Il racconto di un figlio VI
di
Horzo
genere
incesti
RACCONTO DI FANTASIA CON TEMATICHE FORTI.
Sesto capitolo della storia "Il racconto di un figlio".
Ricordo che tutti i personaggi in questa storia sono maggiorenni e consenzienti.
Per tutti i commenti, fantasie o esperienze che vorreste condividere con me (affinché possa trarne ispirazione per racconti) potete scrivermi su horzo@atomicmail.io
-------------
Le giornate passavano lente e tutte uguali mentre cercavo di trovare il mio equilibrio nella situazione appena creata.
Il giorno lo passavo alla scrivania, ad analizzare i dati di tutti i dipendenti a rischio licenziamento, con brevi interruzioni saltuarie per discutere gli stessi dati con il team. Ci vedevamo nella sala riunioni, dove il segretario di Stefano ci portava caffè per tutti e ci davamo il cambio per proiettare il lavoro allo schermo per le presentazioni. Ci incontravamo di team circa una volta ogni due giorni, nell'ultima ora di lavoro e, non avendo quasi mai completato le discussioni in tempo, ci trasferivamo al bar di fiducia, dove l'atmosfera si faceva più rilassata. Eppure, arrivato il week end, iniziarono ad arrivare delle pressioni dai "piani alti" affinché si svolgesse il lavoro più in fretta, così fummo costretti a lunghi straordinari e ad un eventuale semplificazione delle procedure. Lo stress si accumulava e le riunioni si facevano sempre più brevi: iniziando a fidarci delle scelte e dei dati degli altri membri del team, finivamo per non prestare più molta attenzione alle presentazioni, votando in automatico qualsiasi cosa il presentatore ritenesse migliore. D'altra parte come non fidarsi? Più passavo il tempo con quelle persone, più mi convincevo della loro bontà: erano tutti poco felici di quel compito, volenterosi di tenere le persone migliori e stanchi di compiere scelte difficili. Appariva, dando cieca fiducia ad ognuno, di sollevarsi un po' dalle responsabilità e dal peso di quei lunghi giorni.
Alla sera tornavo a casa, stanco e spesso arrabbiato. Mangiavo in silenzio, da solo, aspettando il suono del sonno di mio padre. Poi entravo in camera e lì iniziava l'unica parte della giornata che riusciva a tirarmi un po' su di morale. Mia madre si faceva trovare sempre in mezzo alla stanza, di fianco al letto, nuda ed inginocchiata a terra con i palmi delle mani appoggiati sulle gambe.
Facevamo sesso tutte le notti, imparando a scoprire poco a poco ogni nostro piacere, ogni nostra sensazione. Godevamo l’uno dell’altro in diverse maniere: alcune sere, in cui ero particolarmente sconfitto dalla giornata, le ordinavo di salire su di me, di darsi piacere con una mano mentre mi cavalcava lentamente, il membro pulsante in lei che agognava ogni movimento; altre sere, invece, la salutavo appena: non facevo altro che sfilarmi velocemente i pantaloni e infilarle il pene in bocca, scopandole il più furiosamente possibile la bocca, tra i suoi gemiti e conati, per poi venirle sul seno nudo e madido di sudore per la fatica. Non importava cosa facessimo, che la prendessi con forza e vigore o con dolcezza e passione: ogni volta che raggiungevo l’orgasmo, stringendo forte i suoi capelli e dandole l’ordine di venire anche lei, mi svuotavo di ogni frustrazione, ogni dolore e stanchezza. Il suo corpo era una sostanza corroborante che aveva in me l’effetto di farmi dimenticare persino il mio nome. E alla fine, come la sera del nostro primo atto sessuale completo, lei si addormentava al mio fianco, spesso con il mio seme ancora dentro o su di lei, spesso accoccolati in teneri abbracci. Eppure, per mantenere la maschera, si alzava sempre prima del mio risveglio, andando nel letto con l’uomo che entrambi odiavamo a morte.
Fu una sera di quelle che avvenne l’evento scatenante della decisione che cambiò tutto.
Ero molto stanco, fresco di una giornata dai lunghi straordinari, ed entrando dalla porta capii che per la prima volta non avevo le forze per fare nulla con mamma. Certo, il vederla lì, al solito posto, aveva acceso in me la voglia, eppure non avevo energie nemmeno per farmi cavalcare.
- Ciao Mamma. - Le dissi buttandomi sul letto.
- Ciao Padrone. - Restammo in silenzio per qualche momento mentre cercavo di farmi passare il pesante male alla testa che mi era venuto.
- Mi sembri stanco Signore, posso cavalcarti io se lo desideri. -
- Io… non sono sicuro di volere oggi. Sono stanco. -
- Va bene, posso fare qualsiasi cosa per te signore? - Mi chiese lei, forse leggermente scontenta.
- Sai fare i massaggi? -
- Posso sicuramente provarci. -
Mi distesi a pancia in giù, mentre lei si posizionò sopra di me, aiutandomi a sfilare la camicia. Iniziò a passare le mani calde su tutto il corpo, in senso rotatorio, cercando di porre abbastanza pressione per rilassare i miei muscoli della schiena e sciogliere le contratture.
- Posso parlare, Padrone? - Mi chiese lei, proprio mentre mi iniziavo a rilassare.
- Si, parla pure. - Le concessi io.
- Stai passando un brutto momento al lavoro? Sto notando che in questi giorni torni a casa sempre più tardi, spesso terribilmente stanco. -
- Sì, mi è stato assegnato un compito difficile, anche se molto remunerativo. -
- Lavori tanto Padrone, così tanto che mi sento inutile. -
- Se dici un altra volta una cosa del genere ti punirò, siamo intesi? Ognuno in questa casa ha il suo ruolo: io lavoro, mentre tu ti occupi della casa e del mio piacere. -
- Certo signore… conosco bene il mio ruolo e sto riscoprendo la felicità tramite esso. Dico questo solo perché a volte vorrei fare di più, essere di maggior conforto. -
- Come potresti? Sono sempre a lavoro durante la giornata, mentre alla sera sei la perfetta troia di cui ho bisogno. - Dissi, sospirando per il sollievo del suo massaggio, ora passato alla zona cervicale.
- Oggi ho avuto una fantasia, per esempio. - Mi confessò lei, con voce imbarazzata.
- Ti sei masturbata su di essa? - Le chiesi io, ricordandomi che le avevo ordinato di mandarmi un messaggio ogni volta che lo avrebbe fatto.
- No Signore, ero troppo indaffarata… -
- Bene… e su cosa hai fantasticato? - Le chiesi
- Mi sono immaginata a venirti a trovare a lavoro, farmi trovare in bagno per farmi scopare durante durante la pausa pranzo…. - disse lei, lasciva.
- Mh… - iniziai io, immaginandomi la piacevole scena, - e come ti avrei dovuto scopare? -
- Mi sarei appoggiata al muro dietro al gabinetto e tu mi avresti presa da dietro, con forza. -
- E se fossimo stati scoperti? - La incalzai io, sorridendo con la faccia premuta sulle coperte.
- Io… - disse con voce imbarazzata, era ancora difficile per lei parlare in quella maniera di quelle cose, - … io credo che avrei goduto di più. -
Risi, piano: - Ti piacerebbe esser guardata mentre ti scopo? -
- Credo di sì, mi ha sempre eccitato l’idea di farmi vedere inerme ad un uomo, far sapere al mondo che mi stava usando per il suo godimento personale. -
Risi nuovamente: - Allora tanto vale che non ti faccia trovare in bagno, ma sotto la mia scrivania! - Le dissi schernendola: - Così ti vedrebbero tutti sicuramente! -
Rise piano anche lei. Eppure, impercettibilmente, iniziai a sentirla muovere lentamente le anche su di me: era seduta a cavalcioni sulla mia gamba destra, mentre scendeva con le mani sul fondo della schiena, appoggiando la sua bagnata intimità sulla coscia. Decisi di continuare ad istigarla su quella fantasia: - Dovresti vestirti a modo, sai? Come una sexy segretaria con la gonna alta, le autoreggenti e le scarpe con il tacco. Il tuo compito sarebbe quello di stare inginocchiata sotto la scrivania per tutto il giorno, pronta al momento in cui mi ricorderei di te e tirerei fuori il cazzo per farmi fare un pompino. Non ti guarderei nemmeno, saresti solo un oggetto, come il trita documenti che avresti al tuo fianco… -
- Signore… - disse piano mentre, non riuscendo più a controllarsi, iniziò a strusciarsi più evidentemente contro la mia gamba. Muoveva l’anca avanti ed indietro, mentre sentivo il punto più caldo della sua intimità sfregare con la sua lubrificazione naturale. Continuai: - Mi svuoterei le palle nella tua bocca, mentre a lavorare con concentrazione. Ti permetterei di uscire solo in pausa pranzo quando, come hai suggerito tu, ti porterei al bagno e di userei di nuovo, questa volta dandomi piacere grazie alla tua figa. -
Si muoveva sempre più velocemente, ora completamente assorta in quella fantasia. - Signore… io… -
- Stai godendo come una cagna, lì sotto? Non credo di averti dato il permesso. -
Lei si interruppe, con un rantolo di evidente fastidio: - ti supplico Padrone, lascia che io mi dia piacere con la tua gamba, come la puttana che sono. Raccontami ancora di come mi useresti solo come un oggetto sessuale, che mi prenderesti liberamente, senza nemmeno avvisarmi, senza paura che qualcuno ci senta o che almeno gli interessi di noi due… -
- Visto che ci sei continua, ma vergognati ad ogni movimento che fai, sapendo che non riesci a resistere nemmeno una sera senza avere un orgasmo da me. -
- Si signore, è vero, è tutto vero… ti supplico dammi il permesso di venire… ti prego non resisterò a lungo… - I suoi gemiti e affanni riempivano l’aria, come il suono bagnato dei suoi movimenti veloci.
