Ossessione (cap.2 di 2)

Scritto da , il 2012-03-29, genere tradimenti

Acquattato davanti alla porta della casa, ombra fra le ombre, misi la mano in tasca e controllai, per la millesima volta, la pistola.
Era quello il mezzo per porre fine al mio dolore.
E tra poco sarei stato finalmente libero dai miei incubi.
Il dopo, quello che sarebbe accaduto dopo il delitto, non mi interessava minimamente.
Mi sarei costituito e quello che avrebbero fatto di me non mi riguardava per nulla.
Anche se mi avessero gettato in una cella e buttata via la chiave per sempre.
Sarei stato comunque libero, libero dalla mia ossessione per Marika.

Presi dalla tasca una tessera telefonica che avevo preparato in precedenza, ed iniziai ad armeggiare, il più silenziosamente possibile, sul battente, vicino alla serratura.
Ero convinto di poter aprire quella porta in poco tempo.
Mi ero anche lungamente esercitato sulla serratura della porta di casa mia, con risultati decisamente apprezzabili.

Il giorno che mi ritrovai faccia a faccia con Nikos non era mia intenzione andare oltre una discussione.
Vi giuro che volevo solo parlare con lui, solo supplicarlo di andare via, di sparire dalla vita di Marika, di lasciarla a me ed al mio amore per lei, in un ultimo, disperato, ridicolo e patetico tentativo di recuperare la mia donna.
Ma il suo sguardo sprezzante e le parole arroganti che mi rivolse mi fecero perdere la testa; e così, accecato dall’odio e avendo perso il lume della ragione, lo presi a pugni e a calci, fino a fargli del male e a spedirlo all’ospedale.
Lui mi denunciò per quell’aggressione, ed io fui giustamente condannato.
All'udienza, il giudice mi ammonì che una seconda condanna mi avrebbe portato diretto in carcere, senza più alcuna attenuante ad evitarmi la galera.
Ma la mia vera prigione era fuori.
Era nella vita di tutti i giorni senza di lei, nel pensiero che mi perforava il cervello che Marika fosse definitivamente di un altro.
Provai di tutto per dimenticare, per scordarla, per buttarmi alle spalle quegli anni vissuti con lei.
Iniziai a bere, a frequentare i locali notturni di Atene, ad accompagnarmi con tutte le donne che mi capitavano a tiro e che si mostrassero disponibili.
Chiodo scaccia chiodo, mi ripetevo in continuazione.
Ma tutto fu inutile.
Anzi.
Dentro di me cresceva la consapevolezza che solo un gesto estremo e definitivo mi avrebbe liberato da quel tormento.
Il pensiero di ucciderli, perché io potessi tornare a vivere, divenne ogni giorno più intenso e devastante.
Fino a quando presi la decisione definitiva di porre fine alla loro vita.
E fu per quella decisione che mi ritrovai di fronte a quella porta, nel giardino di quella villetta, una belva assetata di sangue e di vendetta in quella drammatica notte d’estate.

Dopo una trentina di secondi, la serratura scattò.
Restai immobile, con tutti i sensi in allerta, ma il silenzio non fu rotto da nessun allarme.
Solo i battiti del cuore mi rimbombavano nelle orecchie, come un lugubre ed incessante tamburo di morte.
Mi guardai attorno ancora una volta e quindi, con delicatezza, socchiusi la porta ed entrai in casa.
Mi ritrovai in un salone lussuosamente arredato con divani e poltrone.
Nella penombra, vidi anche un tavolo antico con alcune sedie, alla mia sinistra, sotto ad una larga finestra.
Il debole chiarore, che il riflesso dei lampioni stradali diffondeva nella stanza, mi permise di intravedere, di fronte a me, le scale che portavano al piano superiore.
Alla mia destra, una porta affacciava su una cucina piuttosto piccola.
Accostai la porta, senza richiuderla, senza far scattare la serratura, per agevolarmi la fuga, anche se non sarei fuggito lontano: quanto bastava a fare un ultimo giro per le strade deserte di Atene, e poi ad incontrare la prima auto di pattuglia in servizio notturno, e a consegnarmi a loro, finalmente l’odio estinto dalla sanguinosa vendetta appena consumata.

