Diario Sessuale – La Vacanza 06

di
genere
prime esperienze

Capitolo 6 – Il corpo scritto

Mi svegliai nel buio opaco della HU, quando la luce non ha ancora deciso da che parte entrare. L’aria era ferma, densa, carica del mio stesso odore. Il condizionatore vibrava sommesso sopra di me, come se volesse coprire qualcosa. Ma non poteva. Niente può cancellare l’odore del seme asciugato sulla pelle.
Aprii gli occhi. Le ciglia mi tiravano. Avevo ancora croste invisibili intorno alla bocca. Una pellicola ruvida sulla guancia, dove Guido aveva finito. Senza una parola. Senza nemmeno guardarmi.
Provai a deglutire. Il gusto era ancora lì, nascosto tra i molari e la lingua: salato, minerale, quasi vivo. Era lui. O era me? Non lo capivo. Ma era dentro.
Mi mossi piano. Il lenzuolo mi si staccò dalla pelle con un suono umido, appiccicato alle cosce. Le aprii. Il freddo dell’aria condizionata incontrò la mia fessura ancora umida. E mi fece tremare.
Non era bagnata di piacere. Era bagnata di memoria.
La pelle all’interno delle cosce era segnata. Tracce lucide, mescolate a odore acre e dolciastro. Dovevo essermi toccata. O mi ero solo strofinata nel sonno, cercando un contatto.
Portai le dita tra le labbra vaginali. Umide. Calde. Scivolose. Un liquido che non era mio. O forse sì. Ma non bastava.
Mi alzai. I piedi nudi sul pavimento freddo. Le gambe molli. Il ventre gonfio di qualcosa che non era stato digerito. Il sesso pulsava piano, come un cuore secondario.
Elisa non c’era. Il suo letto era disfatto, ma freddo. Nessuna traccia del suo corpo. Nessun rumore. Nessun respiro. Solo il mio.
Mi avvicinai allo specchio. I capelli erano spettinati, incollati in ciocche sulle tempie. Gli occhi rossi, ancora stanchi. E lì, sulla guancia, il disegno secco di una goccia. Come un segno lasciato apposta.
Non mi ero lavata. Non avevo voluto farlo.
“Ho dormito così. Come si lascia un oggetto dopo l’uso.”
Il mio stesso odore mi faceva pulsare il sesso.
Mi chinai sul tavolino. Le mani poggiate larghe. Il busto nudo. Il petto contro il legno freddo. Respiravo piano. Il ventre si muoveva appena.
Sapevo che non era finita.
Sapevo che quello era solo l’inizio. E mi piaceva.
Il telefono vibrò piano, come se sapesse che stavo ancora tremando. Un singolo suono, secco, definitivo.
Non mi mossi subito. Lo guardai dal letto, come si guarda qualcosa che penetra senza toccare.
Poi allungai la mano. Le dita umide lasciarono una piccola scia sullo schermo.
Il nome era sempre lo stesso. Leonardo.
Aprii il messaggio.

#Marchiati dove puoi essere letta.#

Il cuore si fermò.
Non le pupille. Quelle si allargarono subito.
E con loro, la fessura.
Mi restai ferma. Nuda. Il corpo ancora segnato dalla notte. La pelle tirava dove lo sperma si era seccato. Il sesso, invece, no.
Il sesso era vivo. Gonfio. Come se avesse aspettato proprio quella frase per aprirsi ancora.
“Dove puoi essere letta.”
La frase mi esplose nella mente come una domanda rovesciata. Non dove scrivere, ma dove farmi leggere.
Mi alzai con lentezza, come se ogni gesto fosse un passo di un rito.
Andai in bagno. Le matite erano nel beauty di Elisa. Ne scelsi una nera. Eyeliner waterproof.
La odiai per un attimo. Non sarebbe andata via con l’acqua.
La portai con me, come si porta un oggetto sacro.
Mi inginocchiai davanti allo specchio dell’armadio. Le gambe aperte, i talloni sotto i glutei, la schiena dritta.
Il pavimento era gelido. Ma la pelle interna delle cosce bruciava.
Il mio odore saliva lento, denso. Era un misto di umidità interna, sudore notturno, residuo maschile.
Annusai. E venni appena. Solo nella testa. Aprii le gambe di più. Sentii il battito. Proprio lì. Dove la pelle è più sottile. Dove nessuno scrive mai.
Poggiai la punta del pennello nero sulla carne chiara.
Il primo contatto fu quasi dolce. Una carezza fredda. Un brivido netto.
La pelle si accapponò. Ma non si oppose.
Iniziai a scrivere. Lettera dopo lettera.