- La tua punizione per non avermi chiesto il permesso di masturbarti è quella di non poter venire ora. Manterrai il controllo sul limite, senza mai cadere nell’orgasmo fintanto che non te lo dirò io. Hai capito? - Le dissi duro.
- Signore, ti prego… - tentò lei.
- Non parlare, ora alzati un secondo che voglio guardarti mentre ti atteggi a troia. -
Lei si alzò quel tanto che bastava per lasciarmi sollevare in piedi al fondo del letto.
- Mi hai bagnato tutti i pantaloni… non ti meriti nemmeno la gamba per masturbarti. Scendi fino al piede! - Avevo lo sguardo duro, mentre lei, rossa in viso per l’eccitazione e la vergogna, si appoggiò con l’intimità nel punto indicato per riprendere il suo atto. Non ci volle che pochissimi istanti prima che tornasse ad ansimare forte come prima, sull’evidente orlo dell’orgasmo.
- Non venire ancora, hai capito? Oppure ti punirò come mai prima. - Le promisi.
- Padrone di prego, è una tortura troppo dura per me. -
- Ti rendi conto che ti stai scopando la mia gamba come fanno i cani? Ti stai dando piacere da sola nella maniera più umiliante possibile! - Ridevo mentre lei cercava, reclinando la testa, di fare del suo meglio per evitare di raggiungere l’orgasmo.
- Conterò fino a dieci, poi avrai il permesso di venire, hai capito? -
- Sì signore, ho capito. - Disse lei tra un gemito e l’altro.
- Uno. - Lei rallentò il ritmo per riuscire a mantenere il controllo.
- Continua a muoverti velocemente. - Le ordinai. - Due. -
Giunse il “tre”, seguito dal “quattro” e poi dal “cinque”. Il suo volto era rosso e contratto dal piacere, mentre, con gli occhi chiusi, mi supplicava di velocizzare il processo. Io non acconsentii alla sua richiesta: - Sei. -
Avevo il pene completamente eretto, talmente duro da dolermi.
- Sette. Ci sei quasi. - La incoraggiai.
- Ti prego, ti supplico… - continuava lei come un mantra, stringendo il tappeto tra le mani.
- Stai andando bene, - le dissi accarezzandola sui capelli, - otto. -
Non resisteva più, pareva febbricitante nel suo vortice di piacere controllato.
- Nove. - Non resistetti più. Mi chinai velocemente, afferrandole la gola delicatamente con una mano e pinzando con l’altra un capezzolo. Lei spalancò gli occhi, sorpresa, vedendomi con il volto estremamente vicino al suo.
- Dieci. Ora vieni per me. -
L’abbandonarsi fu così dirompente per lei che mi costrinse ad attrapparle la bocca con un bacio. Si contorceva mentre cercava di scivolare a terra in preda ai tremori e agli spasimi dell’orgasmo. La sostenevo, ancora in ginocchio, con un braccio, mentre l’altra mano era ancora occupata a pizzicarle il capezzolo. Le sue grida soffocate si intrecciavano con la mia lingua, avida e astuta, che esplorava la sua bocca come a prendermi come ricompensa quel bacio che mi doveva per quell'orgasmo dirompente. Durò per interi minuti, in un unico contorcersi del suo corpo per quel piacere che la stava sciogliendo come bellissima neve al sole. E quando terminò la sollevai, ponendola dolcemente sdraiata sul letto.
- Grazie. - Disse lei, dopo circa dieci minuti di silenzio. La testa mi era ripresa a pulsare dolorosamente, eppure la voglia era più potente.
- Sei stata brava, prima. È stato molto eccitante. - Valutai di ignorare il dolore e di farmi cavalcare giusto per togliermi quella voglia di lei che mi stava riempiendo le vene pulsando più forte del cuore. Poi ripensai a tutte le nostre nottate insieme e scoprii di non ricordare una singola volta in cui mi aveva fatto, senza il controllo diretto da parte mia, un pompino. Effettivamente tutte le volte che ero stato nella sua bocca avevo io il controllo, ero io a muovermi mentre tenevo immobilizzata la sua testa. Mi immaginai mia madre all’opera, tra le mie gambe, come avevo descritto nella fantasia poco prima.
- Mi sono appena reso conto che non mi hai mai fatto un pompino: credo che ora mi vada, non ho le forze per fare altro. -
Lei rimase ferma qualche secondo, sempre distesa sul mio fianco. Pensai si fosse stanca troppo durante il suo orgasmo, quindi le ripetei il comando, voltando lo sguardo verso di lei.
- Io… - iniziò lei, - io non so se so fare i pompini, signore… - Non so perché ma la sua frase e la sua faccia triste, con gli occhi puntati ovunque tranne che nei mei, mi fece tenerezza e mi strappò una risata.
- Cosa intendi esattamente con “io non so se so fare i pompini”? - Le chiesi tra un risolino e l’altro. La tenerezza mi fece fare il dolce gesto istintivo di levarle alcune ciocche di capelli da davanti gli occhi. Lei avvampò pesantemente, rabbrividendo e chiudendo gli occhi a quel sfiorare la sua guancia accaldata.
- Ho solo fatto due pompini in tutta la mia vita. - Confessò lei, con difficoltà.
- Ah si? Come sono andati? - Le chiesi io, girandomi su un fianco e alzandole il volto per darle il segno di guardarmi in faccia.
- Non saprei, signore. - iniziò lei, - non credo troppo bene. -
Sorrisi dolcemente e mi avvicinai ancora di più a lei: fra le nostre teste vi era meno di un palmo di distanza. Entrambi ci eravamo trovati in quei racconti, in quelle fantasie o esperienze passate: le raccontavamo spesso, prima o dopo un coito. Aveva per noi l’effetto di far sembrare quella relazione meno relegata solo a quelle quattro mura che erano la mia camera.
- Raccontami. - Le dissi, sottovoce, quasi a non voler interrompere il flusso dei suoi ricordi.
- La prima volta era con il figlio del vicino di casa, quando abitavo ancora con i miei genitori. Avevo circa diciassette anni, un anno prima di conoscere tuo padre. Mi sedusse comprandomi diversi regali, portandomeli tutte le volte sotto la finestra di camera mia, come nei film d’amore. Un pomeriggio ci incontrammo a casa di un amico comune e lì mi diede un bacio, il mio primo. Da quel giorno ci vedemmo diverse volte di nascosto. Mai avevo disubbidito a mio padre, tanto meno ero uscita di casa mentendogli sulla mia destinazione: eppure pensavo di essermi innamorata di quel ragazzo così atletico e alto, capace con un solo sguardo di sciogliermi tutta. - Si perse qualche secondo nel momento, sorridendo alla sua memoria prima di continuare.
- Mi chiese di fargli un pompino una sera, dopo tre mesi che ci incontravamo. Tirò fuori il pene e mi indicò la mia bocca e io, senza esperienza, affidandomi solo ai racconti delle amiche più lascive, feci come mi chiedeva. Mi lasciavo indicare da lui ciò che dovevo fare e riuscii a farlo venire in qualche minuto. -
- Ti pareva soddisfatto? - Le chiesi io, sorridendo.
- Direi di sì, ma mi confessò che era per lui la prima volta e quindi, penso io, che non abbia avuto molti riferimenti con cui compararmi. -
- Ti venne in bocca? - Lei rise piano: - No, dio, no. Quando mi disse che stava per venire entrai nel panico e finii per tirare fuori il suo pene nel momento del suo culmine. -
Entrambi ridemmo a quell’immagine goffa e divertente della prima esperienza di tanto tempo prima. Poi lei si rabbuiò di colpo. Rimasi in silenzio per farle continuare la sua storia.
- Un po’ del suo sperma mi cadde addosso credo. Penso che sia stato questo a tradirmi. Mio padre capì la sera stessa, appena tornò a casa, che avevo fatto qualcosa con un ragazzo. Mi fece confessare con i suoi modi molto rudi e poi mi chiamò “puttana”. Ti risparmio il supplizio dei giorni successivi: so solo che quando vidi nuovamente quel ragazzo, dopo qualche giorno, aveva gli occhi pesti e la faccia tumefatta di botte. Dopo diverso tempo capii che i miei fratelli lo avevano preso a botte. - Fece un lungo respiro.
- È terribile… - le dissi, accarezzandola per darle conforto.
- Oramai è passato. Si è sposato dopo un paio di anni ed è andato a vivere in città. -
Per qualche secondo calò il silenzio. Poi provai a cambiare discorso, sperando di poterla tirare su di morale: - e la seconda volta? -
- È stato con tuo padre. - Disse schietta. Rimasi nuovamente zitto: non volevo sentir parlare di lui. Eppure lei interpretò il mio silenzio con il desiderio di sentire la storia, che comunque fece breve: - Ci conoscevamo oramai da diverso tempo, veniva spesso a casa, portando regali e costoso vino per i miei genitori. L’azienda in cui era stato assunto, quella in cui lavori anche tu ora, pagava dannatamente bene per gli standard del nostro paese e per quello veniva considerato una specie di dio elargitore di doni in famiglia. Insomma, un ottimo partito. -
Sbuffò leggermente: - Si sapeva che aveva diverse donne e che fosse un dongiovanni quindi mio padre, un giorno, mi prese da parte e mi disse che dovevo fare di tutto per sedurlo e sposarlo: quando veniva a lui veniva a trovarci, papà ci dava il permesso di andare in camera mia da soli, sperando che, se ci fosse stata una relazione sessuale tra noi, si sarebbe innamorato di me. Aveva scelto per me e mi fu così facile non andargli contro. Fu in uno di quelle visite che mi chiese di fargli un pompino. Nella stanza affianco mio padre leggeva il giornale fingendo di non sentire niente. -
Non descrisse i particolari, né si dilungò altrimenti.
