sussurrò qualcosa che non potevo sentire. Ma vidi Elisa inarcarsi. Vibrare. Rilasciare. Venire di nuovo. E io... restai lì. In piedi. Con il cuore in gola, la bocca secca e la fessura talmente bagnata da sentire una goccia scivolare giù per la coscia. Clara non distolse mai lo sguardo. Aveva già deciso. E io... ero già dentro quella stanza. Anche se non mi aveva fatto entrare.
Il vino bianco era quasi finito nel mio bicchiere, e la goccia che colava dalla bottiglia lungo il vetro freddo mi aveva ipnotizzata per un attimo. Parlava Elisa, stava raccontando qualcosa a Clara, che rideva con quella risata piena, morbida, quasi materna. Io cercavo di sorridere, ma non sentivo più nulla in bocca. La lingua era umida, ma non per il vino. Mi accarezzavo il bicchiere con le dita e non capivo più se volevo bere o se stavo solo cercando qualcosa da toccare.
Sotto il tavolo, la sua mano si era appoggiata di nuovo sulla mia coscia.
Ferma. Sicura. Con le dita larghe. Calde. Avevo i muscoli tesi, la pelle umida, il respiro appena trattenuto.
Non potevo guardare in basso. Ma lo sentivo. Era Guido. Sapevo che era lui.
Mi aveva già sfiorata all’inizio della cena, ma poi si era limitato a sorridere a Elisa, a brindare con Clara. Aveva lasciato che mi dimenticassi. Che mi distraessi. Fino a quel momento.
La sua mano era risalita lentamente, mentre la conversazione proseguiva sopra le tovaglie. Clara stava parlando di un’escursione tra le dune, Elisa faceva battute. Io non sentivo più le parole. Solo il calore della mano di Guido.
Saliva. La pelle delle mie cosce si tendeva a ogni centimetro. E quando arrivò a sfiorare l’attaccatura dell’inguine, ricordai di colpo che non indossavo le mutandine. Le avevo lasciate nella HU House, dentro la borsa. Lo avevo fatto apposta.
Chiusi gli occhi. Il mio cuore accelerò. Sotto il tavolo, lui lo sapeva. Lo sapeva. E stava sorridendo.
Le sue dita non si muovevano a caso. Era come se sapessero dove andare, quanto spingere, quanta pelle toccare per farmi dimenticare tutto il resto. Non accarezzavano: scrutavano. Testavano. La stoffa sottile del vestito aderiva alle cosce, umida del mio stesso calore, e ogni suo tocco sembrava infilarsi sotto, piegare l’aria, aprirmi senza che potessi impedirlo.
Avevo le gambe unite solo in apparenza. Dentro tremavo. Il cuore correva. Il respiro restava in alto, trattenuto tra le scapole.
Mi sembrava che la forchetta tra le dita tremasse appena. Ma nessuno se ne accorse. Elisa stava raccontando qualcosa sul vino, Clara le faceva eco, con quel tono divertito che sembrava tenermi al sicuro. Ma la verità era che ero già stata presa. Lì. A tavola. In mezzo a loro.
Quando il dito medio di Guido scivolò lentamente verso l’interno della coscia, sfiorando il punto in cui le gambe si uniscono, il mio ventre si contrasse da solo. Lui non tremava. Non esitava. Premeva piano. Voleva la conferma. E ce l’aveva.
Sotto il vestito, niente. Niente mutandine. Niente barriera. Niente difesa.
Avevo la pelle umida e tesa, le grandi labbra pulsavano contro il vuoto. Il sesso aperto, appena unto, odorava di desiderio fresco e trattenuto. Lo sapevo. Lo sentivo. E anche lui lo sentì.
Una pressione appena più forte, con il pollice, sopra il pube. Dritto sulla piega. Un tocco che non cercava piacere, ma affermazione. Come a dire: sei esattamente come ti volevo.
Serravo le cosce per istinto, ma era inutile. Lui se ne andò prima. Ritirò la mano con lentezza, senza una parola. E io rimasi lì, incollata alla sedia, con le gambe bagnate, le labbra che non riuscivano a dire nulla, il cuore che batteva nel sesso.