S P A L A N C A T A P E R T E

La mano tremava. Il respiro anche. Ma la scritta… no. La scritta era ferma. Sicura. Necessaria.
L’inchiostro penetrava leggero nei pori.
E io… mi sentivo come se qualcosa stesse entrando dentro. Ma da fuori.
Come se quella frase, nera sulla pelle chiara, fosse un cazzo mentale.
Quando finii, lasciai cadere la matita per terra.
Mi guardai. Le gambe ancora aperte. Il sesso pulsante.
E lì, tra le cosce, in verticale, la verità:
Spalancata per te.
Mi alzai. Andai allo specchio grande. Mi guardai intera.
Avevo ancora la guancia incrostata, i capezzoli tesi, il ventre molle, e il sesso lucido.
Ma era quella frase a definirmi.
“Non sono più un corpo. Sono una frase.
E quella frase può essere letta.
Ovunque io cammini.”
Elisa era seduta sul bordo del letto, con le gambe piegate sotto e la schiena leggermente incurvata, come se fosse ancora dentro un sogno. La canottiera grigia le cadeva su una spalla, il tessuto bagnato di umidità nella zona tra il seno e l’ascella. Non portava nulla sotto, e dalla piega aperta laterale vedevo la curva piena del fianco, liscia, calda, con minuscoli peli chiari che brillavano nella luce del mattino. Il piede sinistro era appoggiato sul materasso, le dita piegate verso il basso. Ogni tanto si muovevano. Non si copriva.
Quando entrai, sollevò appena lo sguardo. I suoi occhi scesero subito tra le mie gambe. La scritta era ancora fresca, tirava la pelle a ogni passo. Sentii il suo sguardo passarci sopra, riga dopo riga. “Spalancata per te.” Lo lesse tutto. Non sorrise. Non parlò. Solo restò lì. Fermo il volto, ma più lento il respiro.
Mi fermai. Sentivo l’odore del mio stesso sesso salire tra le cosce, mescolato all’inchiostro. Un odore amaro, vivo, quasi animale. Feci un passo avanti. La luce cadde sulla zona bassa del suo ventre, tra il bordo della canottiera e la piega dell’anca. E lo vidi.
Un piccolo tatuaggio. Due linee curve, sottili, appena visibili sotto la pelle bianca. Era posizionato tra le fossette di Venere, appena sopra l’osso del bacino. Sembrava un disegno geometrico. Ma io l’avevo già visto. La sera prima. Nella luce tremolante della HU accanto. Io fuori, scalza. Lei dentro. Nuda. Piegata. Guido sopra. Clara dietro. Il corpo che ballava. Quel tatuaggio che si muoveva ad ogni colpo.
Era lei. Era stata lei.