- Io… - Non sapevo cosa dire.
- Ma ora ci sei tu! - Disse lei, avvicinandosi di più a me. La strinsi in un dolce abbraccio, così tenero che sperai di poterle sciogliere ogni paura e trauma. Dovevo dirle qualcosa, eppure nessuna frase mi pareva adatta a quella situazione.
- Non volevo rattristarti. Non pensare che rimpianga qualcosa: tutto ciò che ho passato mi ha condotto qui ora, da te. Sono sincera nel dirti che sei la cosa più bella che mi sia capitata nella mia vita e che, anche in questa situazione di segretezza e paura, mi reputo nel momento più felice della mia vita. Ti amo e farò di tutto affinché anche tu mi ami: ti ricordo che ho scelto di mia spontanea volontà di essere la tua sottomessa. -
Si sciolse leggermente dall’abbraccio, guardandomi dritto negli occhi, con una determinazione mai vista in vita mia: - Se mi insegni, ti farò tutti i pompini che desideri. -
Era difficile per me guardarla in quel momento: troppe erano le emozioni che mi vorticavano nello stomaco e sempre più forte il dolore pulsante alla testa. Le immagini di mia madre che, sin da quando avevo memoria, teneva la testa bassa e mai si esponeva, cozzavano forte con quelle di quella stessa donna, nuda e con i capelli scompigliati dall’orgasmo, che mi giurava nuovamente il suo amore. In quel momento salì alla lucidità il pensiero che, in fondo, anche io la amavo profondamente.
Eppure non dissi niente: sentivo in me le parole congelarsi in gola, a fare compagnia alla nausea. Mi vennero le lacrime agli occhi talmente era forte quell’emozione, talmente era dirupante la sensazione di averle perdonato con gli interessi tutti i momenti in cui non si era schierata con me per proteggermi contro mio padre, in cui era rimasta in silenzio, probabilmente afflitta al mio pari dal mio dolore. La strinsi forte, più forte che potevo, ma rimasi zitto.
Dopo diversi secondi di silenzio, una volta ripresomi e deciso a non rivelarle niente dei miei sentimenti in quel momento, le dissi: - Ora non ho le energie per fare molto, rimandiamo a domani. Ora desidero solo stare così, stretto a te, finchè non mi addormento. Perfavore resta. -
Sembravano le parole di un bambino: Ero tornato figlio, retrocesso in quel momento dalla mia posizione da dominatore e padrone.
Lei si sistemò meglio tra le mie braccia ed entrambi rimanemmo lì, a cullarci nel profumo dell’altro, finché il sonno non ci colse entrambi.
Il giorno dopo, grazie ad un aspirina e ad una buna notte di riposo, riuscii a sconfigger il male alla testa. In cucina mi aspettava già il caffè pronto e la colazione in tavola: un piccolo ordine che avevo dato a mia madre.
- Buongiorno! - Mi disse lei con il suo solito sguardo remissivo incorniciato da un gentile sorriso. - Hai dormito bene? Ti è passato il male alla testa? -
- Buongiorno, sì, questa mattina sto molto meglio grazie. - Dissi, mentre prendevo posto a tavola, - sarà stato il tuo massaggio terapeutico! - Le ammiccai mentre iniziavo a mescolare il caffè.
Lei sorrise leggermente, mantenendo lo sguardo puntato verso il basso. Oramai leggevo facilmente i suoi pensieri, capivo che stava pensando a qualcosa e che era indecisa se esporre o meno i suoi ragionamenti: - Dimmi ciò che desideri dirmi. - Le ordinai, con nonchalance.
Lei parve leggermente stupita, ma eseguì l’ordine con dovizia: - Pensavo a ciò che ci siamo detti ieri sera… -
Volevo sinceramente evitare il discorso sui suoi passati, non avevo ancora idea di come l’avrei gestita. Stetti in silenzio e annuii rivolto verso le fette biscottate.
- Pensavo… ma forse è una cosa stupida, so che non dovrei pensare… eppure mi era parsa una buona idea… - Se ne stava ferma, in piedi ritta davanti a me, troppo imbarazzata per dire per intero il suo pensiero, a torturarsi una ciocca di capelli con il dito.
- Avanti, parla. - La incoraggiai io.
- Io… vorrei imparare a fare i… - abbassò ulteriormente la voce - …i pompini. -
- Ti ho detto che te lo avrei insegnato. Non ho dimenticato. -
- Certo Signore… è che pensavo che mi sarei sentita più utile a casa, oggi, a fare esercizio. -
La guardai senza ben capire cosa intendesse, così glielo chiesi.
- Intendo dire, Padrone, - iniziò lei rossa in volto, - che oggi non ho molte cose da fare… e pensavo che potessi dirmi da dove iniziare ad allenarmi e io… -
Mi scappò da ridere ma mi trattenni: - Certo, ora mi cogli impreparato però, dammi del tempo per pensare a cosa fare. Ti scriverò un messaggio. -
Decisi cosa fare soltanto durante il viaggio in bus. Mi sedetti in fondo, da solo, e cercai su alcuni siti porno video di pompini. Non mi misi a sceglierne qualcuno in particolare, ma le inviai dei link casuali, i primi che mi parevano interessanti. Cercai di fare veloce per non farmi vedere da nessuno e compiere il tutto prima di arrivare a lavoro. Casualmente erano tutti del tipo “amatoriale” e ritraevano due ragazze bionde e una rossa con le lentiggini. Allegai ai link un messaggio contenente delle istruzioni: “Prendi una spazzola e prova a replicare i movimenti delle ragazze nei video con il manico. Una volta finiti i video, scegline altri di tuo gusto.”
La risposta arrivò solo una volta arrivato a lavoro: “Grazie Padrone”.
Passai la mattinata ad organizzare il lavoro per il pomeriggio: una lista di nomi e dati che pareva infinita mi aspettava in attesa di essere analizzata. Sbuffai al pensiero che le ore sarebbero passate lentamente e che, probabilmente, mi sarebbe tornato il male alla testa. Mi presi il mio tempo per scorrere velocemente la lista dei nomi: mi era già capitato prima di leggervi dei nomi conosciuti. Purtroppo dovevo valutarli con obbiettività e, alcune volte, avevo dovuto metterli persino nella lista dei licenziamenti sicuri. Fu in quel momento che, tra le decine di nomi da valutare, colsi quello di mio padre.
Rimasi, dapprima scioccato: certo, immaginavo che sarebbe stato valutato, eppure non avevo mai pensato all’eventualità di doverlo fare io. Infondo vi erano relativamente poche possibilità che capitasse proprio a me, soprattutto visto che Stefano, prima di mandare la lista dei nomi giornalieri, passava ad una prima selezione per garantire maggior equità. Pensai che dovesse esser scappato al suo sguardo, finito lì per caso. Per un secondo pensai di andare dal capo a comunicare la svista, eppure non riuscivo a staccare gli occhi dal suo nome sullo schermo. Alla fine cedetti e aprii la finestra per visualizzare tutti i dati completi.
Certo, era uno dei dipendenti con più anzianità, eppure i resoconti degli ultimi anni parevano particolarmente negativi: Il tasso di produttività era minimo e non pareva aver note di particolare merito passato ma, fosse stato per quello, sarebbe stato valutato con serietà perchè generalmente nella media dei suoi colleghi anziani. Eppure vi era molto peggio poco sotto. Molti erano stati i richiami e le visite alle risorse umane per i suoi atteggiamenti poco collaborativi e le mancanze di rispetto verso i colleghi. Vi era anche stata una volta, tre anni prima, dove aveva ricevuto un richiamo disciplinare molto grave dopo aver fatto un apprezzamento esplicito ad una collega più giovane. Sinceramente, non mi aspettavo altro da mio padre.
Rimasi bloccato per un po’ a riflettere sul da farsi. Valutai, per un attimo, di ignorare la cosa: per quanto fossi arrabbiato con lui e lo odiassi, non credevo di riuscire ad arrivare alla cattiveria di inserirlo nella lista dei licenziati così a sangue freddo. Pensai che forse, però, era un test di Stefano verso la mia lealtà o, addirittura un modo per aiutarmi, per darmi il silenzioso permesso per dare lui una maggiore chance di non essere licenziato, essendo io suo figlio.
Le antiche ire salivano a fiotti lenti e caldi, i ricordi del passato mi turbinavano in testa rendendomi inabile al pensare con lucidità. Se solo avessi avuto mia madre lì di fianco, magari sotto la scrivania come nella fantasia della sera precedente, avrei potuto sfogare al nostro modo quell’emozione, esattamente come avevo fatto durante il nostro primo incontro. Incapace di continuare a lavorare afferrai il telefono e andai sulla chat con Mamma: avevo bisogno di lei ora più che mai.
“Ti stai allenando in questo momento?” Le scrissi. Rimasi in attesa qualche secondo, sperando in una sua veloce risposta. Riuscivo a sentire il pulsare del mio cuore direttamente nelle mie orecchie, mentre fissavo, senza davvero vederlo, lo schermo del telefono.
“Si, Signore”. Mi rispose lei.
Mi affrettai a scrivere un nuovo messaggio: “Stai guardando i video che ti ho mandato?”
“Si, proprio ora sono arrivato a quello con la graziosa ragazza con i capelli rossi”. Il pensiero di mia madre, con la spazzola in mano, intenta a riprodurre i movimenti di un video, ebbe l’effetto desiderato di non farmi pensare più ai miei problemi.
“Ti piace davvero questa ragazza? Mi sembra troppo magra”, scrisse Mamma subito di seguito al messaggio precedente.
“Mi piacciono con un seno più grande, ma non ho gusti troppo stringenti”, confessai, “e a te piace vedere quei video?” Ci mise un po’ di tempo per rispondere, probabilmente intenta a scrivere e riscrivere un messaggio adeguato: “Si, Signore, sono molto eccitata.”