Mi alzai. Così, senza guardare nessuno. Nessuno mi fermò. Nessuno disse una parola. Solo Clara mi osservò.
Un istante. Uno sguardo che non era stupito. Non era curioso. Era consapevole. Mi voltai. E andai in bagno.
Quando le dita di Guido si staccarono dalla mia pelle, ebbi l’impressione che lasciassero un’impronta viva. Calda. Come se mi avessero marchiata con il vuoto. Ma era tutto lì. Tra le cosce. Una pozza tiepida che scivolava lenta, invisibile, ma troppo reale per fingere che non fosse successo niente.
Mi mossi solo dopo qualche secondo, quando la mia coscia tremò da sola e capii che non potevo restare ferma. Le gambe si piegarono appena. La sedia graffiò il pavimento, e il mio respiro si fermò a metà.
––Vado un attimo in bagno.
Non guardai nessuno. Non chiesi il permesso. Lo dissi come se dovessi solo asciugarmi le mani. Ma dentro di me era un’alluvione. Le labbra umide, le pareti del sesso che pulsavano a vuoto, la gola stretta da un silenzio che mi faceva prudere la lingua.
Clara alzò gli occhi. Solo lei. Uno sguardo rapido, pieno di qualcosa che non era sorpresa. Era sapere. Era presenza. Era un
Mi voltai senza dire altro. Attraversai il ristorante come se stessi sfilando nuda.
Ogni passo era una scossa. La stoffa del vestito, leggera e umida, si staccava e si riattaccava alla pelle come una carezza insistente. Non portavo nulla sotto. Il mio sesso era esposto solo alla trama del tessuto. E sentivo la goccia. Una. Lunga. Calda. Che scendeva lentamente lungo l’interno coscia.
Mi pizzicai le labbra con i denti per non aprire la bocca. L’aria era calda. Profumava di cucina, di vino, di sudore maschile e profumi femminili mescolati. Ma il mio odore era più forte. Lo sentivo salire dalle gambe, passarmi tra le pieghe del vestito, mescolarsi al battito che spingeva nel ventre.
Aprii la porta del bagno. Il neon era pallido, tremolante. La luce aveva un suono. E l’odore dentro era acido, maschile, disinfettato. Ma sotto… c’era qualcosa di umano. Di sporco. Di vero.
Mi appoggiai alla parete. Chiusi gli occhi.
Poi… sentii il rumore. Uno schiocco secco. La porta che si apriva alle mie spalle. E Guido. Dentro. Silenzioso.
Non disse nulla. Solo il rumore dei suoi passi. Lenti. Sicuri. Dietro di me.
Mi girai. E lo guardai.
La porta si richiuse con un colpo secco. Il rumore metallico della serratura che scatta mi fece vibrare la cassa toracica. Nessuna parola. Solo quel suono. E il vuoto attorno. Sapevo già che non ci sarebbe stato nulla da dire.
Guido avanzò di un passo. Io restai lì, con la schiena appoggiata alla piastrella ruvida e fredda. Il neon sopra di noi tremolava, e con lui l’aria, l’ombra, i margini del suo corpo. Sembrava più grande in quello spazio stretto. Più animale. Ogni volta che lo guardavo, sembrava riempire più spazio del dovuto.
Mi osservava. Ma non come si osserva una persona. Come si guarda una cosa.
Poi si mosse. Due dita nella mia nuca. Un gesto preciso, ruvido. Strinse forte. Non per affetto. Per possesso.
Il fermaglio tra i miei capelli cedette in un istante. I denti di plastica si spezzarono e scivolarono a terra. Sentii le ciocche scendere sulle spalle, liberarsi, sciogliersi. Ma le sue dita restarono lì, affondate tra le radici, a guidarmi verso il basso.
Mi inginocchiai. Non c’era scelta. Le ginocchia nude toccarono il pavimento freddo, umido, sporco. Sentii il liquido che avevo tra le cosce colare lento fino a lambire il bordo della mattonella. Un brivido mi attraversò le scapole.
Lui si sbottonò i pantaloni senza guardarmi. Il suono della zip riempì il bagno come un colpo. Poi lo tirò fuori.