Il mio ventre si strinse. Sentii la fessura aprirsi da sola. Un colpo. Un vuoto. Un’onda. Elisa abbassò lo sguardo. Portò una mano sul basso ventre, quasi per istinto. La lasciò lì. A premere piano. Le dita erano morbide, lente. Il respiro cambiò. Uno sfiato più caldo. Un movimento minimo delle gambe. Come a chiudersi. Come a trattenere qualcosa.
“Ce l’ha ancora dentro.”
Il seme di Guido. Ancora lì. Non nel viso. Non nella bocca come me. Ma dentro. Nelle sue altre labbra. Quelle che non parlano. Quelle che si richiudono dopo. Ma che adesso... sono ancora sporche.
Mi sentii gocciolare. Una scia lenta mi scese lungo l’interno coscia, passando proprio accanto alla P di per. La pelle tirava dove c’era l’eyeliner. Bruciava un po’. E mi piaceva.
Io avevo scritto.
Lei era stata scritta.
Il mio marchio si vedeva.
Il suo... era vivo.
Pensavo poco, ma ogni pensiero era un colpo.
“È più piena di me.”
“Lui l’ha scelta per entrarle dentro.”
“Io ho obbedito. Lei ha accolto.”
“Siamo lo stesso corpo. Ma in due tempi diversi.”
Non ci fu bisogno di toccarsi.
Non ci fu bisogno di parole.
Solo la luce sul tatuaggio.
Solo l’umidità che ci cadeva tra le gambe.
Solo lo stesso uomo, dentro di noi, in modo diverso.
Mi misi davanti allo specchio dell’armadio. La stanza era satura dell’odore della notte: lenzuola umide, pelle calda, qualcosa di dolce e acido che veniva da me. Il mio corpo sapeva di tessuto, di attesa, di uomo. La guancia destra tirava. La pelle ruvida sotto le dita, come se avesse assorbito. Non la pulii. Solo la toccai. Bruciava un po’. La lasciai lì. Era parte di quello che ero.
I capelli spettinati, appiccicati alla nuca. Gli occhi stanchi. Il petto segnato dal cuscino, una linea sottile tra i seni. I capezzoli scuri, tesi, reattivi. Il ventre lento. Ma più in basso… la pelle era viva. L’inchiostro aveva aderito perfettamente alla piega interna della coscia. Il segno sembrava inciso, non tracciato. Lucido. Vibrante. La pelle attorno arrossata, le labbra gonfie. Umide.
Presi il telefono. Mi sedetti sul letto, aperta. Il sesso in vista. La scritta completa. Scattai dall’alto, in verticale. Poi obliqua. Poi in piedi, di profilo. Il riflesso nello specchio dietro. Le cosce molli, tese, segnate da una goccia che stava per cadere. Il viso era acceso. Gli occhi umidi. Le guance rosse. Mi feci un selfie con il pareo già annodato, un altro appena il tessuto mi sfiorò il pube.