“E cosa ti fa eccitare di quei video?”
“Mi piace sentire i gemiti compiaciuti di quegli uomini. Provando le loro mosse sulla spazzola mi immagino che sia il tu a ricevere e io a donare.” La sua risposta mi fece fremere il membro dentro i pantaloni. Mi guardai intorno, sperando non ci fosse nessuno intento a guardarmi: la mia scrivania era situata in fondo ad un ufficio che condividevo con tre colleghi, di cui uno malato e l’altro, il più lontano, mi dava le spalle.
“Mi piacerebbe provare a vedere se sei già migliorata,” le scrissi, “vorrei davvero tu facessi pratica con me”.
“Mi sto davvero eccitando ora… come facciamo?”
“Mi sto eccitando anche io… vorrei vederti all’opera.”
“E come posso fare, Padrone?” Ci pensai su, prima di rispondere “mandami una foto.”
La sua risposta ci mise qualche minuto ad arrivare, ma quando giunse quasi saltai sulla sedia: una foto, da lei inviata, inquadrava il suo decolté e ila sua bocca aperta, la lingua leggermente fuori con il manico bianco della spazzola appoggiato sopra. Era una visione celestiale.
“Va bene così?” Mi scrisse per via della mia mancata risposta dovuta alla contemplazione di quell’immagine.
“Sì, “ le inviai, “ora voglio veder come lo succhi.”
Un altra attesa di qualche minuto, che passai a guardare la schiena del mio collega, nella speranza che non si girasse. La foto che mi inviò non era tanto diversa da quella precedente, se non che il sottile manico era scomparso quasi completamente nella sua bocca, intenta nell’atto del risucchio. Aveva le guance affossate, un rigolo leggero di saliva che le colava dalla bocca e le labbra arricciate attorno a quell’oggetto estraneo.
Non resistetti più: mi alzai e, con passo veloce, andai verso il bagno dove, dopo essermi accertato di essere solo, mi tirai giù le braghe e feci una foto al mio membro eretto: “guarda che effetto mi fai…” le scrissi.
“Padrone… ho così voglia di toccarmi, mentre guardo la tua foto e mi esercito a fare i pompini per te.”
“Fallo, lo farò anche io anche se non ho molto tempo… spogliati nuda”. Mi iniziai a toccare lentamente.
“Signore, sono completamente nuda e bagnata sul tuo letto, come mi devo masturbare?”
“Con le dita, mentre continui a succhiare.”
“Padrone, vorrei fossi qui, vorrei poterti soddisfare con la mia bocca.” I suoi messaggi mi portavano sempre più vicino all’orgasmo, aiutandomi a sciogliere la rabbia.
“Voglio vederti, manda una foto dove si vede come ti tocchi.”
La foto era spettacolare, e bastò a farmi venire copiosamente nel gabinetto dell’ufficio: Lei era distesa sul mio letto, completamente nuda, con una mano tra le cosce e la spazzola tenuta stretta tra le labbra. Esplosi rapidamente, mordendomi la lingua per non emettere nessun rumore sospetto. La testa mi sembrava infinitamente più leggera, le preoccupazioni lontane e posticipabili. Il solo desiderio che mi era rimasto era quello di tornare a casa il prima possibile per passare la nottata con Mamma.
“Sono venuta pensando a te.” Mi scrisse mentre ancora pulivo le mie tracce.
“Anche io, non vedo l’ora di vederti questa sera.”
“Per me è lo stesso… Posso continuare ad esercitarmi nel pomeriggio?”
“Certo,” le risposi, “ma non consumarti, questa sera ti voglio attiva!” le risposi.
Tornai alla scrivania come se niente fosse, cercando di levarmi di faccia il sorriso rilassato del post orgasmo. Guardai nuovamente il nome di mio padre a schermo e, senza pormi troppi fastidi, rimandai la decisione a più tardi: avrei valutato prima tutti gli altri.
Così feci e, in un batter d’occhio arrivò la pausa pranzo: da lì alla fine della giornata tentai di non distrarmi. Eppure, nonostante i miei sforzi di completare il lavoro, rimasero alcuni profili da affrontare: tra questi anche quello di Papà. Non mi feci troppo un cruccio sulla faccenda: come di consueto mi riunii agli amici ed andai a bermi una meritata birra, convincendomi che l’indomani avrei parlato francamente con Stefano della faccenda.
Durante tutto il tragitto in bus continuai a sbirciare le foto sulla chat di Mamma, vagando con la testa al pensiero di farmi raccontare per filo e per segno anche la sessione di allenamento del pomeriggio, di cui non avevo ricevuto notizie tramite messaggio. Ero felice, rilassato, ero riuscito quasi a dimenticarmi della brutta faccenda con mio padre. Eppure, quando rientrai in casa, non potei fare a meno di infiammarmi di nuovo, questa volta con un intensità mai provata.
Avevo appena aperta la porta capii che qualcosa non stava andando nel verso giusto: la televisione, in sala, urlava le notizie del giorno, il rumore dei piatti che venivano sfregati dalle posate, il brontolio costante di mio padre in sottofondo dalla cucina… tutto mi metteva in allarme. A quell’ora, solitamente, i miei genitori avevano già mangiato, mio padre era già a letto in procinto di addormentarsi e la casa era silenziosa. Con passi felpati andai in cucina, sorprendendo mio padre a mangiare da solo, borbottando tra sé e sé improperi e insulti rivolti chissà a chi: di mia madre nessuna traccia. Mi salì un gelo profondo, che mi bloccò il corpo fino in fondo all’anima.
- Che cosa guardi? Non vedi che sto mangiando? - Disse Papà, accorgendosi della mia presenza.
- Dov’è Mamma? - Riuscii a dire a stento, impaurito dalla sua risposta. Questi mi guardò dritto negli occhi, fulminandomi con odio e ira.
- Sta male, - tagliò corto, - vai in camera tua che non voglio vedere la tua faccia di cazzo in questo momento. Potrai mangiare quando avrò finito. -
Come un automa mi mossi verso il corridoio. Attraversai la sala con lo stomaco pesante, mi pareva che, appoggiando il piede a terra ad ogni passo, nel normale atto di camminare, il mio cuore sprofondasse sempre più in un vortice di domande che sussurravano le mie paure: Non credevo alla storia della malattia, mi sembrava improbabile dato che alla mattina mi pareva in perfetta forma. E allora che cos’era successo?
La risposta mi si parò davanti qualche istante dopo, con un impatto tale da spezzarmi le gambe. Arrivato a metà corridoio, all’altezza della mia stanza, sentii dei singhiozzi provenire dalla camera padronale. Senza alcun indugio, molto silenziosamente mi avvicinai, sicuro di riconoscere in quel pianto soffocato i gemiti di mia madre: la trovai lì, in piedi, legata con una cintura all’armadio, in modo tale che non potesse abbassarsi senza sciogliere il nodo. Era completamente nuda ed in lacrime, una scritta rossa, fatta con il rossetto che non le vedevo addosso da anni, era stata scritta sopra il suo seno: recitava “puttana”.
Dal suo sguardo capii che anche se ciò era umiliante non le piaceva affatto. Capii che era stata scopata duramente da mio padre, lo sperma ancora colante dalle sue gambe. Capii che tutto quello era stato fatto per punizione.
- Mi ha trovato con la spazzola in bocca. - Sussurrò tra le lacrime, chiedendomi pietà con lo sguardo. - Tempo fa mi aveva ordinato di non masturbarmi… - diceva come a scusarsi. Ma lei non si doveva scusare. Lei era la vittima. Ero stato io a darle quell’ordine e mio padre a punirla. La rabbia esplose dentro di me, costringendomi a serrare così forte i pugni che sentii la mano perdere sensibilità dal dolore delle mie unghie che penetravano la carne. Odiavo quel mostro, lo odiavo con tutto il cuore. Dovevo fargliela pagare.
Mamma lesse nel mio sguardo la volontà di andare in cucina per prendere a pugni suo marito: - ti supplico, per favore, va in camera tua, abbiamo un piano, ricordi? Ti prego non reagire, studieremo un modo… - mi supplicò.
Un ronzio costante mi annebbiava i sensi: tutta la mia forza di volontà era concentrata sul non reagire in quel momento e, con tutta la probabilità del mondo, mi sarebbe scoppiata dentro una bomba da li a poco e non sarei più riuscito a trattenermi.
- Ti prego, vai in camera tua, prima che ti trovi qui… io starò bene, non preoccuparti, ho subito di peggio. - Le sue preghiere non facevano altro che rendere ogni mio pensiero più difficile: se questo non era stato il peggio, allora lo stronzo si meritava davvero una mia reazione.
- Ti supplico… - Pianse Mamma, incapace di muoversi troppo per via delle braccia legate dietro la schiena. Le ginocchia le tremavano, il rossetto sul petto si stava sbavando per la quantità di lacrime versate.
Poi ecco, un pensiero apparve nella mia mente prima piano, poi con la forza dirompente di un uragano: davanti a me, come un illusione, comparve l’immagine del suo nome sullo schermo del computer, nella lista dei profili da valutare. Ecco quale sarebbe stata la mia vendetta, ecco come sarebbe stato punito. Mi avvicinai a mamma e le baciai delicatamente la fronte, promettendole che non sarebbe mai più successo, poi mi allontanai, non arrischiandomi a slegarla per paura che mio padre capisse qualcosa e reagisse male su di lei.
Tornai in camera, aprii il portatile e velocemente, e con dita tremanti, feci l’accesso da remoto al computer in ufficio. Scelsi il profilo di mio padre e, senza nemmeno pensarci, lo inserii nella lista dei licenziati, godendomi per interi minuti il principio della mia rivalsa.