Il suo cazzo uscì a metà. Non ancora del tutto in erezione, ma enorme già così. Pesante. Spesso. La pelle era chiara, segnata da vene gonfie, vive, che disegnavano una mappa virile e implacabile lungo tutto l’asse. La cappella era grossa, esagerata, più larga del corpo. Un fungo carnoso, gonfio, appena umido. Aveva il colore del sangue trattenuto.
E poi… l’odore. Mi travolse come uno schiaffo.
Era un misto di pelle calda, sudore maschile, urina trattenuta, sperma secco e profondo. Un odore pieno. Crudo. Fermentato. Mi entrò nel naso, nella bocca, tra le ciglia. Lo sentii scendere in gola ancora prima di toccarlo. Il mio respiro cambiò. Il ventre si contrasse. Le labbra tremarono da sole.
Guido non disse nulla. Mai. Mi tirò ancora i capelli, mi fece inclinare la testa. E senza preavviso, mi infilò il cazzo in bocca. Tutto.
Fino alla gola.
Quando mi entrò in bocca, fu come se il mio viso fosse diventato una cosa. Una fessura. Una funzione. Il suo cazzo spinse le labbra con la forza di qualcosa che non cercava accoglienza, ma spazio. Mi aprì la bocca senza aspettare. Senza fermarsi. Mi attraversò la lingua, premette sul palato, poi andò giù. Verso la gola. Non fui io a prenderlo. Fu lui a infilarsi. In profondità.
Il mio corpo reagì. La gola si chiuse d’istinto. Ma era troppo tardi. Guido mi tirava i capelli con una mano, con l’altra mi teneva sotto la mandibola, spingendomi verso di lui come se dovessi incastrarmi in quel cazzo grosso, spesso, gonfio come una vena esplosa.
Il mio mento premeva contro le sue palle calde, dure, pelose.
Ogni centimetro dentro portava un odore più forte. Non solo di pelle. Ma di maschio. Di cazzo sudato, di urina rimasta nella carne, di sperma vecchio. Un odore che mi entrava nel naso, negli occhi, nei pori. Mi si attaccava alle ciglia, al fondo della gola, e si mescolava con l’umido caldo della mia saliva.
Il sapore era salato, ferroso, corposo. Ogni affondo me lo lasciava addosso. Quando lo sentivo rientrare, la cappella mi accarezzava l’ugola con uno strato più spesso, più pieno, come se mi stesse pitturando dentro.
Ingoiavo senza volerlo. Ma non bastava mai.
Mi mancava il respiro. Il viso si arrossava. Le lacrime iniziarono a scendere senza controllo. Non per dolore. Per invasione. Avevo la gola spezzata. Aperta. Lui non gemeva. Respirava solo più forte. Un suono cavernoso, profondo, che vibrava nel suo petto e nella mia testa.
Ogni spinta era più decisa. Più violenta. Ma mai fuori controllo. Guido sapeva esattamente quanto farmi soffocare. Quando trattenere. Quando spingere. E quando non lasciarmi scappare. Sentii il primo scatto nei fianchi. Il cazzo si gonfiò ancora.
Poi venne.
Un getto improvviso. Denso. Caldo. Mi colpì la gola come una colata.
Il secondo arrivò subito. Più forte. Il terzo fu uno schiaffo profondo. Ogni sussulto del suo bacino mi obbligava a ingoiare. Non c’era spazio per altro. Nessuna possibilità di rifiutare.
E io… lo feci. Ingoiai tutto. Per istinto. Per istupidimento. Per fame che non capivo.
Il cazzo gli pulsava ancora tra le labbra, umido, gonfio, vivo. Lo tenne lì un istante. Poi lo sfilò piano. La cappella era viola, lucida, coperta del mio stesso pianto. Mi guardò. Come si guarda qualcosa che è servita.
Poi lo passò sulla mia guancia. Lentamente. Come a pulirsi.
E su quella pelle, che aveva tremato sotto il suo odore… lasciò la sua ultima goccia.
Poi si voltò.
E se ne andò.
Rimasi lì. In ginocchio. La bocca semiaperta. Il respiro lento, denso, come se stessi ancora ingoiando. Ma era finito. Era tutto dentro. E qualcosa di me… era cambiato.