La casa era immersa nel più profondo silenzio.
Tirai fuori la pistola e la impugnai saldamente: quindi, con estrema cautela, mi avviai per salire al piano di sopra.

Le scale erano ricoperte da una spessa moquette e le mie scarpe da ginnastica mi aiutavano a salire senza alcun rumore.
A metà della seconda rampa le mie orecchie captarono qualcosa.
M’immobilizzai e, dopo un attimo, riconobbi la natura di quei rumori: erano gemiti e parole sussurrate, sospiri e mormorii.
Sentendomi soffocare da un nuovo spasmo di rabbia, rimasi inerte ad ascoltare Marika e Nikos fare l'amore.
Il cuore mi batteva furiosamente in petto, quasi volesse scoppiare.
Accecato dalla mia folle gelosia, ripresi a salire con circospezione, avvicinandomi alla fonte di quei rumori.
Arrivato in cima alla rampa, vidi che sullo stretto corridoio si aprivano tre porte: la prima era aperta e dava in una stanza buia; la seconda porta era invece socchiusa e una lama di debole luce filtrava nel corridoio, rischiarandolo debolmente.
L'ultima porta, evidentemente la stanza da bagno, era chiusa.

Lentamente, a piccoli passi, mi accostai alla porta dalla quale proveniva la luce, la pistola stretta nella mano che ora mi tremava, il dito già contratto, rattrappito sul grilletto.
Guardando nello spiraglio vidi che, come avevo supposto, era la luce su un comodino a diffondere quella debole illuminazione.
E ora, così vicino, li sentivo distintamente.
Stavano facendo l'amore.
Si stavano amando, dopo essersi divertiti chissà dove per tutta la serata.
Quel disgustoso di Nikos si stava scopando la mia Marika.

Accostandomi ancora di più al battente della porta, feci entrare nel mio campo visivo l'ampio letto matrimoniale che si trovava nella stanza.
E fu allora che li vidi.
Nikos sdraiato, e Marika sopra di lui, la perfetta e slanciata schiena tesa ed eretta, la testa rovesciata all'indietro: lo cavalcava con movimenti lenti e suadenti, mormorando frasi di cui non afferravo le parole, sospirando di piacere, completamente persa in lui.
Un lampo rosso mi attraversò la mente, facendomi perdere quel filo di ragione che ancora mi rimaneva.
Vedevo le natiche della mia donna, del mio amore, della persona con la quale mi ero illuso di vivere e di invecchiare, vedevo le sue natiche alzarsi e ridiscendere sul cazzo di quello stronzo, le mani del bastardo sui fianchi di lei, i lunghi capelli di Marika che danzavano al ritmo di quella oscena penetrazione.
E vedevo la faccia dell'uomo, gli occhi chiusi, un sorriso sulle labbra, quasi lui sapesse della mia presenza e cercasse di umiliarmi, mostrandomi per l’ultima volta che Marika era sua, solamente sua, definitivamente innamorata di lui.

In rapida successione, nella mia testa passò un caleidoscopio di immagini: le labbra di Marika sul mio pene, i suoi occhi nei miei, quasi a controllare il piacere che mi regalava, le sue mani che mi carezzavano e la sua lingua che mi sfiorava; il mio pene dentro di lei, avvolto da lei, amato dall'unica donna che mi aveva fatto impazzire.
A queste immagini se ne sovrapponevano delle altre, terribili e disgustose: lei che succhiava il cazzo di Nikos, le sue morbide labbra a circondare la sua cappella, la lingua di quel porco sul candido seno di lei, i denti sui capezzoli, la lingua a scorrere sulla fica aperta e fremente di Marika.
E quel maledetto cazzo che la penetrava, la riempiva, la sporcava…
E poi vedevo, in improvvisi e terribili flash, il letto rosso di sangue, i loro corpi abbandonati e senza vita, la mia liberazione da quell'orrida ossessione...