Sesto capitolo della storia "Il racconto di un figlio".
Ricordo che tutti i personaggi in questa storia sono maggiorenni e consenzienti.
Per tutti i commenti, fantasie o esperienze che vorreste condividere con me (affinché possa trarne ispirazione per racconti) potete scrivermi su horzo@atomicmail.io
-------------
Le giornate passavano lente e tutte uguali mentre cercavo di trovare il mio equilibrio nella situazione appena creata.
Il giorno lo passavo alla scrivania, ad analizzare i dati di tutti i dipendenti a rischio licenziamento, con brevi interruzioni saltuarie per discutere gli stessi dati con il team. Ci vedevamo nella sala riunioni, dove il segretario di Stefano ci portava caffè per tutti e ci davamo il cambio per proiettare il lavoro allo schermo per le presentazioni. Ci incontravamo di team circa una volta ogni due giorni, nell'ultima ora di lavoro e, non avendo quasi mai completato le discussioni in tempo, ci trasferivamo al bar di fiducia, dove l'atmosfera si faceva più rilassata. Eppure, arrivato il week end, iniziarono ad arrivare delle pressioni dai "piani alti" affinché si svolgesse il lavoro più in fretta, così fummo costretti a lunghi straordinari e ad un eventuale semplificazione delle procedure. Lo stress si accumulava e le riunioni si facevano sempre più brevi: iniziando a fidarci delle scelte e dei dati degli altri membri del team, finivamo per non prestare più molta attenzione alle presentazioni, votando in automatico qualsiasi cosa il presentatore ritenesse migliore. D'altra parte come non fidarsi? Più passavo il tempo con quelle persone, più mi convincevo della loro bontà: erano tutti poco felici di quel compito, volenterosi di tenere le persone migliori e stanchi di compiere scelte difficili. Appariva, dando cieca fiducia ad ognuno, di sollevarsi un po' dalle responsabilità e dal peso di quei lunghi giorni.
Alla sera tornavo a casa, stanco e spesso arrabbiato. Mangiavo in silenzio, da solo, aspettando il suono del sonno di mio padre. Poi entravo in camera e lì iniziava l'unica parte della giornata che riusciva a tirarmi un po' su di morale. Mia madre si faceva trovare sempre in mezzo alla stanza, di fianco al letto, nuda ed inginocchiata a terra con i palmi delle mani appoggiati sulle gambe.
Facevamo sesso tutte le notti, imparando a scoprire poco a poco ogni nostro piacere, ogni nostra sensazione. Godevamo l’uno dell’altro in diverse maniere: alcune sere, in cui ero particolarmente sconfitto dalla giornata, le ordinavo di salire su di me, di darsi piacere con una mano mentre mi cavalcava lentamente, il membro pulsante in lei che agognava ogni movimento; altre sere, invece, la salutavo appena: non facevo altro che sfilarmi velocemente i pantaloni e infilarle il pene in bocca, scopandole il più furiosamente possibile la bocca, tra i suoi gemiti e conati, per poi venirle sul seno nudo e madido di sudore per la fatica. Non importava cosa facessimo, che la prendessi con forza e vigore o con dolcezza e passione: ogni volta che raggiungevo l’orgasmo, stringendo forte i suoi capelli e dandole l’ordine di venire anche lei, mi svuotavo di ogni frustrazione, ogni dolore e stanchezza. Il suo corpo era una sostanza corroborante che aveva in me l’effetto di farmi dimenticare persino il mio nome. E alla fine, come la sera del nostro primo atto sessuale completo, lei si addormentava al mio fianco, spesso con il mio seme ancora dentro o su di lei, spesso accoccolati in teneri abbracci. Eppure, per mantenere la maschera, si alzava sempre prima del mio risveglio, andando nel letto con l’uomo che entrambi odiavamo a morte.
Fu una sera di quelle che avvenne l’evento scatenante della decisione che cambiò tutto.
Ero molto stanco, fresco di una giornata dai lunghi straordinari, ed entrando dalla porta capii che per la prima volta non avevo le forze per fare nulla con mamma. Certo, il vederla lì, al solito posto, aveva acceso in me la voglia, eppure non avevo energie nemmeno per farmi cavalcare.
- Ciao Mamma. - Le dissi buttandomi sul letto.
- Ciao Padrone. - Restammo in silenzio per qualche momento mentre cercavo di farmi passare il pesante male alla testa che mi era venuto.
- Mi sembri stanco Signore, posso cavalcarti io se lo desideri. -
- Io… non sono sicuro di volere oggi. Sono stanco. -
- Va bene, posso fare qualsiasi cosa per te signore? - Mi chiese lei, forse leggermente scontenta.
- Sai fare i massaggi? -
- Posso sicuramente provarci. -
Mi distesi a pancia in giù, mentre lei si posizionò sopra di me, aiutandomi a sfilare la camicia. Iniziò a passare le mani calde su tutto il corpo, in senso rotatorio, cercando di porre abbastanza pressione per rilassare i miei muscoli della schiena e sciogliere le contratture.
- Posso parlare, Padrone? - Mi chiese lei, proprio mentre mi iniziavo a rilassare.
- Si, parla pure. - Le concessi io.
- Stai passando un brutto momento al lavoro? Sto notando che in questi giorni torni a casa sempre più tardi, spesso terribilmente stanco. -
- Sì, mi è stato assegnato un compito difficile, anche se molto remunerativo. -
- Lavori tanto Padrone, così tanto che mi sento inutile. -
- Se dici un altra volta una cosa del genere ti punirò, siamo intesi? Ognuno in questa casa ha il suo ruolo: io lavoro, mentre tu ti occupi della casa e del mio piacere. -
- Certo signore… conosco bene il mio ruolo e sto riscoprendo la felicità tramite esso. Dico questo solo perché a volte vorrei fare di più, essere di maggior conforto. -
- Come potresti? Sono sempre a lavoro durante la giornata, mentre alla sera sei la perfetta troia di cui ho bisogno. - Dissi, sospirando per il sollievo del suo massaggio, ora passato alla zona cervicale.
- Oggi ho avuto una fantasia, per esempio. - Mi confessò lei, con voce imbarazzata.
- Ti sei masturbata su di essa? - Le chiesi io, ricordandomi che le avevo ordinato di mandarmi un messaggio ogni volta che lo avrebbe fatto.
- No Signore, ero troppo indaffarata… -
- Bene… e su cosa hai fantasticato? - Le chiesi
- Mi sono immaginata a venirti a trovare a lavoro, farmi trovare in bagno per farmi scopare durante durante la pausa pranzo…. - disse lei, lasciva.
- Mh… - iniziai io, immaginandomi la piacevole scena, - e come ti avrei dovuto scopare? -
- Mi sarei appoggiata al muro dietro al gabinetto e tu mi avresti presa da dietro, con forza. -
- E se fossimo stati scoperti? - La incalzai io, sorridendo con la faccia premuta sulle coperte.
- Io… - disse con voce imbarazzata, era ancora difficile per lei parlare in quella maniera di quelle cose, - … io credo che avrei goduto di più. -
Risi, piano: - Ti piacerebbe esser guardata mentre ti scopo? -
- Credo di sì, mi ha sempre eccitato l’idea di farmi vedere inerme ad un uomo, far sapere al mondo che mi stava usando per il suo godimento personale. -
Risi nuovamente: - Allora tanto vale che non ti faccia trovare in bagno, ma sotto la mia scrivania! - Le dissi schernendola: - Così ti vedrebbero tutti sicuramente! -
Rise piano anche lei. Eppure, impercettibilmente, iniziai a sentirla muovere lentamente le anche su di me: era seduta a cavalcioni sulla mia gamba destra, mentre scendeva con le mani sul fondo della schiena, appoggiando la sua bagnata intimità sulla coscia. Decisi di continuare ad istigarla su quella fantasia: - Dovresti vestirti a modo, sai? Come una sexy segretaria con la gonna alta, le autoreggenti e le scarpe con il tacco. Il tuo compito sarebbe quello di stare inginocchiata sotto la scrivania per tutto il giorno, pronta al momento in cui mi ricorderei di te e tirerei fuori il cazzo per farmi fare un pompino. Non ti guarderei nemmeno, saresti solo un oggetto, come il trita documenti che avresti al tuo fianco… -
- Signore… - disse piano mentre, non riuscendo più a controllarsi, iniziò a strusciarsi più evidentemente contro la mia gamba. Muoveva l’anca avanti ed indietro, mentre sentivo il punto più caldo della sua intimità sfregare con la sua lubrificazione naturale. Continuai: - Mi svuoterei le palle nella tua bocca, mentre a lavorare con concentrazione. Ti permetterei di uscire solo in pausa pranzo quando, come hai suggerito tu, ti porterei al bagno e di userei di nuovo, questa volta dandomi piacere grazie alla tua figa. -
Si muoveva sempre più velocemente, ora completamente assorta in quella fantasia. - Signore… io… -
- Stai godendo come una cagna, lì sotto? Non credo di averti dato il permesso. -
Lei si interruppe, con un rantolo di evidente fastidio: - ti supplico Padrone, lascia che io mi dia piacere con la tua gamba, come la puttana che sono. Raccontami ancora di come mi useresti solo come un oggetto sessuale, che mi prenderesti liberamente, senza nemmeno avvisarmi, senza paura che qualcuno ci senta o che almeno gli interessi di noi due… -
- Visto che ci sei continua, ma vergognati ad ogni movimento che fai, sapendo che non riesci a resistere nemmeno una sera senza avere un orgasmo da me. -
- Si signore, è vero, è tutto vero… ti supplico dammi il permesso di venire… ti prego non resisterò a lungo… - I suoi gemiti e affanni riempivano l’aria, come il suono bagnato dei suoi movimenti veloci.