##Segnata. Pronta. Ho caldo ovunque.##

Lo inviai. Sentii il battito cambiare subito. Un colpo nel basso ventre. Come se lui mi stesse guardando già.
Mi legai il pezzo sopra del bikini. Il tessuto era ancora freddo, si appiccicò ai seni tesi. Il sinistro più gonfio, il destro più duro. Il pezzo sotto non lo misi. Lo piegai, ancora umido, e lo infilai nello zainetto insieme all’asciugamano, alla borraccia e all’eyeliner. La stoffa ancora impregnata del mio odore. Chiusi la cerniera piano.
Presi il pareo. Turchese slavato. Quasi trasparente. Lo legai basso, sul fianco sinistro. Il nodo cedeva leggero. Il tessuto accarezzava il pube, si infilava tra le pieghe. A ogni respiro, sfiorava il clitoride. A ogni passo, si apriva.
Feci due passi. Sentii il sudore tra le cosce. Le labbra interne si staccavano con un suono lento. Umido. Il pareo aderiva per un attimo, poi scivolava di nuovo.
Aprii la porta. L’aria fresca mi colpì le gambe. Mi entrò sotto. Passò tra le cosce come un dito. Il legno del vialetto era tiepido. I miei piedi nudi si sporcarono subito di sabbia fine, appiccicosa. L’odore di pineta era dolce e ferroso.
Camminavo.
Senza il pezzo sotto.
Con la scritta.
Con il pareo che non nascondeva nulla.
Con lo zainetto sulle spalle.
Con il corpo in avanti.
“Chi guarda capisce.”
“Chi passa vicino… mi sente.”
“Lui lo sa. Ora lo sapranno anche gli altri.”
Uscire dal villaggio fu come attraversare un confine morbido. Il cancello laterale cigolò piano. L’asfalto mi accolse subito caldo, granuloso sotto la pianta del piede nudo. Il sole colpiva dritto sulle scapole. Ogni passo faceva aderire il pareo alle cosce. Poi lo staccava. Poi lo faceva sventolare. Il nodo sul fianco si era già allentato. Bastava poco. Lo sentivo vivo. Il pezzo sotto del bikini, piegato e umido nello zaino, pesava pochissimo. Ma la sua assenza, tra le gambe, pesava ovunque.
Camminai lungo la stradina dritta, con i pini a destra e le auto parcheggiate a sinistra. Interni roventi, vetri opachi, odore di plastica e pelle. Nessuno intorno, ma ogni finestrino abbassato sembrava una bocca aperta. Come se qualcuno potesse guardare senza farsi vedere. Arrivai al cartello: Parco Costiero di Rimigliano. Varcai il limite. Subito il suolo cambiò. Sabbia pressata, aghi secchi, odore di resina e vento. La luce si filtrava attraverso i rami come un velo caldo. L’aria aveva un sapore di sale e corteccia.
Camminavo piano. Ogni passo faceva frusciare il pareo. Ogni folata di brezza cercava l’interno delle mie gambe. Il tessuto leggero si sollevava e tornava giù. Dentro, la pelle era lucida, e calda, e viva. Sotto l’ombelico sentivo un nodo che batteva più forte di me.
Incontrai due ragazzi. Lui mi guardò subito tra le gambe. Lei seguì il movimento del pareo. Non si fermarono, ma rallentarono. Passandomi accanto, sentii lo spazio tra di noi diventare più denso. Non servivano parole. Bastava l’umidità che mi colava lenta verso il ginocchio.
Poi un uomo, più avanti. Seduto su un tronco tagliato. Vestito, ma rilassato. Occhiali da sole. Fingeva di scrivere. Lo sentii alzare la testa quando passai. Sentii il suo sguardo infilarsi tra la schiena e la nuca, poi scivolare giù. Nessuna voce. Ma l’aria cambiò.
Un altro passo. Poi mi fermai.
Alla mia destra, defilata tra i tronchi, una figura. Lunga. Fissa. Nera. Immobile come un albero ma più verticale, più dritta. Era un uomo. Magro, pelle scura. I piedi larghi, il busto fermo. Mi guardava. Non in modo diretto. Non come gli altri. Ma come se lo facesse da prima, da sempre. Non vedevo il viso. Non serviva.
Sentii il suo sguardo come un peso sulle labbra del sesso. Un magnete. Un invito.
Non lo conoscevo.
Ma il corpo lo riconobbe subito.