Tornai con difficoltà in me.
Con uno sforzo tremendo sgombrai la mente da tutte quelle istantanee.
Stordito e confuso dalle loro grida di piacere mi accorsi che stavano venendo entrambi.
Marika che andava in su ed in giù, freneticamente, ansimando e gemendo; lui che le stringeva le natiche, sussurrandole parole dolci, ma che a me sembravano oscene e luride dette da quella bocca.
Vennero e si dettero il piacere davanti ai miei occhi pieni di brucianti lacrime.

E poi Marika scese da lui per sdraiarsi al suo fianco.
Le tempie mi martellavano e le vene del collo minacciavano di esplodere, riversando fuori di me non solo il mio sangue, ma la rabbia, l'odio, ed il dolore.
Dovevo decidermi.
Rischiavo di farmi scoprire e di non poter portare a termine quello che mi ero prefisso.
Alzai l'arma.
Improvvisamente la sentii pesante nella mia mano.
Pesante e letale.
Ora avrei spalancato quella porta completamente, li avrei guardati negli occhi per leggere il loro terrore, le loro menti che mettevano a fuoco quello che stava per accadere, e poi avrei svuotato l'intero caricatore sui loro corpi nudi, insensibile alle loro suppliche e alle loro richieste di pietà.
Avevano avuto loro pietà di me ?
Quello che mi avevano dato avrebbero ricevuto indietro.
E così sarebbe finita, una volta per tutte.
Appoggiai il palmo della mano sinistra alla porta, pronto a spalancarla.
Era giunto il momento di scrivere la parola fine alle loro vite e alla mia anima.

" Ancora non ci credo. Anche se questa sera siamo andati a festeggiare e ne abbiamo parlato per ore. Ma ancora non me ne rendo conto. Non mi sembra possibile che tu possa aspettare un bambino. Un bambino da me. Che fra qualche mese diventerò papà. E' incredibile, amore mio. Incredibile e meraviglioso ".

Una mano sul legno della porta, l'altra a stringere con rabbia la pistola, rimasi tramortito da quelle parole pronunciate dall’uomo.
Vidi Marika sorridere e stringersi a lui, baciarlo sulle labbra, in un gesto di amore totale e sconfinato.
Aspettavano un figlio.
Marika gli avrebbe dato un figlio, avrebbe dato un figlio a quel bastardo, quel figlio che avevo sperato e sognato lei potesse dare un giorno a me.
Un bambino.
Il loro amore stava per generare un bambino.

Se lui non avesse attraversato la nostra strada, se lui non me l'avesse portata via, se lei non si fosse fatta portare via da me, se il destino mi avesse lasciato il tempo di chiederle di sposarmi...
Un figlio.
Capii dolorosamente, traumaticamente, in modo terribile e devastante cosa avevo realmente perso.
Di che cosa la mia vita fosse stata privata.
Mi era stato rubato il futuro.
E tutto per colpa loro.
Di Marika e di Nikos.
Fissai con odio sconfinato quei due corpi nudi, intrecciati sul letto, abbracciati nel loro perfido e malvagio amore.
La mente impazzita e svuotata, le guance rigate di brucianti lacrime d’odio e di dolore, strinsi la pistola ancor più convulsamente, pronto ad aprire quella porta, l’ultimo sipario che si sarebbe alzato sulle loro vite, su quelle vite che le mie pallottole avrebbero spazzato via.
In pochi secondi la mia vendetta sarebbe stata finalmente compiuta.
E sarei stato libero da tutto quel dolore.
Una volta per tutte...