- La tua punizione per non avermi chiesto il permesso di masturbarti è quella di non poter venire ora. Manterrai il controllo sul limite, senza mai cadere nell’orgasmo fintanto che non te lo dirò io. Hai capito? - Le dissi duro.
- Signore, ti prego… - tentò lei.
- Non parlare, ora alzati un secondo che voglio guardarti mentre ti atteggi a troia. -
Lei si alzò quel tanto che bastava per lasciarmi sollevare in piedi al fondo del letto.
- Mi hai bagnato tutti i pantaloni… non ti meriti nemmeno la gamba per masturbarti. Scendi fino al piede! - Avevo lo sguardo duro, mentre lei, rossa in viso per l’eccitazione e la vergogna, si appoggiò con l’intimità nel punto indicato per riprendere il suo atto. Non ci volle che pochissimi istanti prima che tornasse ad ansimare forte come prima, sull’evidente orlo dell’orgasmo.
- Non venire ancora, hai capito? Oppure ti punirò come mai prima. - Le promisi.
- Padrone di prego, è una tortura troppo dura per me. -
- Ti rendi conto che ti stai scopando la mia gamba come fanno i cani? Ti stai dando piacere da sola nella maniera più umiliante possibile! - Ridevo mentre lei cercava, reclinando la testa, di fare del suo meglio per evitare di raggiungere l’orgasmo.
- Conterò fino a dieci, poi avrai il permesso di venire, hai capito? -
- Sì signore, ho capito. - Disse lei tra un gemito e l’altro.
- Uno. - Lei rallentò il ritmo per riuscire a mantenere il controllo.
- Continua a muoverti velocemente. - Le ordinai. - Due. -
Giunse il “tre”, seguito dal “quattro” e poi dal “cinque”. Il suo volto era rosso e contratto dal piacere, mentre, con gli occhi chiusi, mi supplicava di velocizzare il processo. Io non acconsentii alla sua richiesta: - Sei. -
Avevo il pene completamente eretto, talmente duro da dolermi.
- Sette. Ci sei quasi. - La incoraggiai.
- Ti prego, ti supplico… - continuava lei come un mantra, stringendo il tappeto tra le mani.
- Stai andando bene, - le dissi accarezzandola sui capelli, - otto. -
Non resisteva più, pareva febbricitante nel suo vortice di piacere controllato.
- Nove. - Non resistetti più. Mi chinai velocemente, afferrandole la gola delicatamente con una mano e pinzando con l’altra un capezzolo. Lei spalancò gli occhi, sorpresa, vedendomi con il volto estremamente vicino al suo.
- Dieci. Ora vieni per me. -
L’abbandonarsi fu così dirompente per lei che mi costrinse ad attrapparle la bocca con un bacio. Si contorceva mentre cercava di scivolare a terra in preda ai tremori e agli spasimi dell’orgasmo. La sostenevo, ancora in ginocchio, con un braccio, mentre l’altra mano era ancora occupata a pizzicarle il capezzolo. Le sue grida soffocate si intrecciavano con la mia lingua, avida e astuta, che esplorava la sua bocca come a prendermi come ricompensa quel bacio che mi doveva per quell'orgasmo dirompente. Durò per interi minuti, in un unico contorcersi del suo corpo per quel piacere che la stava sciogliendo come bellissima neve al sole. E quando terminò la sollevai, ponendola dolcemente sdraiata sul letto.
- Grazie. - Disse lei, dopo circa dieci minuti di silenzio. La testa mi era ripresa a pulsare dolorosamente, eppure la voglia era più potente.
- Sei stata brava, prima. È stato molto eccitante. - Valutai di ignorare il dolore e di farmi cavalcare giusto per togliermi quella voglia di lei che mi stava riempiendo le vene pulsando più forte del cuore. Poi ripensai a tutte le nostre nottate insieme e scoprii di non ricordare una singola volta in cui mi aveva fatto, senza il controllo diretto da parte mia, un pompino. Effettivamente tutte le volte che ero stato nella sua bocca avevo io il controllo, ero io a muovermi mentre tenevo immobilizzata la sua testa. Mi immaginai mia madre all’opera, tra le mie gambe, come avevo descritto nella fantasia poco prima.
- Mi sono appena reso conto che non mi hai mai fatto un pompino: credo che ora mi vada, non ho le forze per fare altro. -
Lei rimase ferma qualche secondo, sempre distesa sul mio fianco. Pensai si fosse stanca troppo durante il suo orgasmo, quindi le ripetei il comando, voltando lo sguardo verso di lei.
- Io… - iniziò lei, - io non so se so fare i pompini, signore… - Non so perché ma la sua frase e la sua faccia triste, con gli occhi puntati ovunque tranne che nei mei, mi fece tenerezza e mi strappò una risata.
- Cosa intendi esattamente con “io non so se so fare i pompini”? - Le chiesi tra un risolino e l’altro. La tenerezza mi fece fare il dolce gesto istintivo di levarle alcune ciocche di capelli da davanti gli occhi. Lei avvampò pesantemente, rabbrividendo e chiudendo gli occhi a quel sfiorare la sua guancia accaldata.
- Ho solo fatto due pompini in tutta la mia vita. - Confessò lei, con difficoltà.
- Ah si? Come sono andati? - Le chiesi io, girandomi su un fianco e alzandole il volto per darle il segno di guardarmi in faccia.
- Non saprei, signore. - iniziò lei, - non credo troppo bene. -
Sorrisi dolcemente e mi avvicinai ancora di più a lei: fra le nostre teste vi era meno di un palmo di distanza. Entrambi ci eravamo trovati in quei racconti, in quelle fantasie o esperienze passate: le raccontavamo spesso, prima o dopo un coito. Aveva per noi l’effetto di far sembrare quella relazione meno relegata solo a quelle quattro mura che erano la mia camera.
- Raccontami. - Le dissi, sottovoce, quasi a non voler interrompere il flusso dei suoi ricordi.
- La prima volta era con il figlio del vicino di casa, quando abitavo ancora con i miei genitori. Avevo circa diciassette anni, un anno prima di conoscere tuo padre. Mi sedusse comprandomi diversi regali, portandomeli tutte le volte sotto la finestra di camera mia, come nei film d’amore. Un pomeriggio ci incontrammo a casa di un amico comune e lì mi diede un bacio, il mio primo. Da quel giorno ci vedemmo diverse volte di nascosto. Mai avevo disubbidito a mio padre, tanto meno ero uscita di casa mentendogli sulla mia destinazione: eppure pensavo di essermi innamorata di quel ragazzo così atletico e alto, capace con un solo sguardo di sciogliermi tutta. - Si perse qualche secondo nel momento, sorridendo alla sua memoria prima di continuare.
- Mi chiese di fargli un pompino una sera, dopo tre mesi che ci incontravamo. Tirò fuori il pene e mi indicò la mia bocca e io, senza esperienza, affidandomi solo ai racconti delle amiche più lascive, feci come mi chiedeva. Mi lasciavo indicare da lui ciò che dovevo fare e riuscii a farlo venire in qualche minuto. -
- Ti pareva soddisfatto? - Le chiesi io, sorridendo.
- Direi di sì, ma mi confessò che era per lui la prima volta e quindi, penso io, che non abbia avuto molti riferimenti con cui compararmi. -
- Ti venne in bocca? - Lei rise piano: - No, dio, no. Quando mi disse che stava per venire entrai nel panico e finii per tirare fuori il suo pene nel momento del suo culmine. -
Entrambi ridemmo a quell’immagine goffa e divertente della prima esperienza di tanto tempo prima. Poi lei si rabbuiò di colpo. Rimasi in silenzio per farle continuare la sua storia.
- Un po’ del suo sperma mi cadde addosso credo. Penso che sia stato questo a tradirmi. Mio padre capì la sera stessa, appena tornò a casa, che avevo fatto qualcosa con un ragazzo. Mi fece confessare con i suoi modi molto rudi e poi mi chiamò “puttana”. Ti risparmio il supplizio dei giorni successivi: so solo che quando vidi nuovamente quel ragazzo, dopo qualche giorno, aveva gli occhi pesti e la faccia tumefatta di botte. Dopo diverso tempo capii che i miei fratelli lo avevano preso a botte. - Fece un lungo respiro.
- È terribile… - le dissi, accarezzandola per darle conforto.
- Oramai è passato. Si è sposato dopo un paio di anni ed è andato a vivere in città. -
Per qualche secondo calò il silenzio. Poi provai a cambiare discorso, sperando di poterla tirare su di morale: - e la seconda volta? -
- È stato con tuo padre. - Disse schietta. Rimasi nuovamente zitto: non volevo sentir parlare di lui. Eppure lei interpretò il mio silenzio con il desiderio di sentire la storia, che comunque fece breve: - Ci conoscevamo oramai da diverso tempo, veniva spesso a casa, portando regali e costoso vino per i miei genitori. L’azienda in cui era stato assunto, quella in cui lavori anche tu ora, pagava dannatamente bene per gli standard del nostro paese e per quello veniva considerato una specie di dio elargitore di doni in famiglia. Insomma, un ottimo partito. -
Sbuffò leggermente: - Si sapeva che aveva diverse donne e che fosse un dongiovanni quindi mio padre, un giorno, mi prese da parte e mi disse che dovevo fare di tutto per sedurlo e sposarlo: quando veniva a lui veniva a trovarci, papà ci dava il permesso di andare in camera mia da soli, sperando che, se ci fosse stata una relazione sessuale tra noi, si sarebbe innamorato di me. Aveva scelto per me e mi fu così facile non andargli contro. Fu in uno di quelle visite che mi chiese di fargli un pompino. Nella stanza affianco mio padre leggeva il giornale fingendo di non sentire niente. -
Non descrisse i particolari, né si dilungò altrimenti.
- Io… - Non sapevo cosa dire.