Il ventre si contrasse. Le gambe tremarono appena. Sentii una fitta interna, lenta. La scritta tra le cosce mi tirava la pelle. La goccia era scesa, e adesso batteva sul bordo del ginocchio. L’aria lo toccava come un bacio.
Davanti a me, il cartello: Zona Naturista – Accesso Riservato.
Sotto, lo steccato. Paglia intrecciata, corde.
Oltre, la spiaggia. Corpi. Sabbia. Sole pieno.
Ma io non entrai.
Non ancora.
Mi fermai lì.
Le dita dei piedi affondate nella sabbia. Il nodo del pareo molle.
Il cuore aperto.
Le cosce bagnate.
“Mi stanno guardando.”
“Lo sento nella pelle.”
“Non so chi è quell’uomo.”
“Ma il mio corpo si è già piegato verso il suo.”
Il primo passo oltre lo steccato fu lento, deliberato. Il piede nudo affondò nella sabbia vera, calda in superficie, umida sotto. I granelli si infilarono tra le dita e rimasero lì, aderenti alla pelle sudata. Ogni passo successivo fu più profondo, più viscerale. Le piante dei piedi si incurvavano per trovare stabilità, il peso oscillava tra talloni e avampiedi, le ginocchia si flettevano appena. Il corpo si adattava. Si abbassava.
Camminavo tra i corpi. Alcuni stesi, altri seduti, qualcuno in piedi. Nudità composta. Pelli di ogni colore, seni rilassati, addomi molli, braccia abbronzate, occhi chiusi. Falli distesi, seni gonfi al sole, capezzoli induriti dalla brezza. Nessuno mostrava. Nessuno nascondeva. Il silenzio era spesso, il mare lo tagliava in fondo come un respiro profondo che non finisce.
Il pareo mi si incollava al pube. Il nodo sul fianco sinistro era zuppo. Tirava con ogni passo, come se volesse scendere. Il tessuto seguiva la linea del corpo, poi si staccava con un colpo d’aria e ricadeva. Ogni folata lo sollevava sul lato. Un tratto della scritta. Mezza parola. Un accenno. Pelle viva.
Passai accanto a una coppia anziana. Lei seduta, la schiena contro un tronco, gli occhi socchiusi. Lui supino, il braccio piegato dietro la testa. Non si mossero. Ma quando passai, sentii che l’aria dietro di me cambiava. Come se avessi lasciato un’eco, un odore, una forma.
Tre uomini poco più in là. Uno seduto, gambe larghe. Occhiali scuri. Gli altri due parlavano. Quando mi avvicinai, il loro scambio si interruppe. Uno mi guardò. Dritto tra le cosce. Poi tornò a parlare. Ma la pausa era bastata. L’avevo sentita sulla pelle.
Scelsi un angolo tra due cespugli bassi. La sabbia era più chiara, più fine. Posai il telo, lo stesi con le mani. Il tessuto si gonfiò, poi si abbassò dolce. Mi inginocchiai. Le ginocchia affondarono. La sabbia entrò sotto le unghie. Mi sedetti sui talloni. Il pareo scese da solo.
Il nodo cedette. Il fianco si aprì. Un lembo scivolò dietro la gamba sinistra. L’altro cadde sul telo. Restai così, coperta solo dal pezzo sopra del bikini. Il sesso nudo. La pelle scritta. L’aria calda a leccarmi le labbra interne. Le gambe piegate. Il ventre esposto.
Un uomo camminava più in là. Passò. Non rallentò. Ma la testa si girò appena. Uno sguardo breve, ma diretto. Come un coltello che sfiora senza tagliare. Un’altra figura più distante. Forse seduta. Forse in piedi. Sentivo i suoi occhi sulle scapole. E poi tra le cosce. Senza fretta.
Mi voltai. Un viso coperto da un cappello. Non guardava me. Ma quello che avevo sotto. E io… lasciavo che lo leggesse.
Mi piegai in avanti, fingendo di cercare qualcosa nello zaino. Il clitoride toccò il tallone. Una contrazione interna. Un respiro. La pelle tirata. Il liquido che scivolava.
Mi sedetti. Le gambe piegate. Il pareo aperto. Il sesso lucido. La sabbia sul pube. La scritta nera. Netta. Umida. Il vento che passava sulle labbra. Il sole che arrivava a tratti, tra i rami. Il rumore del mare dietro, pieno, vasto, lontano.