Il cazzo di Guido mi aveva spezzato la gola. Ma non solo. Mi aveva fatto venire.
Me ne accorsi con un ritardo irreale. Come se il corpo l’avesse saputo prima di me. Come se avesse goduto mentre soffocava. Mentre il naso si schiacciava contro la sua pancia ruvida, mentre le lacrime mi scendevano sugli zigomi. In quel momento, mentre cercavo l’aria… avevo sentito la vibrazione. Era successo. E ora… colavo.
Le cosce erano bagnate, letteralmente fradice. Il pavimento sotto di me era sporco, ma quello che sentivo non era il sudore. Era altro. Il mio sesso era ancora scosso da piccoli spasmi, contrazioni involontarie, lente. Dolci. Ero venuta senza toccarmi. Solo con la gola. Solo accogliendolo. Solo subendo.
La cappella di Guido mi aveva lasciato una traccia sulla guancia. Lo sentivo seccarsi. Una goccia spessa, appiccicosa, con un odore acido e pungente. Mi toccai con due dita. La raccolsi. La portai al naso. Inspirai a fondo.
L’odore era lui. Forte, maschio, sudato. Una miscela di carne e volontà. Ma sotto… c’era anche me. Il mio alito, la mia saliva, il mio sbocco.
Mi toccai tra le cosce, piano. Solo con la punta delle dita. Scivolai su una lingua di umido che mi bagnava tutta. Fino all’ano. Era tiepida, scivolosa. Un piccolo lago personale.
“Mi ha fatto godere. Con la bocca piena. Senza che me ne accorgessi.”
Mi sedetti lentamente sul pavimento, le gambe molli, le ginocchia aperte, il sesso esposto all’aria stantia del bagno. Mi guardai il ventre: teso. Il petto si sollevava ancora a scatti. Le spalle erano abbassate. Sfinita. Ma viva.
Appoggiai la testa al muro e lasciai uscire il fiato. Piano. Il sapore era ancora lì. Più in basso. Come se avesse lasciato un’impronta. Un peso.
Non avevo solo ingoiato. Avevo preso dentro. Fino in fondo. Avevo accolto. E quella goccia sulla guancia… la lasciai lì.
Perché era la prova che non avevo sognato niente.
Mi tirai su lentamente, come se ogni fibra del mio corpo dovesse reintegrarsi in una forma nuova. Le ginocchia bruciavano. La pelle era rigata dal contatto ruvido con il pavimento. E tra le gambe… sentivo ancora colare.
Non mi rivestii. Non mi sistemai.
Mi osservai allo specchio, e quel riflesso non ero più io. O forse lo ero finalmente. Le labbra gonfie, aperte appena. Il naso lucido di lacrime asciugate. I capelli spettinati dal pugno di Guido, appiccicati alle tempie. La pelle aveva un riflesso diverso: umida, viva, macchiata di qualcosa che non si vede ma si sente. Avevo ancora la sua goccia sulla guancia. La lasciavo lì. Come un segno.
Abbassai lentamente la mano tra le gambe. Toccai la piega interna delle cosce. Umida. Viscida. Piena.
Le dita si posarono sul sesso. Aperto. Gonfio. Ancora pulsante. Il clitoride duro, sensibile. La fessura calda, morbida, bagnata della mia stessa resa. Mi toccai solo un secondo. Bastò per sentire la scossa. Il corpo ricordava. La gola ricordava.
Presi un pezzo di carta, lo passai tra le cosce. Il rumore fu umido, lento. Quando lo guardai, era sporco. Lascivo. Aveva un alone scuro, e l’odore salato del mio godere. Lo annusai piano. E lo buttai.
Uscire dal bagno fu come emergere da un’altra dimensione. L’aria del ristorante era più fredda, più leggera, ma non abbastanza per lavarmi via.
Camminai tra i tavoli. A piedi nudi dentro i sandali. Ogni passo era un promemoria.
Sentivo il liquido secco sulla pelle, la guancia umida, le labbra aperte. I seni si muovevano sotto il vestito con un ritmo nuovo, come se sapessero di appartenere a qualcuno che li aveva già spogliati dentro.