- Ma ora ci sei tu! - Disse lei, avvicinandosi di più a me. La strinsi in un dolce abbraccio, così tenero che sperai di poterle sciogliere ogni paura e trauma. Dovevo dirle qualcosa, eppure nessuna frase mi pareva adatta a quella situazione.
- Non volevo rattristarti. Non pensare che rimpianga qualcosa: tutto ciò che ho passato mi ha condotto qui ora, da te. Sono sincera nel dirti che sei la cosa più bella che mi sia capitata nella mia vita e che, anche in questa situazione di segretezza e paura, mi reputo nel momento più felice della mia vita. Ti amo e farò di tutto affinché anche tu mi ami: ti ricordo che ho scelto di mia spontanea volontà di essere la tua sottomessa. -
Si sciolse leggermente dall’abbraccio, guardandomi dritto negli occhi, con una determinazione mai vista in vita mia: - Se mi insegni, ti farò tutti i pompini che desideri. -
Era difficile per me guardarla in quel momento: troppe erano le emozioni che mi vorticavano nello stomaco e sempre più forte il dolore pulsante alla testa. Le immagini di mia madre che, sin da quando avevo memoria, teneva la testa bassa e mai si esponeva, cozzavano forte con quelle di quella stessa donna, nuda e con i capelli scompigliati dall’orgasmo, che mi giurava nuovamente il suo amore. In quel momento salì alla lucidità il pensiero che, in fondo, anche io la amavo profondamente.
Eppure non dissi niente: sentivo in me le parole congelarsi in gola, a fare compagnia alla nausea. Mi vennero le lacrime agli occhi talmente era forte quell’emozione, talmente era dirupante la sensazione di averle perdonato con gli interessi tutti i momenti in cui non si era schierata con me per proteggermi contro mio padre, in cui era rimasta in silenzio, probabilmente afflitta al mio pari dal mio dolore. La strinsi forte, più forte che potevo, ma rimasi zitto.
Dopo diversi secondi di silenzio, una volta ripresomi e deciso a non rivelarle niente dei miei sentimenti in quel momento, le dissi: - Ora non ho le energie per fare molto, rimandiamo a domani. Ora desidero solo stare così, stretto a te, finchè non mi addormento. Perfavore resta. -
Sembravano le parole di un bambino: Ero tornato figlio, retrocesso in quel momento dalla mia posizione da dominatore e padrone.
Lei si sistemò meglio tra le mie braccia ed entrambi rimanemmo lì, a cullarci nel profumo dell’altro, finché il sonno non ci colse entrambi.
Il giorno dopo, grazie ad un aspirina e ad una buna notte di riposo, riuscii a sconfigger il male alla testa. In cucina mi aspettava già il caffè pronto e la colazione in tavola: un piccolo ordine che avevo dato a mia madre.
- Buongiorno! - Mi disse lei con il suo solito sguardo remissivo incorniciato da un gentile sorriso. - Hai dormito bene? Ti è passato il male alla testa? -
- Buongiorno, sì, questa mattina sto molto meglio grazie. - Dissi, mentre prendevo posto a tavola, - sarà stato il tuo massaggio terapeutico! - Le ammiccai mentre iniziavo a mescolare il caffè.
Lei sorrise leggermente, mantenendo lo sguardo puntato verso il basso. Oramai leggevo facilmente i suoi pensieri, capivo che stava pensando a qualcosa e che era indecisa se esporre o meno i suoi ragionamenti: - Dimmi ciò che desideri dirmi. - Le ordinai, con nonchalance.
Lei parve leggermente stupita, ma eseguì l’ordine con dovizia: - Pensavo a ciò che ci siamo detti ieri sera… -
Volevo sinceramente evitare il discorso sui suoi passati, non avevo ancora idea di come l’avrei gestita. Stetti in silenzio e annuii rivolto verso le fette biscottate.
- Pensavo… ma forse è una cosa stupida, so che non dovrei pensare… eppure mi era parsa una buona idea… - Se ne stava ferma, in piedi ritta davanti a me, troppo imbarazzata per dire per intero il suo pensiero, a torturarsi una ciocca di capelli con il dito.
- Avanti, parla. - La incoraggiai io.
- Io… vorrei imparare a fare i… - abbassò ulteriormente la voce - …i pompini. -
- Ti ho detto che te lo avrei insegnato. Non ho dimenticato. -
- Certo Signore… è che pensavo che mi sarei sentita più utile a casa, oggi, a fare esercizio. -
La guardai senza ben capire cosa intendesse, così glielo chiesi.
- Intendo dire, Padrone, - iniziò lei rossa in volto, - che oggi non ho molte cose da fare… e pensavo che potessi dirmi da dove iniziare ad allenarmi e io… -
Mi scappò da ridere ma mi trattenni: - Certo, ora mi cogli impreparato però, dammi del tempo per pensare a cosa fare. Ti scriverò un messaggio. -
Decisi cosa fare soltanto durante il viaggio in bus. Mi sedetti in fondo, da solo, e cercai su alcuni siti porno video di pompini. Non mi misi a sceglierne qualcuno in particolare, ma le inviai dei link casuali, i primi che mi parevano interessanti. Cercai di fare veloce per non farmi vedere da nessuno e compiere il tutto prima di arrivare a lavoro. Casualmente erano tutti del tipo “amatoriale” e ritraevano due ragazze bionde e una rossa con le lentiggini. Allegai ai link un messaggio contenente delle istruzioni: “Prendi una spazzola e prova a replicare i movimenti delle ragazze nei video con il manico. Una volta finiti i video, scegline altri di tuo gusto.”
La risposta arrivò solo una volta arrivato a lavoro: “Grazie Padrone”.
Passai la mattinata ad organizzare il lavoro per il pomeriggio: una lista di nomi e dati che pareva infinita mi aspettava in attesa di essere analizzata. Sbuffai al pensiero che le ore sarebbero passate lentamente e che, probabilmente, mi sarebbe tornato il male alla testa. Mi presi il mio tempo per scorrere velocemente la lista dei nomi: mi era già capitato prima di leggervi dei nomi conosciuti. Purtroppo dovevo valutarli con obbiettività e, alcune volte, avevo dovuto metterli persino nella lista dei licenziamenti sicuri. Fu in quel momento che, tra le decine di nomi da valutare, colsi quello di mio padre.
Rimasi, dapprima scioccato: certo, immaginavo che sarebbe stato valutato, eppure non avevo mai pensato all’eventualità di doverlo fare io. Infondo vi erano relativamente poche possibilità che capitasse proprio a me, soprattutto visto che Stefano, prima di mandare la lista dei nomi giornalieri, passava ad una prima selezione per garantire maggior equità. Pensai che dovesse esser scappato al suo sguardo, finito lì per caso. Per un secondo pensai di andare dal capo a comunicare la svista, eppure non riuscivo a staccare gli occhi dal suo nome sullo schermo. Alla fine cedetti e aprii la finestra per visualizzare tutti i dati completi.
Certo, era uno dei dipendenti con più anzianità, eppure i resoconti degli ultimi anni parevano particolarmente negativi: Il tasso di produttività era minimo e non pareva aver note di particolare merito passato ma, fosse stato per quello, sarebbe stato valutato con serietà perchè generalmente nella media dei suoi colleghi anziani. Eppure vi era molto peggio poco sotto. Molti erano stati i richiami e le visite alle risorse umane per i suoi atteggiamenti poco collaborativi e le mancanze di rispetto verso i colleghi. Vi era anche stata una volta, tre anni prima, dove aveva ricevuto un richiamo disciplinare molto grave dopo aver fatto un apprezzamento esplicito ad una collega più giovane. Sinceramente, non mi aspettavo altro da mio padre.
Rimasi bloccato per un po’ a riflettere sul da farsi. Valutai, per un attimo, di ignorare la cosa: per quanto fossi arrabbiato con lui e lo odiassi, non credevo di riuscire ad arrivare alla cattiveria di inserirlo nella lista dei licenziati così a sangue freddo. Pensai che forse, però, era un test di Stefano verso la mia lealtà o, addirittura un modo per aiutarmi, per darmi il silenzioso permesso per dare lui una maggiore chance di non essere licenziato, essendo io suo figlio.
Le antiche ire salivano a fiotti lenti e caldi, i ricordi del passato mi turbinavano in testa rendendomi inabile al pensare con lucidità. Se solo avessi avuto mia madre lì di fianco, magari sotto la scrivania come nella fantasia della sera precedente, avrei potuto sfogare al nostro modo quell’emozione, esattamente come avevo fatto durante il nostro primo incontro. Incapace di continuare a lavorare afferrai il telefono e andai sulla chat con Mamma: avevo bisogno di lei ora più che mai.
“Ti stai allenando in questo momento?” Le scrissi. Rimasi in attesa qualche secondo, sperando in una sua veloce risposta. Riuscivo a sentire il pulsare del mio cuore direttamente nelle mie orecchie, mentre fissavo, senza davvero vederlo, lo schermo del telefono.
“Si, Signore”. Mi rispose lei.
Mi affrettai a scrivere un nuovo messaggio: “Stai guardando i video che ti ho mandato?”
“Si, proprio ora sono arrivato a quello con la graziosa ragazza con i capelli rossi”. Il pensiero di mia madre, con la spazzola in mano, intenta a riprodurre i movimenti di un video, ebbe l’effetto desiderato di non farmi pensare più ai miei problemi.
“Ti piace davvero questa ragazza? Mi sembra troppo magra”, scrisse Mamma subito di seguito al messaggio precedente.
“Mi piacciono con un seno più grande, ma non ho gusti troppo stringenti”, confessai, “e a te piace vedere quei video?” Ci mise un po’ di tempo per rispondere, probabilmente intenta a scrivere e riscrivere un messaggio adeguato: “Si, Signore, sono molto eccitata.”