Mi portai le mani dietro al collo. Sciolsi il nodo. Il pezzo sopra del bikini cadde sul telo, umido di pelle e sale. Lo lasciai lì. I seni si sollevarono appena, come se aspettassero da ore. Il capezzolo sinistro era scuro, contratto. Il destro più chiaro, ma duro. Entrambi lucidi. Il vento li toccò per primo. Poi la luce. Poi gli occhi.
E io non mi coprii.
Non più.
“Questo non è un posto.”
“È un rito.”
“E io ci sono dentro.”
Rimasi seduta sul telo, nuda. Il pareo era scivolato via del tutto, accartocciato accanto alle ginocchia. Il pezzo sopra del bikini steso come un insetto morto poco più in là. Il sole cadeva sul mio corpo con un calore rotondo, morbido. Mi colpiva in zone diverse, come dita: la spalla sinistra, il seno destro, il ginocchio piegato. La pelle si tendeva piano, reagiva, assorbiva. Il petto si sollevava lento, ma il ventre era già più veloce. Il clitoride pulsava a piccoli scatti. La sabbia sotto di me si scaldava insieme al sesso.
Aprii lo zainetto e presi la crema. Il flacone bianco era liscio, unto di dita vecchie. Odorava di vaniglia e pesche finte, un profumo dolce che si mescolava al sale, al sudore, al ferro del mio odore. Spremetti il liquido denso sul palmo. Si allungò tra le dita come miele pallido. Freddo all’inizio. Appiccicoso.
Iniziai a passarlo sulle spalle. La pelle sobbalzò al primo tocco. Il contrasto tra freddo e caldo, tra aria e crema, mi aprì la schiena in un brivido. Le scapole si strinsero. Il collo si alzò. Scivolai con le mani lungo le clavicole, poi salii alla base del collo. Lì la pelle era già più calda. Umida.
Quando arrivai ai seni, non pensai. Presi il sinistro con tutta la mano, lo sollevai, lo coprii. Il capezzolo era già duro, mi scivolò sotto il pollice. Il destro era più molle, più rotondo, ma reagì appena lo strinsi. Le dita lasciavano strisce più chiare nel bianco della crema. Il petto si spalmava piano, diventava lucido, odoroso. Le mani mi tornarono profumate, sporche, vive.
Scivolai sul ventre. Le dita si mossero con gesti larghi, come se volessi coprirmi tutta. Il fianco sinistro era più sensibile: la sabbia mi pizzicava. Sotto l’ombelico, la pelle era calda, piena di sangue. Non passai oltre. Il sesso restò fuori. Non volevo coprirlo. Né toccarlo. Volevo sentirlo lì, scollegato da tutto ma vivo di tutto.
Mi stesi. Prima sui gomiti. Poi lentamente sulla schiena. Il telo si era riscaldato. La sabbia sotto era spugnosa, cedeva. Il mio corpo affondava piano, un centimetro alla volta. La schiena si stirava. I reni si alzavano. Il culo si apriva. Le gambe si piegavano e restavano aperte. Il sesso al centro, lucido, esposto. La scritta tra le cosce si era asciugata con il sole. Tirava. Leggermente. Un punto della “S” pizzicava. Forse sabbia. Forse eccitazione.
Guardai attorno.
L’uomo col giornale girava le pagine troppo lentamente. Lo teneva aperto con due mani, ma gli occhi erano sopra. Precisi. A tratti. Poi bassi.
Due donne parlavano a bassa voce. Una guardava nella mia direzione. L’altra si era spostata di lato. Le cosce aperte, il telo tra i piedi.
L’aria odorava di alghe secche, legno salato, olio solare e corpo.
La brezza passava. Mi accarezzava le ascelle, i lati dei seni, la piega delle ginocchia.
Il mio odore saliva. Misto a crema e liquido mio.
Lo sentivo sulla pancia, sul monte di Venere, sotto le dita dei piedi.
Pensai a Elisa.
Se stava arrivando.
Se aveva letto il messaggio.
Se aveva sentito quello che avevo fatto.
Pensai a Clara.
Se mi guardava da qualche parte.
Pensai a Guido.
Se sapeva che ero già pronta.
Chiusi gli occhi.
Il sole mi colpiva le palpebre.
Rosso, vivo.
Sotto, la sabbia mi segnava la pelle.
Ogni granello si incastrava tra le labbra del sesso.
Un suono secco. Una vibrazione.
Aprii gli occhi.
Il telefono. Un messaggio.
Lo presi. Leonardo.