Arrivai al nostro tavolo. Elisa stava ridendo. Clara sorseggiava lentamente il vino. Guido… già seduto. Il cazzo che mi aveva strozzata era tornato al suo posto. Ma io… io non ero tornata affatto.
Ero rimasta lì, con lui. In ginocchio.
Mi sedetti senza dire una parola.
Clara sollevò lo sguardo. I suoi occhi si posarono sulla mia bocca. Poi sul collo. Poi scesero sul petto, sulle gambe. Sapeva leggere la pelle. Sapeva vedere l’odore. Il suo sorriso fu lentissimo. E non era gentile. Era una carezza sadica.
Poi bevve.
E mi lasciò lì, col sapore addosso.
Mi svegliai di colpo, come scossa da un richiamo muto. Non un rumore. Una pressione dentro. La gola pulsava, la bocca aperta a metà, ancora gonfia. L’aria era densa, ferma, calda. La stanza era vuota. Elisa non c’era. Il letto accanto freddo. E in quell’assenza... il mio odore era più forte. Ma sotto... c’era lui. Portai le dita al volto. Lì, sulla guancia, c’era ancora quella goccia secca. La sentii sotto il polpastrello: appiccicosa, sottile, maschile. L’annusai. Era sperma. Duro, acido, ormai fuso con la mia pelle. Il sesso reagì prima di me. Un guizzo. Una fitta profonda. Mi accorsi che stavo gocciolando. Ancora. L’interno coscia era umido, appiccicoso, acceso. Mi alzai. I piedi nudi sul pavimento mi riportarono nella carne. Ogni passo era un’eco di quel cazzo che mi aveva spinta giù. Entrai in bagno senza luce. Solo il chiarore grigio della notte. Il mio riflesso mi respinse. Occhi dilatati, labbra lucide, capelli disordinati, gola aperta. Il mio corpo era ancora in ginocchio. E la gola... ancora marchiata. Mi sciacquai il viso con l’acqua. Ma senza strofinare. Non volevo pulirmi. Volevo tenerlo addosso. Indossai un vestitino leggero, bianco, senza pensare. Niente mutandine. Non per scelta. Per coerenza. Aprii la porta. L’aria della notte mi si appiccicò alla pelle come un sudore tiepido. Caldo. Umido. Viscoso. Camminai scalza sul legno della passerella. Ogni passo una pulsazione tra le gambe. Ogni odore portava a lui. Poi lo sentii. Secco. Ritmico. Sordo. Carne contro carne. Guido. Il mio ventre si contrasse da solo. La fessura si aprì, la pelle si fece più bagnata. Era lui. Era dentro qualcuna. E io lo sentivo. Non con le orecchie. Con la fica. E seguii il suono. Tremando. Fradicia. Sveglia. Aperta.
Camminavo senza rumore, il legno della passerella caldo sotto i piedi nudi, umido come la mia pelle. L’aria della notte mi accarezzava le gambe scoperte, ma non mi rinfrescava. Ero bagnata. Davvero. Il vestito leggero aderiva al ventre, al seno, al sesso. Senza mutande, ogni passo faceva sfiorare le grandi labbra tra loro. Il clitoride si gonfiava, sfregava. Mi faceva sussultare. E il suono… era sempre più chiaro. Colpi. Ritmici. Pieni. Umidi. Spinte vere. Il rumore del cazzo che entra. Che affonda. Che comanda. Guido. Lo riconoscevo dal suono. Dal modo in cui affondava. Dalla forza. Dalla carne che sbatteva. Mi fermai davanti alla HU House illuminata. Una finestra socchiusa. Luce calda. Dentro, il sesso. Vivo. Totale. Mi avvicinai in silenzio. Mi affacciai piano. Guido era in piedi, nudo, sudato, massiccio. Le mani affondate nei fianchi di una donna piegata sul letto. La prendeva da dietro con spinte lunghe, profonde, potenti. Le sue cosce si tendevano, il culo oscillava a ogni affondo, il cazzo scompariva tra le gambe di lei e poi tornava a brillare di umido. Il viso non si vedeva. Era schiacciato sul materasso. Il busto basso. Le braccia chiuse sotto di sé. Ma io la riconobbi. Dalla curva dei fianchi. Dai capelli lunghi e mossi. Dalla caviglia sottile e dal braccialetto dorato che portava sempre. Elisa. Piegata. Presa. Aperta. Con le chiappe rosse e la schiena che si inarcava a ogni colpo. Clara era lì. Nuda. Bellissima. La pelle chiara, i seni pieni, la bocca dischiusa. Era appoggiata al bordo del letto. Accarezzava Elisa. Lunga. Dolce. Sensuale. Le dita scorrevano dalla nuca alla base della schiena, sfioravano la colonna, disegnavano curve. Poi le prese i capelli. Li baciò. E baciò anche Guido. Mentre lui affondava dentro Elisa. La lingua nella sua bocca. Il cazzo nella figa dell’altra. Le mani in mezzo. E io… fuori. Immobile. Col fiato bloccato. Le cosce fradicie. La fessura aperta. Il cuore in gola. E Clara… sollevò lo sguardo. Lentamente. Mi vide. E non si stupì. Restò lì. A guardarmi. Senza smettere di accarezzare. Mentre lui… continuava ad affondare.