“E cosa ti fa eccitare di quei video?”
“Mi piace sentire i gemiti compiaciuti di quegli uomini. Provando le loro mosse sulla spazzola mi immagino che sia il tu a ricevere e io a donare.” La sua risposta mi fece fremere il membro dentro i pantaloni. Mi guardai intorno, sperando non ci fosse nessuno intento a guardarmi: la mia scrivania era situata in fondo ad un ufficio che condividevo con tre colleghi, di cui uno malato e l’altro, il più lontano, mi dava le spalle.
“Mi piacerebbe provare a vedere se sei già migliorata,” le scrissi, “vorrei davvero tu facessi pratica con me”.
“Mi sto davvero eccitando ora… come facciamo?”
“Mi sto eccitando anche io… vorrei vederti all’opera.”
“E come posso fare, Padrone?” Ci pensai su, prima di rispondere “mandami una foto.”
La sua risposta ci mise qualche minuto ad arrivare, ma quando giunse quasi saltai sulla sedia: una foto, da lei inviata, inquadrava il suo decolté e ila sua bocca aperta, la lingua leggermente fuori con il manico bianco della spazzola appoggiato sopra. Era una visione celestiale.
“Va bene così?” Mi scrisse per via della mia mancata risposta dovuta alla contemplazione di quell’immagine.
“Sì, “ le inviai, “ora voglio veder come lo succhi.”
Un altra attesa di qualche minuto, che passai a guardare la schiena del mio collega, nella speranza che non si girasse. La foto che mi inviò non era tanto diversa da quella precedente, se non che il sottile manico era scomparso quasi completamente nella sua bocca, intenta nell’atto del risucchio. Aveva le guance affossate, un rigolo leggero di saliva che le colava dalla bocca e le labbra arricciate attorno a quell’oggetto estraneo.
Non resistetti più: mi alzai e, con passo veloce, andai verso il bagno dove, dopo essermi accertato di essere solo, mi tirai giù le braghe e feci una foto al mio membro eretto: “guarda che effetto mi fai…” le scrissi.
“Padrone… ho così voglia di toccarmi, mentre guardo la tua foto e mi esercito a fare i pompini per te.”
“Fallo, lo farò anche io anche se non ho molto tempo… spogliati nuda”. Mi iniziai a toccare lentamente.
“Signore, sono completamente nuda e bagnata sul tuo letto, come mi devo masturbare?”
“Con le dita, mentre continui a succhiare.”
“Padrone, vorrei fossi qui, vorrei poterti soddisfare con la mia bocca.” I suoi messaggi mi portavano sempre più vicino all’orgasmo, aiutandomi a sciogliere la rabbia.
“Voglio vederti, manda una foto dove si vede come ti tocchi.”
La foto era spettacolare, e bastò a farmi venire copiosamente nel gabinetto dell’ufficio: Lei era distesa sul mio letto, completamente nuda, con una mano tra le cosce e la spazzola tenuta stretta tra le labbra. Esplosi rapidamente, mordendomi la lingua per non emettere nessun rumore sospetto. La testa mi sembrava infinitamente più leggera, le preoccupazioni lontane e posticipabili. Il solo desiderio che mi era rimasto era quello di tornare a casa il prima possibile per passare la nottata con Mamma.
“Sono venuta pensando a te.” Mi scrisse mentre ancora pulivo le mie tracce.
“Anche io, non vedo l’ora di vederti questa sera.”
“Per me è lo stesso… Posso continuare ad esercitarmi nel pomeriggio?”
“Certo,” le risposi, “ma non consumarti, questa sera ti voglio attiva!” le risposi.
Tornai alla scrivania come se niente fosse, cercando di levarmi di faccia il sorriso rilassato del post orgasmo. Guardai nuovamente il nome di mio padre a schermo e, senza pormi troppi fastidi, rimandai la decisione a più tardi: avrei valutato prima tutti gli altri.
Così feci e, in un batter d’occhio arrivò la pausa pranzo: da lì alla fine della giornata tentai di non distrarmi. Eppure, nonostante i miei sforzi di completare il lavoro, rimasero alcuni profili da affrontare: tra questi anche quello di Papà. Non mi feci troppo un cruccio sulla faccenda: come di consueto mi riunii agli amici ed andai a bermi una meritata birra, convincendomi che l’indomani avrei parlato francamente con Stefano della faccenda.
Durante tutto il tragitto in bus continuai a sbirciare le foto sulla chat di Mamma, vagando con la testa al pensiero di farmi raccontare per filo e per segno anche la sessione di allenamento del pomeriggio, di cui non avevo ricevuto notizie tramite messaggio. Ero felice, rilassato, ero riuscito quasi a dimenticarmi della brutta faccenda con mio padre. Eppure, quando rientrai in casa, non potei fare a meno di infiammarmi di nuovo, questa volta con un intensità mai provata.
Avevo appena aperta la porta capii che qualcosa non stava andando nel verso giusto: la televisione, in sala, urlava le notizie del giorno, il rumore dei piatti che venivano sfregati dalle posate, il brontolio costante di mio padre in sottofondo dalla cucina… tutto mi metteva in allarme. A quell’ora, solitamente, i miei genitori avevano già mangiato, mio padre era già a letto in procinto di addormentarsi e la casa era silenziosa. Con passi felpati andai in cucina, sorprendendo mio padre a mangiare da solo, borbottando tra sé e sé improperi e insulti rivolti chissà a chi: di mia madre nessuna traccia. Mi salì un gelo profondo, che mi bloccò il corpo fino in fondo all’anima.
- Che cosa guardi? Non vedi che sto mangiando? - Disse Papà, accorgendosi della mia presenza.
- Dov’è Mamma? - Riuscii a dire a stento, impaurito dalla sua risposta. Questi mi guardò dritto negli occhi, fulminandomi con odio e ira.
- Sta male, - tagliò corto, - vai in camera tua che non voglio vedere la tua faccia di cazzo in questo momento. Potrai mangiare quando avrò finito. -
Come un automa mi mossi verso il corridoio. Attraversai la sala con lo stomaco pesante, mi pareva che, appoggiando il piede a terra ad ogni passo, nel normale atto di camminare, il mio cuore sprofondasse sempre più in un vortice di domande che sussurravano le mie paure: Non credevo alla storia della malattia, mi sembrava improbabile dato che alla mattina mi pareva in perfetta forma. E allora che cos’era successo?
La risposta mi si parò davanti qualche istante dopo, con un impatto tale da spezzarmi le gambe. Arrivato a metà corridoio, all’altezza della mia stanza, sentii dei singhiozzi provenire dalla camera padronale. Senza alcun indugio, molto silenziosamente mi avvicinai, sicuro di riconoscere in quel pianto soffocato i gemiti di mia madre: la trovai lì, in piedi, legata con una cintura all’armadio, in modo tale che non potesse abbassarsi senza sciogliere il nodo. Era completamente nuda ed in lacrime, una scritta rossa, fatta con il rossetto che non le vedevo addosso da anni, era stata scritta sopra il suo seno: recitava “puttana”.
Dal suo sguardo capii che anche se ciò era umiliante non le piaceva affatto. Capii che era stata scopata duramente da mio padre, lo sperma ancora colante dalle sue gambe. Capii che tutto quello era stato fatto per punizione.
- Mi ha trovato con la spazzola in bocca. - Sussurrò tra le lacrime, chiedendomi pietà con lo sguardo. - Tempo fa mi aveva ordinato di non masturbarmi… - diceva come a scusarsi. Ma lei non si doveva scusare. Lei era la vittima. Ero stato io a darle quell’ordine e mio padre a punirla. La rabbia esplose dentro di me, costringendomi a serrare così forte i pugni che sentii la mano perdere sensibilità dal dolore delle mie unghie che penetravano la carne. Odiavo quel mostro, lo odiavo con tutto il cuore. Dovevo fargliela pagare.
Mamma lesse nel mio sguardo la volontà di andare in cucina per prendere a pugni suo marito: - ti supplico, per favore, va in camera tua, abbiamo un piano, ricordi? Ti prego non reagire, studieremo un modo… - mi supplicò.
Un ronzio costante mi annebbiava i sensi: tutta la mia forza di volontà era concentrata sul non reagire in quel momento e, con tutta la probabilità del mondo, mi sarebbe scoppiata dentro una bomba da li a poco e non sarei più riuscito a trattenermi.
- Ti prego, vai in camera tua, prima che ti trovi qui… io starò bene, non preoccuparti, ho subito di peggio. - Le sue preghiere non facevano altro che rendere ogni mio pensiero più difficile: se questo non era stato il peggio, allora lo stronzo si meritava davvero una mia reazione.
- Ti supplico… - Pianse Mamma, incapace di muoversi troppo per via delle braccia legate dietro la schiena. Le ginocchia le tremavano, il rossetto sul petto si stava sbavando per la quantità di lacrime versate.
Poi ecco, un pensiero apparve nella mia mente prima piano, poi con la forza dirompente di un uragano: davanti a me, come un illusione, comparve l’immagine del suo nome sullo schermo del computer, nella lista dei profili da valutare. Ecco quale sarebbe stata la mia vendetta, ecco come sarebbe stato punito. Mi avvicinai a mamma e le baciai delicatamente la fronte, promettendole che non sarebbe mai più successo, poi mi allontanai, non arrischiandomi a slegarla per paura che mio padre capisse qualcosa e reagisse male su di lei.
Tornai in camera, aprii il portatile e velocemente, e con dita tremanti, feci l’accesso da remoto al computer in ufficio. Scelsi il profilo di mio padre e, senza nemmeno pensarci, lo inserii nella lista dei licenziati, godendomi per interi minuti il principio della mia rivalsa.
2
voti
voti
valutazione
10
10
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Il racconto di un figlio V
Commenti dei lettori al racconto erotico