#Tocca la tua scritta. Fallo ora. Mostrami.#

Il cuore saltò un battito. Poi tornò. Più in basso.
Il corpo rispose prima della mente. Il sesso si mosse. Il respiro rallentò. La pelle si tese. La sabbia si fece calda.
Le dita si mossero da sole.
Portai la mano destra tra le gambe. Il polso tremava appena. Le dita erano ancora umide di crema. Sfiorarono la scritta come si sfiora una cicatrice. La pelle era calda, ruvida ai bordi dove la sabbia si era attaccata all’inchiostro. La “S” pizzicava. La “c” era tesa, la “a” vibrava sotto la pressione leggera.
Feci scivolare il dito lentamente lungo il tratto nero. Da sinistra verso destra. Ogni lettera produceva una fitta. La pelle non era più solo pelle. Era memoria, segnale, carne viva. Il clitoride si contrasse. Il respiro rallentò. Le labbra della bocca strette. Quelle sotto, lucide.
Non mi toccai dentro.
Rimasi fuori.
A seguire le lettere come si segue un comando inciso.
Come se ogni curva fosse una consegna.
La sabbia sotto il bacino si muoveva a piccoli scatti, impercettibili.
Il pareo ormai bagnato si era incollato alla coscia destra. Il fianco sinistro nudo prendeva sole pieno. Il seno si alzava ad ogni respiro, ma non tremava. Solo i capezzoli cambiavano. Più duri. Più scuri.
Presi il telefono con l’altra mano. Scattai in silenzio.
Il primo selfie era il viso: guance arrossate, occhi lucidi, bocca aperta senza suono.
Il secondo: il seno, lucido di crema, con il capezzolo tirato verso l’alto.
Il terzo: la scritta. Le dita. La sabbia. Il liquido.
Poi il video.
Cinque secondi.
Solo il dito che legge la frase.
La pelle che risponde.
La sabbia che scivola.

##Fatto. Come mi hai chiesto. Senza rumore. Ma dentro, sto tremando.##

Inviai.
Non guardai il messaggio partire.
Lasciai il telefono sul telo, accanto al mio fianco sinistro.
La pelle si tese.
La mano rimase ferma, come ordinato.
Il polpastrello sulla “a”.
Il clitoride dietro, in attesa.
Poi la vibrazione.
Due scatti.
Una pausa.
Ancora.

#Non togliere la mano. Tienila ferma.
Voglio che resti lì finché qualcuno ti guarda.
Quando senti lo sguardo… muoviti. Solo allora.#