Clara mi guardava. Nuda. In piedi accanto al letto, illuminata da una luce gialla e bassa che accarezzava il suo corpo levigato, i seni pieni, il ventre disteso. Gli occhi nei miei. Lenti. Consapevoli. Sapeva. E non faceva nulla per nasconderlo. Guido stava scopando Elisa da dietro con una forza lenta e devastante. Ogni affondo era un colpo pieno, profondo, ritmato. Il bacino le schiaffeggiava il culo a ogni spinta, le mani le afferravano i fianchi con violenza, scavando nella carne, trattenendola. Elisa era completamente piegata in avanti, le braccia raccolte sotto il corpo, il viso affondato nel materasso, schiacciato. I capelli sparsi sulle lenzuola, le scapole sollevate, la schiena contratta. Gemiti spezzati le uscivano dalla gola, gutturali, sconnessi. Tremava. Il corpo si muoveva in onde scomposte. Era nel pieno. Un orgasmo feroce la stava attraversando. La vedevo irrigidirsi, poi contrarsi, poi crollare e subito risalire. Guido non rallentava. Anzi. Affondava ancora più forte, con i glutei contratti, le gambe ferme, la testa china. Sudava. Respirava con la bocca aperta, gli occhi fissi sulla figa che stava riempiendo. Clara era la regina della scena. Con una mano continuava ad accarezzare Elisa. La toccava sulla schiena, tracciando linee lungo la colonna, scivolando fino ai reni. Poi saliva. Le accarezzava i capelli. Le sussurrava qualcosa all’orecchio, vicino, senza smettere di sfiorarla. Con l’altra mano... prendeva Guido. Gli stringeva un capezzolo, gli sfiorava i pettorali, gli passava le dita tra i peli del petto. E ogni tanto... si bagnava le dita tra le gambe. Lentamente. Senza smettere di guardarmi. Perché sì. Mi guardava. I suoi occhi erano fermi nei miei. Il viso leggermente inclinato. Le labbra appena dischiuse. La lingua che sfiorava il labbro inferiore. Poi un sorriso. Lentissimo. Non tenero. Non ambiguo. Sadico. Come se mi stesse spogliando da lontano. Come se sapesse che il mio odore stava colando lungo le cosce. Che la mia fica stava palpitando sotto il vestito. Che mi ero svegliata solo per essere presa con lo sguardo. Clara si chinò. Baciò Guido sulla bocca, mentre lui affondava dentro Elisa, che gemette più forte, quasi gridò. Un singhiozzo di piacere la piegò in due. Clara allora le prese i capelli, li strinse, e le sussurrò qualcosa che non potevo sentire. Ma vidi Elisa inarcarsi. Vibrare. Rilasciare. Venire di nuovo. E io... restai lì. In piedi. Con il cuore in gola, la bocca secca e la fessura talmente bagnata da sentire una goccia scivolare giù per la coscia. Clara non distolse mai lo sguardo. Aveva già deciso. E io... ero già dentro quella stanza. Anche se non mi aveva fatto entrare.
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