Un'ora più tardi, in un mini-market aperto tutta la notte, comprai una bottiglia di ouzo.
Il cassiere, mentre pagavo, mi guardò intensamente.
Vide la mia faccia devastata dal tormento e mi disse: " Amico, mi permetta di darle un consiglio: bere non serve a molto. Anzi, non serve a nulla. Non aiuta a dimenticare, ma solo a stare peggio, mi creda ".
Così dicendo, mi allungò il resto.
Rimasi a guardarlo a lungo negli occhi, mettendolo a disagio: " Bere non servirà, ma io, stasera, ho voglia di bere. Non per dimenticare, perché non posso dimenticare. Ma per festeggiare... festeggiare la fine della mia ossessione ".
E così dicendo me ne andai, lasciandolo perplesso e stupito, sicuramente preoccupato, ma anche sollevato di essersi liberato così in fretta di un cliente come me.

In auto svitai il tappo della bottiglia e bevvi una lunga sorsata di liquore.
Lo stomaco reagì con un intenso bruciore, alimentando, come benzina sul fuoco, il mio dolore e la mia angoscia.
Attraverso il parabrezza dell’auto rivedevo la porta di quella camera da letto, i loro corpi uniti nell’atto sessuale, e nelle orecchie mi rimbombavano, come amplificate da un orrendo megafono, le parole di lui, la sua felicità per il figlio che lei gli avrebbe dato.
Ma era tutto finito adesso.
Ingoiai un’altra sorsata di alcol, misi in moto e ripartii nella notte.

Girai per più di un'ora, senza meta, per le strade buie di Atene.
Alla fine entrai nel posteggio deserto di un centro commerciale, parcheggiando accanto ad un contenitore per rifiuti.
Scesi dalla macchina con la bottiglia di ouzo in mano, ancora piena per tre quarti, e la buttai nel cassonetto.
Era inutile bere.
Aveva ragione quell'uomo.
Non avrei potuto dimenticare neanche avessi bevuto fino alla sera successiva.
Guardai gli alberi di un piccolo parco adiacente al parcheggio, le foglie che si agitavano nella fresca brezza notturna, e fissai gli scivoli e le altalene per i bambini.
Per un attimo mi venne da pensare a quanto mi sarebbe piaciuto portare a quei giochi il figlio che Marika non mi avrebbe mai più dato, il figlio di quell’amore irrimediabilmente finito.

Risalii in auto e, dal cruscotto, presi la pistola.
La guardai, lucente e pesante nella mia mano, unico strumento che avevo creduto potesse restituirmi la vita.
Forse era stata veramente il mezzo per porre fine alla mia ossessione, il primo e decisivo passo per uscire da quel tormento che mi aveva consumato.

Non avevo sparato.
Non avevo spalancato la porta della loro camera da letto.
Li avevo lasciati così, abbracciati e stretti l’uno all’altra, a giurarsi amore eterno.
Ero fuggito via, silenziosamente come ero arrivato, reprimendo i singhiozzi di disperazione.
Li avevo lasciati vivi su quel letto, a pensare al loro bambino, a quel bambino frutto del loro amore.

Non avevo sparato.
Non avevo ucciso un bambino che doveva ancora nascere.
Non avevo ucciso l’innocenza.
E, così facendo, non avevo ucciso definitivamente la mia anima.
Quella creatura, ancora prima di venire alla luce, aveva salvato la vita al suo papà e alla sua mamma, restituendo loro quella vita che la mia mano era stata pronta a togliere.
La sua nascita avrebbe rappresentato anche la mia rinascita.
Ora avrei trovato la forza di buttarmi tutto alle spalle.
Definitivamente
Ora lo sapevo.
Ora lo sentivo.

Scesi nuovamente dall'auto e gettai anche l'arma nel cassonetto. vicino alla bottiglia di liquore.
Rivolsi lo sguardo al cielo notturno, alle stelle che sembravano voler brillare solo per me.
"Grazie" mormorai, gli occhi pieni di lacrime, risalendo in auto, e avviandomi lentamente verso casa, e verso un nuovo futuro.

Erano le ore che precedono l’alba.
Atene era deserta.
Ma io non mi sentivo più solo.

Fine

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