Non risposi.
Il messaggio mi era già entrato.
Nella pelle.
Nel respiro.
Nel sesso.
Attesi.
Il dito immobile.
Il corpo in sospensione.
La gola chiusa.
E poi…
una presenza.
Lo sentii prima nella nuca.
Poi tra le scapole.
Poi più in basso.
Non serviva voltarsi.
Lo sguardo era già entrato.
Non mi voltai.
Ma qualcosa era cambiato.
L’aria dietro la mia schiena si era fatta più densa. Non un rumore. Nessun passo. Solo un piccolo scarto di temperatura. Una zona d’ombra che non c’era prima.
Non lo vedevo.
Ma sentivo che c’era.
Qualcuno.
Forse seduto.
Forse in piedi.
Forse a un metro da me.
Forse tra i pini.
Troppo vicino per essere chiunque.
Troppo immobile per non essere presente.
Il comando di Leonardo era ancora lì.
#Tienila ferma finché qualcuno ti guarda. Quando senti lo sguardo… muoviti.#
Sentivo lo sguardo sulla nuca.
Poi tra le scapole.
Poi scendere.
Fino a sfiorarmi la schiena bagnata di sole.
Poi più giù. Lì.
La mano era ancora sulla scritta. Il dito appoggiato alla lettera “c”.
Non si muoveva.
Ma il polso pulsava.
La pelle sotto il dito bruciava, come se lo sguardo ci passasse attraverso.
Il respiro si fece più lento.
Aprii le gambe di un centimetro.
Forse due.
Il sesso si inarcò da solo.
Il liquido scese.
Una linea calda tra le pieghe.
Non gemevo.
Ma sentivo tutto.
Muovevo solo il dito.
Lentamente.
Girava in cerchio sulla frase.
Sulla pelle tirata.
Sull’inchiostro impresso.
Ogni giro era più largo.
Ogni passaggio lasciava una traccia.
La sabbia mi pungeva.
Si mescolava al sudore.
Mi entrava nelle pieghe del pube, sotto le labbra.
Il sesso si gonfiava.
Il clitoride si faceva più chiaro, più esposto.
Ma io restavo in silenzio.
Le labbra strette.
I denti chiusi.
Ogni tanto il vento mi portava un odore.
Non era il mio.
Non era crema.
Era un odore di corpo scuro, di pelle calda.
Maschile.
Lento.
Mi tremava l’interno delle cosce.
Il ventre era tirato, contratto.
Le scapole in tensione.
Presi il telefono con la mano sinistra.
Lo attivai senza guardare.
Scattai un selfie laterale, con l’ombra sulla schiena.
Poi un video.
Il dito che si muoveva.
La frase sotto.
La pelle viva.
Lo sguardo dietro.
Anche se non si vedeva.
Inviai tutto a Leonardo.

##Sto eseguendo. C’è qualcuno. Non lo vedo. Ma mi sente.##

Mi rimisi in posizione.
La mano ancora lì.
La bocca chiusa.
Il corpo pronto a venire.
Ma solo con lo sguardo.
Il dito era ancora lì. Premuto sulla pelle. Fermo.
Ma sotto, tutto si muoveva.
Il sesso, il respiro, il battito.
Portai il pollice alla bocca. Lo leccai.
Il sapore era caldo, salato, mio.
Ma c’era anche sabbia, e crema, e qualcosa di più profondo.
Un fondo d’inchiostro, forse.
O di obbedienza.
Poi abbassai il viso.
Mi piegai tra le cosce.
Il ventre si chiuse.
La schiena si inarcò.
La sabbia graffiava appena sotto le ginocchia.
Soffiai sulla scritta.
Sentii il mio fiato tornarmi addosso.
Poi passai la lingua.
Una lettera.
Poi un’altra.
La pelle tremò.
Un brivido salì dal sesso alla bocca.
Ma trattenni tutto.
Mi sollevai appena.
E lo vidi.
Seduto poco più in là. Tra due pini. Nudo.
Pelle scura, larga, ferma.
Gambe aperte, braccia sulle ginocchia.
Il sesso eretto. Calmo. Immobile.
Ma pieno. Vivo.
Respirava come me.
Al mio ritmo.
Guardava.
E basta.
Il mio corpo rispose subito.
Il clitoride si gonfiò, si stirò.
Il capezzolo sinistro mi tirò la pelle.
La scritta si tese.
Lo guardai.
Dritto.
E sorrisi.
Poi il telefono vibrò.
Una volta.
Poi ancora.
Messaggio.
Leonardo.
Lo presi.
Lo aprii subito.
Lessi.
Il sangue mi salì al viso.
Il sesso si contrasse.
La gola si chiuse.
Mi mancò l’aria.
Mi venne da chiudere le gambe.
Ma le aprii di più.
Non dissi nulla.
Ma il corpo aveva già capito.
scritto il
2025-04-17
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